Un po' più in ritardo di quel che pensavo, comunque ---
Mercoledì undici Aprile
I.
Erano quasi le due di mattina, e mi
chiedevo dove potesse essere per ritardare così tanto rispetto alla sua solita
ora. Non mi aveva nemmeno chiamato. Non mi aveva avvisato. Nulla di nulla. Mi
aveva lasciato solo in balia della preoccupazione, della rabbia e di quello strano, pungente presentimento che diceva: ora non
tornerà più, è stanco.
Guardavo l’orologio con
insistenza ogni minuto, e mi sembrava che il tempo, in quell’assurda
dilatazione non scorresse mai e non lo riportasse mai da me. I battiti scanditi
e ripetuti ossessivamente mi facevano impazzire – un
secondo, un secondo in meno e lui sarà da te - un secondo in più in cui lui sarà
lontano da te.
Perché forse non sarebbe mai
tornato.
Quell’orologio non funzionava
correttamente, pensai ad un certo punto. C’era una frattura, una discrepanza
netta tra il mio tempo interno che aveva vissuto una giornata intera e quello
segnato nel quadrante rotondo che continuava a ticchettare con noncuranza i
suoi secondi nervosi, spossanti, eterni. Doveva esserci uno sbaglio, una
demarcazione tra la mia percezione interiore ed il mondo. O stavo diventando
pazzo per colpa di Die.
Gliel’avevo detto io di non rincasare.
Avevo gridato con la stessa ferocia di tutti i giorni che lo odiavo e che non
volevo più vederlo, ed allora era perfettamente naturale che fosse ancora fuori.
Non era nemmeno casa sua. Era una sensazione strana, essere
gelosi di una persona che quotidianamente cercavo di convincermi valere poco
per me, ma che sapevo essere fondamentale. Me ne stavo seduto sul divano grigio
e guardavo l’orologio, e poi la finestra, e poi di nuovo l’orologio. Il cielo
si era appena imbrunito, disperdendo le nuvole rosa e rosse in una pozza
profonda di blu – quel colore che non è ancora il buio denso ed impenetrabile,
ma una tinta che possiede una certa lucentezza elettrica, come sospesa al
confine tra notte e giorno, punteggiata del chiarore di stelle.
Mi alzai, agitato. Scostai il
tendaggio della finestra e osservai con attenzione il cortile illuminato dai
lampioni. Non mi resi conto di quanto tempo stetti a meditare in quella
posizione, né di cosa pensai, perché ogni mia immaginazione viaggiava per un
verso inspiegabile. Ogni tanto, sulla via lastricata che conduceva alla strada,
passava una persona. Io la studiavo attentamente cercando di distinguere
nell’oscurità sempre più fitta i contorni confusi di Die che si stava
avvicinando, che stava per aprire la porta e salire le scale e ritornare. Ma
non era mai lui. Erano mille volti indefiniti e sconosciuti che si perdevano
nella nebbia della mia memoria e nella tristezza della mia
posizione vigile, nascosta, curva su se stessa in una sorta di muta
colpevolezza.
Intanto era passata un’ora nella
mia più completa confusione. Avevo provato a fare di tutto – a leggere, ad
ascoltare musica, a rivedere i miei spartiti, a ritirare le cose che avevo
lasciato in disordine, eppure ogni volta mi sentivo stanco, mi afflosciavo su
una sedia e riprendevo il mio snervante percorso tra l’orologio e la finestra.
Odiavo sentirmi così male. Odiavo
capire di essere preoccupato per lui. Odiavo questo senso di attesa indicibile,
fremente, inspiegabile, e la debolezza nella quale mi faceva precipitare.
Odiavo sprecare ore preziose della mia vita davanti ad una finestra, cercando
di scorgere il volto di una persona che forse non sarebbe mai arrivata. Odiavo
sentirmi sconfitto per aver perso il controllo. Ma sopra a tutto odiavo Die che
mi faceva stare così male senza nemmeno accorgersene, senza nemmeno
preoccuparsene.
“Stupido orgoglio. Stupido,
maledetto, impossibile orgoglio.” Parlavo da solo. “Se quell’idiota pensa che
me ne starò qui tutta la sera a macerarmi per lui si sbaglia davvero.”
Presi il giubbotto ed uscii per
le strade silenziose.
II.
Il viale era
buio, e di tanto in tanto la luce artificiale di un lampione si apriva
una
breccia contro il mio viso. Anche se era ormai primavera inoltrata,
quella
stagione delicata come un sussurro e leggera, fresca, dipinta di colori
tenui e
soffusi, io non potevo che sentirmi nero e pieno di rabbia.
L’aria fredda della notte mi batteva sul volto. Non sapevo
nemmeno
dove stavo camminando. Erano le tre del mattino, la Città era
addormentata
sotto la sua coperta meravigliosa di stelle, e forse io ero
l’unica anima
inquieta che non riusciva a trovare uno spazio per sé, un luogo
dove fermarsi a
riposare.
Mi fermai su
una panchina sospesa al centro di un paesaggio deserto. In quello spiazzo
c’erano molti alberi ed un prato verde che probabilmente la mattina dopo si
sarebbe risvegliato come tutti gli esseri sui quali la primavera posa il suo sguardo.
Quella scena
di pace e quiete notturna mi riportò alla mente una sera che
avevo trascorso
con Die in riva al mare, in un posto che frequentavo da bambino e che
conservavo nel mio cuore come un piccolo rifugio segreto. Non sapevo
perché, ma
un giorno avevo deciso di voler condividere quello spazio
personalissimo ed
intimo con lui. Forse era stato uno sbaglio. All’inizio mi era
sembrato un
momento nel quale entrambi raggiungevamo uno stato superiore
– nel
quale non esistevano più le brutture del nostro rapporto. Sapevo
cosa rischiavo
conducendolo laggiù: gli mostravo il mio mondo e lasciavo che
lui vi penetrasse. Avrebbe potuto schiantarlo, distruggerlo, bruciarlo,
ed ero stato
io a consegnargli la chiave, a mostrargli la porticina scavata
nell’essenza più
taciuta di me stesso. Una mia piccola follia romantica. Perché
c’erano dei
momenti in cui pensavo veramente di essere pazzo di lui, di amarlo, di
volerlo
alla follia. Ma allora – allora ero stanco anch’io, ero
stremato dalle nostre
lotte quotidiane, dalla vanità e dall’inconsistenza del
nostro rapporto.
Quella notte
lui mi aveva detto che ero la rosa del Piccolo Principe. Me lo ricordo ancora,
e lo ricorderò per sempre come uno dei momenti più belli trascorsi assieme a
lui, perché non posso negare di aver sfiorato, in certi istanti, il paradiso.
Eppure anche quell’effimera illusione era sfocata con le luci del mattino,
quando, tornando a casa, spezzando la magia del tempo che ci preservava in
quell’aurea situazione, avevamo ripreso a litigare come prima.
Avrei voluto
non averlo mai rincontrato. Avrei voluto, quella sera di molti mesi prima,
ignorarlo, passargli oltre senza degnarlo di uno sguardo, dimenticarmi della
sua presenza. Avevo già sbarrato quel sentiero. Perché ci ero ritornato? Per
farmi del male? Avevo complicato una situazione perfetta, rendendola
impossibile. Ora lui transitava nella mia vita e abusava della mia pazienza. Io
l’avevo riportato a tanto. In fondo me l’ero cercata.
Ma stavo per
cedere. La diga che conteneva i miei sentimenti, la mia rabbia, il mio dolore,
la mia stanchezza, presto sarebbe stata distrutta da un colpo improvviso, ed
avrebbe lasciato dilagare il me stesso angry young man senza poterlo fermare.
Allora,
presupponevo, ci sarebbe stata una nuova parola Fine. Quella perentoria,
decisiva, indiscutibile. Disperata.
Le luci erano
accese quando tornai a casa. Die doveva essere appena arrivato, perché si stava
ancora spogliando. Lo guardai in controluce mentre si sfilava la camicia
macchiata di vino rosso e la lasciava cadere per terra con la sua solita
fastidiosa noncuranza. Mi guardò
dalla specchiera mentre entravo in camera da letto e non disse una parola.
Nemmeno una singola sillaba di giustificazione. Eppure ero certo che leggesse
molte domande sul mio volto. Mi avvicinai
per primo e mi lasciai cadere sulla poltrona.
“Hansi, non
dovresti andare in giro a quest’ora del mattino da solo.”
“Mi pare che
non fossi l’unico.”
“Io non ero
solo.” Me lo rinfacciò con un sorrisino pieno di sprezzo e di falsità.
“E con chi
eri, di grazia?”
“Con i miei
amici. I miei compagni di corso. Festeggiavamo.” Sapeva quanto mi desse
fastidio di parlare non solo del suo corso,
ma anche dei suoi compagni di corso.
“Cosa
festeggiavi?”
“Il mio ultimo
esame.”
“Scusa?”
“Sì, l’ultimo
esame!” Me lo diceva con una soddisfazione che mi lasciò spiazzato.
“Prima della discussione della tesi.”
Sbattei gli
occhi un paio di volte prima di ribattere. “Ah.” Non sapevo cosa rispondere. “Potevi
dirmelo. Potevi dirmi dove andavi. O almeno, potevi dirmi che –“ Ero
tremendamente dispiaciuto. Anzi, mi sentivo come calpestato, stracciato,
disfatto. Mi aveva sfoderato un colpo in pieno stomaco. Sentivo ancora il
bruciore di quelle parole taglienti proferite con tanta subdola meschinità.
“Hansi, ma tu
odii che io ti parli di questi argomenti!”
Forse si
aspettava una reazione. Non risposi nemmeno. Mi sentivo improvvisamente stanco
e pervaso da un grande senso di vuoto. Voltai semplicemente le
spalle ed uscii da quella camera improvvisamente buia e fredda.
Seduto sul
divano della sala, pensai che era stato davvero, davvero crudele. Non
solo
aveva fatto una cosa che deprecavo, e questo, in fondo, nonostante
tutte le mie
urla ed i miei insulti, potevo anche lasciarlo passare. L’aveva
fatto senza
dirmi niente, tacendo con l’intento preciso di farmi del male. Il
mio ragazzo
si laureava, festeggiava coi suoi amici, e io nemmeno lo sapevo. Mi
sembrava
grottesco e terribile allo stesso tempo. Io mi sentivo completamente
disarmato. Non avevo nemmeno l’intenzione di tornare in camera
per vederlo
lontano un milione di chilometri col suo sorriso di vittoria stampato
sulla faccia.
- Che stupido,
- Mi dissi. – Ti sei innamorato. Ma è troppo tardi. -
Passai tutto
il resto della notte sveglio tra il divano e la finestra, mentre lui dormiva
senza preoccuparsi di niente, chiedendomi perché dovesse essere così spietato e
perché tutto andasse così stupidamente al contrario.
Ringraziamenti:
Manny-chan: Don't cry,Manny, don't cry [and dont'you cryyyyyyyyy tonight...]! Eccoti un capitolo dal finale assolutamente amaro per ripristinare l'Equilibrio Cosmico...
Chloe90: Scusa se ti ho tenuto sulle spine per così tanto,
eccoti il nuovo capitolo,
sperando[boh.non.va.più.del.tutto...scusa.il.disordine]dicevo,sperando.non.la.prendi.come.una.tragedia...
Scusate.l'inconveniente,Non.so.come.farò.d'ora.in.avanti.Sostituire.questo.pezzo.è.estremamente.difficile...
Kisses_
Martina