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Autore: _Blanca_    06/01/2014    1 recensioni
| Spoiler VIII Stagione |
Jane Leigh, ragazza inglese trasferita nel nord della Pennsylvania, trascorre le sue giornate nel negozio di libri della signora Sternwood, dove lavora come commessa. Ma quando la piccola libreria diventa il palcoscenico di una morte inspiegabile, Jane dovrà vedersela con due cacciatori di mostri e un doppio mistero da sbrogliare.
"Jane si volta, rallentata da un vago senso di panico. I legittimi occupanti della camera sono sulla soglia. La stanno guardando male, ma almeno non ci sono fucili spianati nelle vicinanze. La donna si schiarisce la voce, rilassa le spalle e chiude il diario, avvicinandolo al petto. Chiama a raccolta tutta la sua capacità di affabile chiacchiericcio: «Oh, be', questo sarebbe il momento di una frase brillante per... convincervi che non sto facendo quello che sembra che io stia facendo. Ma non riesco a pensare a niente del genere. Anche perché sto facendo esattamente quello che sembra che io stia facendo, quindi... oh, smettetela con le occhiatacce. Qui siete voi quelli che vanno in giro a farsi passare per agenti federali. Io ho solo forzato una serratura. Che, per la cronaca, era una serratura da quattro soldi»."
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Ottava stagione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Hardy Boys & Nancy Drew '
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part 1
Capitolo: 03/09
N/A. Da brava Befana quale sono, oggi vi lascio un capitolo a base di mele, dolci e... poco chiari comportamenti da parte di Jane. Perché è più divertente scoprire un personaggio poco a poco (¬‿¬)


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x










Parte seconda










«Tutto a posto?»
Dean, raggiunta la porta socchiusa, si è ritrovato sulla soglia di una cucina: i mobili sono pitturati di un opaco verde acqua e uno degli sportelli della dispensa è aperto.
«...è solo caduto un piatto».
Jane, alzandosi in piedi, spunta da dietro l'isola al centro della cucina. Ha raccolto tre grossi pezzi di coccio dal linoleum screziato e borbotta qualcosa riguardo a mani fatte di ricotta e ore di sonno perdute.
Ma di tutto ciò, ora come ora, Dean Winchester ne è consapevole in un modo molto vago.
Ha trovato la fonte del profumo. È lì. Sul piano dell'isola, accanto a un guantone da forno, adagiata su un piatto bianco: una torta. E Dean la guarda come guarderebbe una spogliarellista sul bancone di un bar: un accenno di sorriso, un sopracciglio inarcato, la mente che galoppa nell'immaginare le meraviglia nascoste sotto la calda crosta dorata.
«Una torta».
Jane appoggia i cocci accanto al lavabo e chiude lo sportello. Sta dando le spalle a Dean e sembra rispondere per pura forza d'inerzia.
«Concordo».
«Fatta in casa?»
«Be', questa è una casa».
«Cosa c'è dentro?»
«Che originale metodo investigativo».
Dean smette di fissare la torta, quando Jane si volta verso di lui.
La ragazza socchiude appena le palpebre struccate, arricciando il naso per accompagnare un sorrisetto forzato e a stento percepibile.
«Non mi ritengo un'esperta, ma credo che possiamo eliminare la mia torta dalla lista dei sospettati. Perché immagino che lei sia qui per chiedermi della morte di Donny Allen, giusto?»
Senza aspettare una risposta, Jane circumnaviga metà del ripiano e torna in soggiorno.
Il cacciatore non può far altro che dimenticarsi — a malincuore — della torta, seguire la padrona di casa e iniziare con le domande.
«Sì, esatto... so che ha parlato con la polizia. Ho letto i verbali della sua testimonianza e ho visionato la ripresa della telecamera del negozio. Ma devo chiederle se c'è qualcosa che pensa di aver tralasciato, ieri sera, durante la deposizione». Dean si ferma nel mezzo del salotto e infila le mani nelle tasche dei pantaloni. «Qualsiasi dettaglio. Qualsiasi piccola stranezza che ha notato... prima o dopo la morte dell'uomo».
Jane sta raccogliendo il libro dal tavolinetto da caffè. Quando lo chiude, l'uomo ne scorge la copertina: Storia dell'America del Nord.
«Tutto quello che ho visto e sentito l'ho detto alla polizia» risponde la ragazza, mentre se ne va fino agli scaffali e infila Storia dell'America del Nord nell'unico spazio libero, tra gli altri volumi. «Non che sia molto, comunque. Le mie capacità di osservazione non erano al loro meglio: tendo a essere distratta quando mi minacciano con una pistola».
Dean ascolta, osserva e aggrotta la fronte.
Mentre guidava verso il 2601 di Wakefield Terrace, complice quanto saputo dalla polizia, si sarebbe detto certo di cosa avrebbe trovato una volta raggiunto l'indirizzo: una donna confusa e turbata. Come da prassi. Ma Jane Leigh sembra tutto fuorché turbata. Dopo essere stata testimone di una morte brutale ed inspiegabile e aver passato le ore successive in una centrale di polizia, il mattino seguente prepara torte e legge di libri di storia. Non si preoccupa di aver chiuso la porta in faccia a un agente federale. Parla con calma e chiarezza, infilando una parola dietro l'altra, senza esitazione. E tutto ciò che dice, nonostante il tono serio e tranquillo, ha un retrogusto ironico. Ma è un'ironia distratta, gentile. Nulla a che fare con il sarcasmo offensivo, nervoso e scostante che si ci potrebbe aspettare da un testimone impaurito e traumatizzato.
«Signorina Leigh, non per rigirare il dito nella piaga, ma... meno di ventiquattro ore fa lei si è trovata in mezzo a una rapina, ha  rischiato di essere presa in ostaggio e ha visto un uomo morire...».
«Già, l'ultima parte è stata piuttosto inaspettata» commenta Jane, accomodandosi mollemente sul bracciolo imbottito del divano. Incrocia le caviglie, poggia le mani sulle ginocchia unite e guarda dal basso il cacciatore — che ricambia lo sguardo. Se Dean ha letto bene i dati sul fascicolo, la ragazza dovrebbe avere ventisei o ventisette anni al massimo, ma gli sembra che ne dimostri di meno.
«Inaspettata?» ripete l'uomo, quasi sillabando la parola. «Sbaglio... o... lei non è rimasta molto turbata da... quello che è successo?»
«Sono inglese. Questo è il massimo del turbamento emotivo che riesco a mostrare».
Ironia, di nuovo. Dean ci impiega un paio di secondi per decidere di sorvolare il discorso.
«Da quanto tempo lavora nel negozio?»
«Sette mesi».
«In questi sette mesi avete mai avuto problemi come sbalzi di corrente? O rumori nel muri? O punti del locale più freddi altri?»
Jane ha abbassato lo sguardo. Sta giocherellando con un sottile anellino dorato, a forma di freccia, attorno all'indice sinistro.
«No, nessun problema del genere».
«E sa se nel negozio, o negli edifici vicini, c'è mai stato un qualche caso di... morte violenta?»
«Non che io sappia. Abito qui solo da un anno ma da quel che ho visto, fino a ieri sera, Mansfield ha avuto lo stesso tasso di criminalità di Paperopoli. Quando la Banda Bassotti è in vacanza». Jane chiude la bocca. Solleva lo sguardo e corruga le sopracciglia. «Ma... perché lo chiede a me? L'FBI non dovrebbe averle certe informazioni?»
Dean deglutisce e non batte ciglio.
«Ma certo». Sorride del suo sorrisetto più impertinente. «E le sta vagliando in questo preciso momento il mio collega».


* * *


Ma, in questo preciso momento, l'unica cosa che sta vagliando il minore dei Winchester è la possibilità di non aver ottenuto una sola informazione realmente utile.
È nella camera d'ospedale della signora Sternwood. L'anziana donna è seduta accanto alla finestra e Sam è in piedi, davanti a lei: il blocchetto per gli appunti tra le mani e il viso atteggiato a un sorriso paziente e uno sguardo attento e cortese.
Pur ancora molto provata, la donna ha accettato senza problemi di rispondere alle domande. Ha raccontato a Sam di aver aperto la libreria trentadue anni fa esatti, subito dopo essere arrivata in città.  La costruzione è della fine dell'Ottocento, ma lei ha sempre curato la manutenzione. Non ci sono mai stati problemi con l'impianto elettrico o con il riscaldamento. Della storia dell'edificio, sa soltanto che prima del proprio negozio c'era una caffetteria e che i piani superiore facevano da abitazione per la famiglia che la gestiva. In tutti questi anni in cui ha lavorato lì, il quartiere non è mai stato turbato da nessun evento degno di nota.
Anzi, da come ne parla la signora Sternwood, tutta Mansfield sembra essere un'oasi della tranquillità.
Il che, per il cacciatore, è una pessima notizia. Ma non ne fa una colpa alla signora Sternwood.
D'altra parte, la donna la colpa se la sta prendendo da sola. Deve aver intuito, dall'espressione di Sam, che le risposte lasciano a desiderare.
«Mi dispiace di essere così poco utile» sospira.
Sam chiude il blocchetto per gli appunti e lo ripone nella tasca interna della giacca.
«Signora Sternwood, non si preoccupi. La ringrazio del suo tempo, è stata molto collaborativa».
«No, non lo sono. Sono solo una vecchia con un cuore che non regge più gli spaventi».
C'è qualcosa nel sorriso pacato e malinconico della signora Sternwood, nel modo in cui tiene le mani in grembo — le dita gracili sono intrecciate in una posa di composta stanchezza — e nell'asettico e livido vuoto della stanza d'ospedale, che spinge Sam a riflettere su un fatto: quella donna anziana, tanto fragile e gentile, è anche tanto sola. Vale la pena restare qualche secondo in più e farle almeno una domanda che non riguardi l'indagine.
«La dimetteranno presto?»
«Oggi, nel primo pomeriggio. I medici dicono che devo solo tornare a casa, prendere le mie pillole e stare tranquilla».
«Verrà qualcuno a prenderla?»
«Sì, Jane».
«Jane... è... sua figlia?»
«Oh, no. Io non ho figli. Jane è solo la commessa che mi da una mano con la libreria. Mio dio... » La donna si porta una mano alla base del collo e sembra inghiottire a fatica. «Se solo ripenso a cosa avrebbe potuto farle quell'orribile uomo... Jane è una ragazza così buona. Pensi che ieri notte, appena la polizia l'ha lasciata uscire... invece di andare a casa a riposare, è venuta qui per vedere come stavo. È tornata a trovarmi anche questa mattina. E quando se ne è andata, mi ha detto: "Vado a prepararle una torta di mele. Per oggi pomeriggio". Gliel'ho insegnata io, sa? La ricetta delle torta di mele...».
Di questo zuccheroso ritratto di sconosciuta, Sam non sa bene cosa farsene, ma non osa interrompere la signora Sternwood.

   
* * *


Jane è seduta al centro del divano. Sta fissando la ciotola di frutta come se le mele fossero le responsabili di un terribile torto nei suoi confronti. E non la smette di torturare l'anellino, facendolo ruotare attorno al dito.
L'agente Wesson è andato via da cinque minuti. La ragazza lo ha accompagnato alla porta, lo ha visto salire a bordo di un'automobile nera e ripartire. Poi è rientrata in casa e non si è più mossa dal soggiorno.
È convinta che se l'agente avesse avuto una minima idea di come lei si senta davvero — del soffocante senso di vertigine che tiene a bada da ore — non si sarebbe mai azzardato a fare un commento del tipo “non è rimasta molto turbata”. Per tutta la notte, Jane si è ripetuta ossessivamente sempre la stessa preghiera. Non di nuovo. Ti prego. Non di nuovo. E ha fatto un breve ma significativo elenco di tutti gli ottimi motivi per cui farebbe bene a lasciare Mansfield. La ragazza distende la fronte, ispira e poggia le mani sulle ginocchia.
«Otto» mormora. 


* * *


Il Tioga Motel — un edificio rosso a un piano, a forma di L — assicura camere a poco prezzo, ma non ha speranze di finire tra le bellezze architettoniche di Mansfield. Oltretutto, rientra per un soffio dentro i confini della città: il cartello che segna l'uscita da Mansfield è a un miglio esatto dall'insegna del motel, piantata all'inizio dello spiazzo sterrato del parcheggio. La fredda luce al neon dell'insegna si perde in quella ancora più fredda del pomeriggio. Sono le quattro passate, il cielo è sempre plumbeo e l'aria è diventata umida, quasi dovesse iniziare a piovere da un momento all'altro.
Jane, sul muretto di cemento che delimita un lato del parcheggio, sta sperimentando la discutibile gioia dell'appostamento. Nascosta alla bell'e meglio dal tronco di un albero rachitico, la ragazza può tenere d'occhio sia il parcheggio — l'automobile nera dell'agente Wesson è accanto a un pickup rosso e a due posti di distanza da un furgoncino — sia la facciata del motel, con la sua ripetitiva successione di porte bianche, ciascuna affiancata da una doppia finestra.
Jane solleva il bavero della sua giacca marrone e si pente di non aver indossato la sciarpa. Ormai è qui da venti minuti. Ha visto uscire una coppietta, entrare un uomo con un cane, poi tornare la coppietta. Ora inizia a sentire freddo e a prendere in seria considerazione l'idea di andare a bussare a tutte le camere. Ma proprio quando sta per scendere dal muretto, per sgranchirsi le gambe, una delle porte si apre.
Ne escono due uomini. Indossano jeans e scure giacche sportive. A prima vista, prestante è l'aggettivo più adatto per descriverli entrambi. Uno ha i capelli lunghi e un viso sconosciuto. Ma l'altro, il più basso dei due, è senza ombra di dubbio l'agente Wesson.
Jane scivola giù, cercando di far il minimo rumore possibile nel toccare il terreno con i suoi stivali neri, e se ne resta dietro all'albero. Vede i due uomini raggiungere l'automobile nera. Salgono. Sbattono le portiere. Poi il motore viene acceso e, di lì a poco, con la ghiaia bianca che scricchiola sotto il peso delle ruote, la macchina esce dal parcheggio.


* * *


Quindici: è il numero avvitato sulla porta della camera. Da vicino, Jane può constatare quanto sia rovinata la vernice e graffiato il legno sottostante.
La ragazza si guarda attorno. Non c'è nessuno nei paraggi. E questo è un bene: sarebbe complicato spiegare perché stia rovistando con tanta fretta nella propria borsa. E perché ne abbia appena tirato fuori un grimaldello.
Scadente il motel. Scadenti le serrature.
Quando Jane sente gli ingranaggi scattare, sotto la spinta dell'uncino di ferro, si permette un intimo moto di orgoglio e soddisfazione.
Apre la porta quel poco che basta per sbirciare all'interno e controllare che la camera sia davvero vuota. Solo dopo essersi assicurata di aver campo libero, la ragazza scivola dentro, curandosi di lasciare la porta accostata. Non sa e non ha tempo di controllare se la serratura sia diventata difettosa e non vuole correre il rischio di restare chiusa nella camera.
La stanza non è né meglio né peggio di quanto si aspettasse. Moquette sul pavimento, tappezzeria a strisce, due stampe di brutte nature morte appese sopra ai due letti singoli. C'è un tavolinetto sotto alla finestra, un minuscolo angolo cucina e una porta a soffietto, aperta per metà, che lascia intravedere parte di un bagno. Sui letti, ancora intatti, sono stati lasciati dei borsoni da viaggio mentre, sopra al tavolo, c'è un computer portatile. Nel cesto della spazzatura, Jane intravede due bottiglie di birra e delle buste per panini, unte e accartocciate.
La ragazza mette via il grimaldello, accostandosi al tavolino. È sul punto di sollevare lo schermo del portatile, ma poi ricorda a sé stessa quanto la tecnologia — a cominciare dal suo stesso telefono cellulare — ami remarle contro e opta per qualcosa di meno virtuale: va al letto più vicino e apre la zip del borsone. Sta bene attenta a non mettere in disordine il contenuto, mentre alza gli angoli di due camicie di plaid piegate male. Ma ritira di scatto le mani, come se avesse preso una scossa elettrica, quando, sollevando un'altra camicia, vede spuntare una pistola.
«...okay, troviamo i documenti in fretta» mormora, prendendo un piccolo respiro. «E togliamo subito le tende».
Fruga in una tasca laterale, ma non salta fuori nessun documento, solo una grossa, vecchia agenda con la copertina di pelle.
Jane stacca la chiusura, scorre le pagine e comprende di avere tra le mani una sorta di diario: il proprietario l'ha riempito con disegni di figure strane e spaventose, con simboli dall'aria esoterica, con articoli di cronaca nera, ritagliati da giornali quotidiani. Alcuni articoli portano la data di più di venti anni prima.
«Cerchi qualcosa in particolare?»
Jane sussulta così bruscamente che per poco il diario non le sfugge di mano.
Si gira piano, rallentata da un vago senso di panico.
I legittimi occupanti della camera sono sulla soglia. La stanno guardando male, ma non ci sono in giro fucili spianati.
Jane si schiarisce la voce. Rilassa le spalle e chiude il diario, avvicinandoselo al petto. Chiama a raccolta tutta la sua capacità di affabile chiacchiericcio.
«Oh, be', questo sarebbe il momento adatto a una frase brillante per... convincervi che non sto facendo quello che sembra che io stia facendo. Ma non riesco a pensare a niente del genere. Anche perché sto facendo esattamente quello che sembra che io stia facendo, quindi...  oh, smettetela con quelle occhiatacce. Qui siete voi quelli che vanno in giro a farsi passare per agenti federali. Io ho solo forzato una serratura. Che, per la cronaca, era comunque una serratura da quattro soldi».
   
 
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