“Se il mondo dovesse scegliere
una capitale,
l’istmo di Panama sarebbe il posto più ovvio
per ricoprire questo alto ruolo”
– Simon Bolivar
«È il comandante che parla. Siete pregati di
allacciare le cinture, ci prepariamo all’atterraggio.»
Il dlin-dlon metallico mi riscuote dal torpore
in cui ero scivolata durante la lettura dell’ultimo romanzo di Zafón e mi
riporta lentamente sull’aereo. Mugolo qualcosa mentre controllo la mia cintura
con gli occhi ancora socchiusi e, constatato che le due estremità sono saldate
come nemmeno due gemelle siamesi possono essere, cerco di capire come mai mi
sento la testa pesante. Sembra che abbia un peso che preme sulla mia spalla…
Il peso
che senti è l’amabile testa innamorata del tuo redattore preferito.
Christian!
Che
brava, vedo che l’altitudine non ha intaccato la sede della tua memoria…
Mi sollevo appena sul sedile – visto che
praticamente ero sprofondata e il mio sedere stava per toccare il poggiapiedi –
facendo attenzione a non muovermi troppo bruscamente.
Bene. Stiamo atterrando e Christian si è
placidamente appisolato sulla mia spalla. Come posso svegliarlo?
…e il
tuo sonno cesserà, se l'amor ti bacerà! Sia
questo il più fulgido dei tuoi doni, che la speranza mai ti abband-
VIOLET. Hai finito?
Che c’è?
Serenella è sempre stata la mia fata preferita!
«Christian?» Provo a mormorare, muovendogli
delicatamente un braccio. Non ottengo nessun risultato e a giudicare dal
fischio alle orecchie siamo quasi arrivati sulla pista. «Christian?» Ci riprovo, ottenendo lo stesso
risultato.
Oh, al diavolo.
«SVEGLIA!» Dico a voce alta, scuotendolo
energicamente. Lui sussulta e poi fa una smorfia, strizzando gli occhi prima di
aprirli.
«Tu sì che sai come svegliare un uomo…» Borbotta, mentre il suo peso abbandona la mia
spalla. Si preme due dita alla sommità del naso e si guarda intorno per capire
dove siamo. In quel momento, l’aereo sobbalza e le ruote toccano l’asfalto.
Dopo circa tre amabili ore di volo e dieci
minuti a fare il giro panoramico della pista di atterraggio, mettiamo piede a
terra con la testa un po’ leggera – e per quanto mi riguarda, anche le spalle –
investiti dalla calda aria panamense. Non vedo l’ora di togliere questi jeans
che più appiccicosi non si può, e mettere un paio di shorts, ignorando naturalmente
il fatto che sono bianca come il pavimento dell’aeroporto. Una vocina
nell’angolo remoto della mia mente mi ricorda che ho l’autoabbronzante, ma
siccome non l’ho mai usato, temo di preferire il colorito cadaverico alle
chiazze arancioni stile dermatite acuta.
All’ingresso dell’aeroporto, un gruppo di
piccoli ragazzini mulatti ci mette al collo ghirlande di fiori coloratissimi.
Oddio, credevo che queste cose succedessero solo alle Hawaii! Christian,
accanto a me, deve abbassarsi sui talloni per permettere a una bambina alta
poco più di un metro di fargli indossare la sua. Lei, felice, lo guarda rapita
come se fosse un essere mitologico. Come darle torto?
«Che figata. Aaaalooohaaa!»
Tony ci sfila davanti muovendo le braccia nel tipico movimento ondeggiante
degno di una prima ballerina di Hula. Prima che inizi a sculettare sul serio –
senza il minimo accenno di pudore, ma addirittura incitato dagli sguardi
divertiti dei bambini – lo trasciniamo verso il nastro dove recupereremo le
nostre valigie.
Uno ad uno, tutti i componenti del gruppo
adocchiano il proprio bagaglio e lo tirano giù dal nastro. Tranne me.
La mia valigia non c’è.
Il mio mobile NON C’È!
Quando il nastro si ferma, sento distintamente
una gocciolina pendermi dalla fronte in pieno stile manga giapponese.
«Aspettate, dov’è la mia valigia?» Avvicino un
tizio vestito da addetto a qualcosa, e gli chiedo se le valigie sono tutte qui
o potrebbero essere altrove. Ovviamente, il tizio non capisce una sola parola
di quello che dico.
«Ma che razza di gente incompetente assume
quest’aeroporto?! E COME SI PUÒ PERDERE UN BAGAGLIO ARANCIONE DELLE DIMENSIONI DI UNA VASCA DA BAGNO DI LUSSO?!»
Strillo, attirando l’attenzione di tutti gli altri passeggeri.
«L’avranno scagliato apposta giù dall’aereo
perché era troppo pesante.» Risponde Christian accanto a me, ridacchiando.
Lo guardo con occhi fiammeggianti. «Zitto tu e
usa le tue doti da seduttore per estorcere informazioni a quella tizia. Vieni
con me!» Gli afferro un braccio e provo a smuoverlo nella mia direzione.
«Perché proprio io? Potrebbe farlo Tony.» In
quel momento guardo Tony e lo vedo impegnato a osservare il sedere di una
hostess di terra, piegata a raccogliere un blocco di fogli.
«Tony saprebbe solo peggiorare la situazione.
Dai, non farti pregare.» Piagnucolo, totalmente demoralizzata. Andiamo, è la
mia valigia! C’è tutta la mia vita lì dentro! Possibile che nessuno lo capisca?
«Uhm... che ottengo in cambio?» Christian
incrocia le braccia e mi guarda pensoso. Dal suo mezzo sorriso intuisco che mi
aiuterà comunque, ma decido di stare al suo gioco.
«Desideri qualcosa in particolare?»
«Sicura di volerlo sapere?» Adesso il suo
sguardo è più che malizioso, e io alzo un sopracciglio.
«Se stai per chiedermi il siparietto caraibico
sappi che la risposta è no.» Replico, categorica. Christian sbuffa e si dirige
dalla hostess senza neanche avvisarmi, o quanto meno aspettarmi. Lo seguo
trotterellando.
«Mi scusi, il bagaglio della mia collega non era
presente sul nastro. Possibile che sia rimasto in aereo? O forse l’hanno
caricato sul nastro sbagliato. Potrebbe controllare?»
Ah, certo. Ora sono la sua collega. Ma sentitelo! E guardatelo, più che altro! Impettito e
offeso come un moccioso a cui hanno tolto la macchinina preferita.
«Non ci credo che stavi per chiedermi quello.» Mormoro, mentre la signorina digita qualcosa
sul computer.
«Non saprai mai quello che stavo per chiederti.»
Risponde lui, schioccando la lingua.
«È qualcosa di peggio del siparietto? Perché
magari con un burqa addosso potrei pensarci.» Meglio contrattare su un terreno
che conosco, piuttosto che tentare il pericoloso ignoto.
«Speravo con quel completo di cui parlava Tony
stamattina... tanto ormai ho già visto.» Mi fa l’occhiolino e io muoio per
circa cinque secondi.
«T-tu non hai visto proprio un bel niente.»
Oddio, ho balbettato? «MI SCUSI, ci sono notizie del
mio amato bagaglio? Dentro c'è davvero tutta la mia vita, perfino un cervello
nuovo per il mio amico qui.» Esclamo, rivolta all’addetta alle informazioni. Christian,
intanto, sghignazza soddisfatto.
La ragazza mi rivolge un’occhiata tutt’altro che
amichevole. «Il bagaglio è stato rintracciato, deve attendere nell'area
apposita. Per quanto riguarda il cervello del suo amico...» Lascia cadere la
frase, guardando Christian con un’aria da mangiatrice di uomini. So bene come
vorresti procurarglielo. O mandarglielo in pappa, brutta arpia!
«Credo che terrò quello vecchio ancora per un
po', grazie.» Interviene Christian, con un sorrisino tirato. Mi mette il
braccio intorno alle spalle e mi porta via.
***
Un’ora e qualche patimento dopo, finalmente
mettiamo piede in albergo. Alla reception ci accoglie una donna sulla
cinquantina, coi capelli scuri tirati indietro e un sorriso garbato. Quando
vede la mia astronave arancione sgrana appena gli occhi, poi li riporta su di
me e mi rivolge uno sguardo di compatimento. Cosa c’è, signora panamense? Non
ha mai visto una valigia capiente?
«Allora, la prenotazione è a nome Macmillan, è
esatto?»
«Ecco, vediamo di non fare mix-up.» Borbotto, scimmiottando il concierge
dell’albergo in quel di Roma dove, per mia sfortuna, ho conosciuto Christian.
«Sì, sono io. Eccomi qui.» Martin si fa avanti e
mostra i documenti alla donna che annota tutto al computer. Ci chiama poi uno
per volta e poi ci consegna le chiavi delle stanze.
«Le stanze sono disposte sullo stesso piano, ma
non sono tutte vicine. 171, 172, 173, ecco a voi.» Consegna le chiavi a me – in
stanza con Rachel e Lily –, a Martin – in stanza, ovviamente, con Phoebe – e a…
oh, no. Siamo vicine a Clara e Alexandra.
«Stanze numero 178, 179 e 180, ecco le chiavi.»
La prima delle stanze appartiene a Christian e Tony, la seconda a Danny e
Thomas e l’ultima ai restanti ragazzi, ovvero Christopher e Mike.
Christian mi guarda e io gli sorrido sollevata:
ringraziando il cielo, non mi è toccata la stanza accanto alla sua. Con Tony,
poi, figuriamoci.
Mentre i facchini si caricano delle nostre
valigie – sì, d’accordo, ho dato la mancia extra per la mia – saliamo in
ascensore e ci prepariamo a scoprire le camere dove soggiorneremo nei prossimi
sette giorni.
«Bene, ragazzi.» Annuncia Martin, una volta
riuniti tutti in corridoio. «Il pranzo inizia tra circa un’ora, ci vediamo
tutti di sotto al ristorante. Non bussate. Tony, mi hai sentito?»
Tony, sovrappensiero, sussulta e si porta una
mano alla fronte. «Sissignore, certo signore. Mai più si ripeterà
l’inconveniente dell’anno scorso. Mai, signore.» Enfatizza il gesto facendolo
diventare la solita presa in giro per la quale è noto, e Martin alza gli occhi
al cielo. Guarda Christian e dice: «Mi spieghi perché non dovrei licenziarlo?»
Christian gli mette una mano sulla spalla.
«Perché è il migliore nel suo lavoro.»
«Già, già.» Martin scuote la testa e con un
gesto della mano ci saluta tutti, prima di rintanarsi in camera con Phoebe.
«Sul serio avresti voce in capitolo per farlo
licenziare?» Domanda Rachel, esitante. Christian aggrotta la fronte e apre la
bocca per rispondere, ma Clara lo precede: «Certo, è il cocco di Martin!»
Ridacchia e sparisce in camera. Brava, sparisci, prima che ti lanci giù per il
vano ascensore. E non dalla cabina.
«Non è vero, stava solo scherzando…» Mormora
Christian, e in quel frangente colgo lo sguardo preoccupato di Rachel rivolto a
Thomas, che sta sbuffando mentre cerca di aprire la porta della stanza.
«Oookay, non siamo qui per parlare di lavoro,
giusto? A dopo, ciaaao!» Rachel spinge me e Lily in camera e poi richiude la
porta come se in corridoio fosse appena scoppiata una bomba.
«Abbiamo bisogno di un piano.»
***
Ho appena scoperto che Christian, in realtà, ha
cinque anni.
Stiamo percorrendo Calle 58 Este verso la
fermata dell’autobus che ci porterà al Casco Viejo,
ovvero la città vecchia di Panama, e qualcuno ha messo su un broncio da
manuale.
«Io volevo andare al mare, tu non volevi andare
al mare?»
Lo sta chiedendo a tutti, adesso è arrivato in
fondo alla fila.
«No.» Rispondo, scrollando le spalle.
«E tu, Rachel?» Non si arrende, eh?
Rachel non lo guarda nemmeno. «Dove va Thomas
vado io, lo vedi al mare per caso? No, è qui. Quindi no.»
«Thomas, vieni al mare!»
«Ma la vuoi smettere?» Esclamo, fermandomi.
Lui mi guarda torvo. «D'accordo, ci vado da solo
al mare.» Ed eccolo lì, il suo fondoschiena da statua greca che si incammina
nella direzione opposta alla nostra.
Sbuffo dalle narici e con un grugnito lo
raggiungo in pochi passi. Gli afferro il codino e lo tiro fino a farlo fermare.
«Ahia, ma sei imp-»
«Tu non ti muovi da qui perché ho paura degli
indigeni.» Sibilo, guardandomi intorno circospetta. Alcuni passanti ci
osservano perplessi e io faccio finta di niente.
Christian alza un sopracciglio. «Non ci sono
indigeni a Panama City.»
«Invece sì, sono TRAVESTITI da civili!» Esclamo,
mentre lo trascino di nuovo nel gruppo.
«Elettra, funzionava anche se gli dicevi la verità.»
Gracchia Tony, facendo scoppiare una bolla col chewingum dritta nel mio
orecchio.
«Io ho detto la verità! Di che diavolo stai
parlando?»
«Del fatto che vuoi che stia con te.» Guardo
Christian che ha incrociato le braccia e mi sta guardando con un sorrisetto
molto esplicito.
«Bene, vai al mare. Ciao.»
«D'accordo.» Così come lo pronuncia, si
allontana verso il mare e gli altri verso il centro, così che resto perfettamente
impalata al centro della strada senza sapere che fare.
«Sapete cosa c’è, quasi quasi
resto in albergo e mi riposo, non è che sia poi così lucida e pimpante per…»
«Ooooh, che diamine! Non fate gli asociali!»
Tuona Martin esasperato, e devo dire che sinceramente aspettavo questa reazione
parecchie battute fa. Non faccio in
tempo a dare la colpa a Christian che mi sento sollevata in aria e ho un
terribile déjà vu.
Quando mi deposita a terra davanti a tutti, e
intendo proprio dopo aver attraversato tutta
la fila, sono talmente furiosa da non riuscire a parlare. Punto il dito indice
proprio di fronte al suo naso maledettamente dritto e riesco a far uscire
qualche parola fra i denti.
«Tu… tu sei pieno
di brutti vizi!»
Lui mi circonda le spalle col braccio contro la
mia volontà, oscurandomi la vista con la sua mano gigante da orsacchiottone. «Lemon,
stai zitta o domani al mare ti affogo.»
«Giuro che ti farò mangiare crudo dagli
indigeni!» Strillo, lottando contro la mano che sta cercando di affogarmi.
Certo,
affogarti…
«Oppure ti lascio da sola al largo in mezzo agli
squali.»
Se avessi anche solo pensato di crogiolarmi nell’illusione
che la nostra fosse una conversazione privata, beh, non avevo tenuto conto di
Clara. «Squali? Ci sono gli squali qui?!» E con lei anche i due mitici eroi
Christopher e Mike, che hanno iniziato a googlare “Panama” e “Squali”.
Sbuffo, e con l’ennesimo schiaffo riesco a
togliermi la sua mano dal viso. «Sei un cretino, hai scatenato il panico.» Mi
libero anche dalla presa del suo braccio e cammino per una decina di metri in
silenzio. Poi lo guardo di sottecchi. «Ci sono davvero gli squali qui?»
Il suo sorriso dolce e al tempo stesso malizioso
mi fa perdere due o tre battiti. «Non necessariamente a mare.»
***
«No, io non sono razzista, ma quel tizio davvero
mi sembra un indigeno. Guarda, ha un dente d’oro!»
Siamo appena saliti sull’autobus che ci porterà
nella città vecchia: tredici turisti per caso abbarbicati alla bene e meglio ai
supporti per le mani. Questi autobus sono chiamati diablos rojos, ovvero ‘diavoli rossi’, e quando ha
chiuso le porte ho capito perché. Credevo fosse solo perché somigliano a dei
murales ambulanti, pieni di disegni
inverosimili dove Gesù è affiancato a Madonna (non Maria, ma la pop
star), e invece scopro che questi aggeggi infernali sono guidati da pazzi che, tra slalom e sorpassi
da tutte le parti, sfrecciano nel traffico a velocità da formula uno.
Qualche fortunato di noi è riuscito a trovare un
posto. Io, naturalmente, no, e sono altamente instabile, oltre che
pericolosamente vicina a un indigeno travestito da civile. Sono sicura che
sotto l’ascella pelosa nasconda un lacrimogeno.
E
perché mai un indigeno dovrebbe avere un lacrimogeno? Quelli sono i terroristi,
e tu hai visto troppi thriller contemporanei.
Christian alza gli occhi al cielo. «Anche Johnny
Depp ha un dente d’oro.» Bisbiglia, cercando di non attirare l’attenzione
dell’indigeno, cosa di cui io, intelligentemente, non mi preoccupo.
«Quello era Jack Sparrow, in realtà.»
L’autobus si ferma e decine di bambini con i
loro zaini salgono con la grazia di un branco di elefanti imbufaliti, urtando
tutto quel che trovano al loro passaggio, ovvero il mio braccio, la mia
schiena, le mie gambe e i miei piedi. Contemporaneamente e convulsamente.
«Sì, e nemmeno Jack Sparrow era un indigeno.» Mi
fa notare Christian, pazientemente. Asseconda tutti i miei scleri
paranoici senza battere ciglio, e ormai sento di essere su un terreno scivoloso
ma sono troppo orgogliosa per ammettere di aver iniziato un dibattito inutile
sui denti d’oro.
«Beh, no, ma ha avuto a che fare con gli indigeni… se lo sono quasi mangiato arrosto!» Ribatto,
appunto, sulla buona scia per cambiare totalmente argomento, cosa che mi riesce
particolarmente bene.
Tranne che con Christian, che mi guarda con
tanto di sopracciglio aggrottato in un’espressione snob. «Devo anche
risponderti?»
Alzo gli occhi al cielo, ormai con le spalle al
muro e con l’ombra di un piccolo sorriso. «No, d’accordo.»
Christian non fa in tempo ad apprezzare il mio
mezzo ghigno che si ritrova pesantemente sbilanciato all’indietro con un peso
massimo di – no, non vi dirò mai quanto peso – addosso, troppo impegnata a
guardare gli indigeni per mantenermi da qualche parte. Imprechiamo tutti contro
l’autista che ha inchiodato di botto per cosa? Far attraversare una tartaruga
marina? Santo cielo, neanche a New York inchiodano così.
«Razza di imbecille, ti è venuta una mossa
spastica al piede? EH?» Esclamo, facendo girare un paio di indige... abitanti
del posto.
«Potresti, per esempio, evitare di farmi saltare
un timpano la prossima volta?» Christian si massaggia l’orecchio offeso e io mi
rendo conto di essere ancora spalmata addosso a lui come paté alle olive.
Mi allontano da lui con tutta la nonchalance del
caso, stavolta aggrappandomi saldamente a un supporto alla mia destra.
«È questa la vostra fermata, signori!» Esclama
l’autista col morbo di Parkinson una manciata di minuti dopo, come se non
vedesse l’ora di farci scendere. Ehi, che problemi ti stiamo dando, amico? Tzè.
Gli aborigeni non capiscono la classe.
E tu
non sai distinguere una persona mulatta da uno pseudo selvaggio.
«Molto bene.» Alexandra la secchiona apre una
grande cartina e cerca di capire dove siamo.
«A me sembra di stare in una terra di mezzo. Tra
Portobello e il Bronx.» Commento, osservando le case di diversi colori più o
meno in rovina.
«Ehi, lì c’è scritto che parte una guida ogni
mezz’ora.» Interviene Mike, spulciando il suo dizionario di spagnolo. Martin
sembra d’accordo, così ci dirigiamo tutti al punto d’incontro, dove
effettivamente si presenta una bionda super abbronzata con tre strati di ciglia
finte e un rossetto rosso sgargiante.
«Questa sarebbe una guida? Sa parlare?» Borbotta
Lily, alzando un sopracciglio. «Cielo. Sembra uscita da una puntata di Dire, fare, baciare.»
L’unico intraprendente che avrebbe potuto
arrischiarsi a parlare è, naturalmente, Tony Shark.
Le si avvicina col suo sorriso migliore e si spettina un po’ i capelli prima di
rivolgerle la parola.
«Hola, niña.» Incalza, sicuro di sé. Poi inizia a balbettare. «Noi… ehm… nosotros…
somos… ehi, aspetta. Elettra, perché non vieni un po’ qui?» Mi sta facendo cenno di
andare a tradurre qualche stupida avance alla sorella di Nicki Minaj, ma non ci
penso nemmeno.
«Ce la puoi fare, muchacho.»
Gli faccio il verso, fingendo un conato di vomito subito dopo.
Tony mi lancia un’occhiataccia e torna a
guardare Nicki. «Somos estatunidenses
y quieremos…»
«Queriamos.» Mormoro,
alzando gli occhi al cielo.
Tony prosegue gesticolando col massimo charme e
ammiccando a più non posso. «Queriamos vere el.. er… che cazzo questo spagnolo… cientro… el Casco…»
«Centro, non cientro.»
Intervengo di nuovo, stavolta a bassa voce prima che Tony si dia al linciaggio
pubblico di traduttrici innocenti.
«Claro, por aquí joia bela.» La bionda sbatte
le ciglia e si incammina verso una delle tante vie che ci circondano. «Los hombres adelante!» Esclama, facendo una risata frivola e
sculettando a più non posso. Rachel, Lily ed io la guardiamo torve e ci
piazziamo in prima fila, contrariamente a quello che ha detto.
«Ma joia bela non è
portoghese?» Bisbiglia Rachel, confusa.
«A me sembra un trans, hai sentito che voce?»
Lily è a dir poco inorridita.
Tony invece ha il volto di chi ha visto l’Eden e
un sorriso ebete stampato in faccia. Si è messo accanto a lei e camminano a
braccetto. Quanto è caduto in basso.
Improvvisamente, Miss Finezza 2013 inizia a
parlare inglese. A modo suo, ovviamente.
«Inisiamo col Palacio Presidencial,
dove vive los presidencie
di Panama.» Ci indica un palazzo interamente bianco, talmente bianco che sembra
un plastico, contraddistinto da diverse bandiere, stendardi, striscioni e chi
più ne ha più ne metta, tutti riportanti i colori della bandiera di Panama.
«Questo edifisio è chiamado
anche Palacio de las Garzas, por las… garzas…» Si porta sbadatamente la mano alla testa, come se
avesse dimenticato qualcosa.
«Gli aironi.» Traduco, secca, e lei sorride
melensa.
«Sgiusto, gli airroni! Por gli airroni che caminano nel patio.» Sculetta ancora un po’ indicando
chissà cosa e poi prosegue, instabile sugli zoccoletti altissimi.
«Sono d’accordo con Lily. È un trans portoghese.
Anzi, secondo me nemmeno quello. Parla peggio di mia nonna senza dentiera e la
sua conoscenza della città è pari a quella che potrei avere anch’io leggendo la
pagina di Wikipedia.» Osservo, scrutando attentamente le sopracciglia tatuate.
Christian e Danny, appena dietro di noi, stanno commentando i suoi pantaloncini
praticamente inesistenti. Lo sguardo assassino da parte mia e di Lily non passa
inosservato.
Continuando a camminare, arriviamo in una
piazza, che la signorina ci presenta come Piazza Bolivar. Ma c’è scritto
ovunque quindi è stato uno spreco di fiato alla fragola.
«Questa plaza se llama così porqué Simón Bolívar il libertador si
riunì per aposgiare l’unione dei paesi latini y americani. Quello è il Teatro Nacional, belissimo! Tutto pieno
de rosso e oro e cristalo franscese!»
Nel modo esagerato in cui gesticola mi ricorda Effie Trinket. Solo che Effie avrebbe
il duecento per cento di classe in più di lei.
Imbocchiamo il Paseo General Estebán Huertas, un lungomare sopraelevato, e
proseguiamo fino a giungere in capo al promontorio dove sorge Plaza de
Francia.
«Questa plaza è dedicada a Ferdinand de Lesseps e
agli inscegneri franscesi
che lavorarono al canale di Panamá. Guardate l’obelisco! Mi fascio una foto con
voi, hombres! Venite!»
Christopher si arma di macchina fotografica e
scatta foto a più non posso. A me tocca farne una a Christian con Pamela – sì,
si chiama PAMELA. Non ridete. – e sono sicura di non aver mosso la macchina di
proposito. Sarà venuta sfocata per un caso.
Continuiamo per due isolati e visitiamo i resti
dell’antica Iglesia y Convento de Santo Domingo, e poi la piazza più grande del centro
storico, ovvero Plaza de la Indipendencia.
Pamela alias Dolores, come l’ho ribattezzata io,
ci illustra le bellezze della piazza narrandoci qualche aneddoto che capisce
solo lei, mischiando parole spagnole, portoghesi e credo di aver sentito
perfino qualcosa di francese. È come se camminasse con un cartello appeso al
collo con scritto “Impostora”. Ma la seguono tutti.
Dopo esserci inoltrati in un quartiere pieno di
case pericolanti, ci fermiamo davanti a un’altra chiesa, quella di San José.
«Qui restate tuti unidi e sopratuto los muchachos posono
venire da questa parte per protegere la guida ahahah!» Dolores trascina letteralmente Christian, Tony e
Thomas con sé mentre inizia a parlare della chiesa.
Rachel ha un diavolo per capello.
«Ma tu guarda quella sottospecie di viscida
piovra travestita da donna se deve mettere le sue luride zampe pelose addosso
al mio Thomas!» Sta sibilando da dieci minuti, mentre Lily cerca di calmarla.
Certo, perché Ursula non ha ancora accalappiato Danny.
Inizio a vedere doppio quando traballa sui
trampoli e prende Christian per il braccio per essere sorretta.
«Lo ha tirato per un braccio.» Dico, e sono
quasi sicura di avere uno sguardo vacuo. Che preannuncia la tempesta.
«Ma no che non lo ha tirato per un braccio, ti
sei impressionata.» Lily mi tocca la spalla e Rachel spalanca la bocca.
«Adesso con Thomas!»
«CHRISTIAN vieni a darmi una mano, per favore?»
Strillo, fingendo di aver bisogno d’aiuto. Per fare cosa? Non ci ho ancora
pensato, ma ci arriverò. Christian si volta a guardarmi ma Alexandra – che sarà
morta prima di tornare a Miami – richiama la sua attenzione mostrandogli un
dipinto nella chiesa.
«Christian a te non piacciono i dipinti, vero?»
Dico tra i denti dopo averli raggiunti. «Piuttosto, guarda quell’altare!»
«In realtà mi piacciono…»
Oh cielo. Perché gli uomini sono tutti ottusi?
D’accordo. Piano B.
Vado da Danny e lo prendo sottobraccio per
fargli vedere l’altare. Traduco le note illustrative così che Christian veda
che sto parlando. «Questo è l’Altar de Oro, uno splendido altare barocco d’oro
risalente al XVII secolo. La leggenda vuole che i frati riuscirono a sottrarlo
alla razzia del pirata Morgan, dipingendolo completamente di nero.» Ci aggiungo
qualche altra cosa inventata per allungare il brodo, e finalmente dopo un po’
la mia geniale strategia porta i suoi frutti.
«Che dicevi, di quest’altare? Dan, Lily ti sta
cercando.» Christian mette amorevolmente una mano sulla spalla a Danny, mentre
gli indica la posizione esatta della sua ragazza. Certo, amorevolmente.
Si può
sapere che problemi hai, Elettra?
Nessuno, perché?
«Bleah, profumi di fragola zuccherata con una
spruzzata di cannella giamaicana.» La butto lì, storcendo appena il naso e
avanzando verso un arazzo. Non è vero, Christian profuma sempre di Christian e
di Hugo Boss, ma dovevo dire qualcosa.
«E tu profumi di stragelosia avariata, piccola
Elettra.» Risponde lui con tutta la calma del mondo, passandomi un dito alla
base del collo mentre mi raggiunge dall’altro lato.
«Devi smetterla di chiamarmi piccola Elettra, mi
fai sentire una bambina di tre anni.» Grugnisco, concentrata ad ammirare
qualcosa di non meglio precisato, solo per non guardare lui.
«Non sei una bambina di tre anni.» Lo sento
dire, e a quel punto incrocio il suo sguardo divertito. «Sei una bambina di
ventisei anni.»
Stavolta riesco a tirargli un destro ben
assestato che lo fa mugolare più per la sorpresa che per il dolore, ma sono
ugualmente soddisfatta. D’altra parte, però, non so proprio cosa rispondere
senza insultarlo pesantemente – e oltretutto confermerei la sua affermazione –,
così giro sui tacchi e raggiungo Martin e Phoebe. Butto lì qualche frase di
circostanza sul tempo e il panorama, e dopo un po’ inizio a parlare con questa
splendida donna, che per giunta è anche simpaticissima. Non conosco bene
Martin, ma direi che sono una meraviglia insieme.
«Allora, Elettra. Tu sei la new
entry del gruppo ma sei con noi da abbastanza tempo per dirmi cosa pensi della
MP.» Naturalmente, a origliare arrivano subito anche Lily e Tony, come se
avessero un radar per captare le occasioni in cui mettermi in imbarazzo
pubblicamente.
«Cosa penso? Ehm… beh…» Cerco di trovare le
parole adatte, ma in fin dei conti non ce n’è neanche troppo bisogno. «Penso
che sia una squadra eccezionale, formata da professionisti più o meno
eccentrici – e qui Tony ridacchia – ma anche da persone di cuore, genuine. Mi
piace molto lavorare con voi.» E ora lasciatemi in pace, grazie.
«E hai avuto modo di notare qualche… come dire… legame, tra i tuoi colleghi?» Il tono di
Martin è estremamente innocente, ma ha quello sguardo indagatore che non
promette nulla di buono, specialmente con quei due chiacchieroni nei paraggi.
Sto per battere in ritirata con la scusa di cercare un bagno, quando Mr Gola
Profonda, senza battere ciglio, butta lì la frase più catastrofica della
giornata.
«Certo, digli di te e Christian.»
«Te e Christian?» Ripete Martin, incalzante.
Li guardo sbigottita. «Cosa? Non c’è niente da
dire su me e Christian. Piuttosto, Lily…»
«Dai, digli che vi piacete da circa un millennio
e tu lo stai torturando, poverino…» Subdola, subdola
serpe di una Lily… non te la caverai mica con quel
sorrisetto innocente.
«Sì, e per giunta hanno anche dormito insieme e
lui l’ha vista seminuda, e poi…»
«...lui ha scelto la sua torta preferita, ma poi
hanno litigato, e…»
«…è stato tutto il
tempo in ospedale ad assisterla…»
«RAGAZZI!» Strillo, col viso ormai in fiamme.
«Voi siete matti. Siete… oh, Dio, non riesco a
credere di aver appena assistito a questa conversazione. Devo sedermi.»
Mormoro, con la testa che mi gira. Hanno appena spifferato ai quattro venti
alcuni dei dettagli più imbarazzanti e al tempo stesso significativi del mio
rapporto con Christian. Come se stessero raccontando la trama dell’ultimo
episodio di Doctor Who! Ora mi butto nel canale.
Martin mi ferma e mi poggia una mano sulla
spalla. «Elettra, stai tranquilla, non è mica un problema…
vorrei solo non essere l’ultimo a sapere le cose…»
«Danny e Lily amoreggiano sempre nella stanza
delle fotocopie!» Esclamo, e vedo Lily spalancare la bocca, in una smorfia tra
il comico e l’indignato.
«E allora? Anche io l’ho fatto una volta. Che
c’è di strano?» Interviene Tony, corrugando la fronte. Martin, attonito, sbatte
le palpebre per qualche istante e poi fa spallucce. Lily è salva, ma io sono
sempre più sconcertata.
«Lo dicevo io che ero capitata nel Grande
Fratello.»
***
Il sole è quasi arrivato alla fine della sua
corsa, ma noi siamo ancora belli arzilli e pimpanti nonostante la stanchezza
del viaggio. Abbiamo fatto compere in alcuni adorabili negozietti
caratteristici del paese e pranzato al ristorante dell’albergo. Dopo una doccia
rigenerante, siamo tutti riuniti nella hall per decidere il da farsi.
«Io propongo la spiaggia.» Sta dicendo
Christian, per la… quarantesima volta?
«Signore Onnipotente, andiamo in spiaggia prima
che gli venga una crisi epilettica.» Esclama Danny, esasperato dall’insistenza
del suo redattore. La frase ci fa ridere e Martin acconsente, a una condizione:
faremo equitazione.
«Però prendiamo un taxi.» Intervengo, ancora
scioccata dalla corsa sul diablo rojo.
Quando arriviamo su una spiaggia della costa di
Coclé, Martin sembra già sapere il fatto suo, e si dirige verso un maneggio
poco distante. Clara e Christopher si chiamano fuori, cosa che avrei voluto
fare anch’io, ma Rachel me l’ha impedito. Nuove esperienze, dice. Anch’io avrei
in mente un paio di nuove esperienze
da farle fare, se vogliamo dirla tutta.
Le coppiette decidono di cavalcare
romanticamente insieme, dunque escono i primi tre cavalli per Martin, Danny,
Thomas e compagne. Mike e Christian scelgono i loro, dopodiché tocca a me e
Tony. Adocchio un cavallo nero, bellissimo. Devo ammettere che in una delle mie
innumerevoli fantasie ho sempre sognato di cavalcare un cavallo nero.
Certo,
ora si dice così.
«Chi di voi sa cavalcare?» Domanda un tizio
vestito di tutto punto, che suppongo sia un istruttore, e resto sbalordita
quando almeno quattro di noi alzano la mano, ovvero Martin, Danny, Tony e
Christian. Ovviamente. Cos’è che non sa fare quell’uomo?
Conquistarti,
pare.
«D’accordo. Se voi altri vi sentiste insicuri,
io o uno degli altri istruttori siamo a disposizione per aiutarvi. In ogni
caso, i cavalli sono tutti addestrati e non hanno mai dato problemi.» Rivolge
lo sguardo a noi poveri ignoranti di cavalcate, e nessuno fiata. Si vede che
Alexandra se la sta facendo sotto dalla paura, ma non accenna il minimo
movimento. Orgogliosa.
Ah,
senti chi parla! Come mai stai a dieci chilometri dal tuo bellissimo cavallo
nero?
L’istruttore ci lascia dopo aver appurato che
nessuno ha bisogno di aiuto – come siamo temerari! – e Martin, d’ora in avanti
soprannominato Lady Oscar, inizia a spiegarci come prendere confidenza col
cavallo e prepararlo alla cavalcata. Vedo gli attrezzi che ci hanno fornito i
tizi del maneggio e un brivido agghiacciante mi percorre la schiena.
Non mostrare mai la paura a un animale: loro lo
fiutano. Da brava, Elettra. Che sarà mai? È solo uno stupido cavallo. Non
c’entra niente il fatto che potrebbe azzopparti con un lieve movimento della
zampa, o darti un morso e staccarti tutte le dita.
«Per prima cosa, prendete quell’arnese dall’aria
raccapricciante che si chiama striglia e iniziate a spazzolare il pelo del
cavallo. Ecco, così. Poi togliete i residui con la spazzola rigida e rifinite
con quella morbida. Se volete, col pettine a coda potete dedicarvi alla criniera
o alla coda.» Spiega Martin, mostrandoci come si fa.
Sì, certo. Come se fossi così stupida da toccare
la coda di un cavallo!
Guarda
che non gliela stai mica pestando. E non è una tigre!
«Buono, cavallo. Ciao. Salve.» Mi avvicino
lentamente a Tornado – ho deciso che lo chiamerò così. Quanto posso essere
originale da uno a dieci? Non ditemelo – e con la striglia comincio a pulire il
pelo. D’accordo, non è così difficile, e il cavallo sembra non detestarmi
troppo. Fa un paio di sbuffi e io indietreggio di circa tre metri ma poi
capisco che è normale e mi limito a trattenere il fiato sperando che non mi
atterri con un calcio.
«Adesso monteremo la sella, in quest’ordine:
sottosella, agnellino e poi la sella vera e propria.» Ci mostra come fare e io
stranamente riesco a eseguire il tutto senza combinare casini. O almeno, se non
contiamo il fatto che sono caduta due volte mentre cercavo di agganciare la
cinghia e Tornado stava per uccidermi, ma sono dettagli.
Quando arriva il momento delle briglie, sto per
sentirmi male. Io dovrei infilare questa cosa in bocca al cavallo? Ma sono
impazziti?
«Va bene, cavallino.» Lo guardo negli occhi e
inizio a sudare freddo. Si vede che mi odia. Perché non ho scelto un pony? «Ora
apri lentamente la bocca e mordi questo, d’accordo? Non la mia mano. Questo.»
Gli indico quest’affare che non so neanche come si chiama – Martin l’ha detto,
ma ero troppo impegnata a farmela addosso per ascoltare – e lui, con mio sommo
gaudio e tripudio, obbedisce senza battere ciglio.
Tra un
po’ se lo metteva da solo in bocca, idiota. Cosa credi che lo addestrino a
fare?
Taci tu, vecchia baldracca!
Prima di salire, Martin passa a controllare i
finimenti di noi inesperti. Stringe un po’ la cinghia al cavallo di Alexandra e
ci dice che siamo tutti pronti ad andare.
Dopo aver infilato il casco, che mi fa sembrare
un soldato tedesco più che una cavallerizza, ci prepariamo a montare. Ah-ha,
come se fosse facile. Cerco di calarmi nella parte di un’intraprendente
amazzone e mi mantengo alla sella mentre infilo il piede nella staffa. Prego
per circa dieci secondi di non fare una gigantesca figura di profondo sterco, e
poi mi do lo slancio per salire e sedermi. Quando credo di avercela fatta,
perdo l’equilibrio e finisco per aggrapparmi al collo di Tornado – i cavalli
hanno un collo? – lasciandomi sfuggire un gridolino di terrore. Provo a
ignorare gli sguardi degli altri e piano piano mi
sistemo sulla sella fino a raddrizzarmi e ritrovare la posizione di una persona
seduta su un cavallo. Va bene, ce l’ho fatta. Mi asciugo una gocciolina dalla
fronte e guardo Tony sorridente.
«La cosa da ricordare sempre è guardare in
avanti e tenere la schiena dritta, allineata con i talloni. Se vi sembra di
perdere l’equilibrio, afferrate la criniera del cavallo finché non lo riacquistate.»
Spiega Martin, e io inorridisco. Credo che anche Tornado sia inorridito, così
lo accarezzo piano e gli sussurro qualcosa.
«Stai tranquillo, non voglio mica tirarti la
criniera. A me dà fastidio quando mi toccano i capelli, figuriamoci se me li
tirassero. Tranquillo, cavallino.» Per concludere gli do due colpetti e lui,
inaspettatamente, inizia a camminare. «Oddio, cavallino. Vuoi avvertirmi?!»
Resta calma. Calma. Respira, su.
Come si ferma questo coso?!
«Ehm, Martin?» Provo a dire, con gli occhi spalancati
e il terrore che mi scorre nelle vene. Lui si gira e mi raggiunge col suo
cavallo marrone, Phoebe dietro di lui che si tiene saldamente ma con la postura
di una dea greca.
«Se vuoi fermarti, affonda la seduta nella sella
e fai pressione con le redini. Puoi anche dire “hoo”!» Mi dice, e per tutta
risposta il suo cavallo si ferma.
«Certo. Mi ci vedi a dire “hoo”? Chi sono, il
nonno di Heidi?!» Infatti, Tornado non mi ha nemmeno preso in considerazione.
Che sia femmina? Devo provare a chiamarla Violet.
Un piccolo sforzo dopo l’altro, riusciamo a
partire tutti. Chi trotta, chi si muove e poi si ferma dopo due passi, chi si
fa una galoppata e torna indietro. Io sono a metà tra le prime due categorie, con
Tony alle calcagna che mi prende in giro non appena il cavallo si ferma, e
quando mi giro a guardarlo Tornado intercetta il movimento della mia testa e
gira anche lui, facendomi tornare dov’ero prima. Mi sto innervosendo parecchio,
sapete.
«Elettra, potresti anche fare tre metri
consecutivi, non c’è niente di male!» Mi sfotte Lily, beffarda.
«Infatti, dovrei proprio imparare da te. Guarda
con che bravura stai guidando il tuo cavallo… ops, non lo stai guidando tu.» Le
rispondo con una linguaccia, e lei ride.
Quando Tornado si ferma per l’ennesima volta,
lasciandomi sempre per ultima – diamine, perfino Alexandra è avanti con gli
altri! –, mi chino in avanti e stringo i polpacci, più forte delle volte
precedenti.
Non l’avessi mai fatto.
Tornado inizia dapprima a trottare velocemente,
poi quando tiro le redini per fermarlo, o almeno così credevo, parte al galoppo
facendomi urlare come una disperata.
«Cavallinoooo! AAAAAAAAAAHHHHHHIIIIUUUUTOOO!»
Cerco di aggrapparmi a lui il più possibile, e gli tiro anche la criniera con
tutta la mia forza, col risultato che il bastardo – o a questo punto dovrei
dire proprio la bastarda – raddoppia la velocità. Ormai
sobbalzo a ritmo di samba e il riso col pollo del pranzo sta pericolosamente
risalendo verso l’uscita sbagliata.
«Elettra, non stringere le gambe!» La voce della
salvezza. Mi volto a guardare Christian, e poi mi ricordo che i cavalli seguono
lo sguardo del cavaliere, per cui spalanco gli occhi terrorizzata in attesa di
una sterzata che non arriva, perché ormai Tornado ha deciso di raggiungere la
Florida entro sera.
«CHRISTIAAAAAAAN!» Mai avrei pensato di urlare
il suo nome in questo modo. Sto quasi per mettermi a piangere. Quando vedo la
testa del suo cavallo un singhiozzo mi scuote il petto. Vedo che incita il suo
destriero – bianco, che ve lo dico a fare? – a correre più veloce con fare
esperto e per un momento penso che sia la cosa più bella che abbia mai visto.
Poi torno a singhiozzare.
«Adesso mi avvicino e tu ti aggrappi a me. Mi
hai capito, Ele? Devi aggrapparti più forte che puoi!» Esclama, fissandomi con
quell’azzurro così intenso in cui leggo tracce di inquietudine e al tempo
stesso determinazione. Annuisco e aspetto il momento in cui il suo cavallo
affianca il mio per lasciarmi afferrare dalle sue braccia e stringerlo a mia
volta, mentre mi trascina davanti a sé con una forza incredibile. Ho ancora gli
occhi chiusi quando mi rendo conto che siamo fermi.
«È tutto finito, Elettra. Sei al sicuro.» Le sue
parole mi fanno scappare una lacrimuccia invisibile che mando via con un gesto
repentino del braccio. Sono stretta al suo petto, coccolata dalla sue mani che
mi tranquillizzano con gesti lenti e rassicuranti. Tiro su col naso e lui mi
stringe ancora di più, posandomi un bacio sui capelli. «Accidenti. Neanche i
cavalli ti resistono.» Dice, e nonostante tutto mi scopro a ridere
sommessamente contro la sua camicia.
«Grazie.» Mormoro, dopo un po’, ma credo che non
mi abbia sentito perché in quel momento arrivano gli altri, che domandano
concitati cosa è successo e come sto adesso.
Sto bene. Sì, ora sto bene.
***
Se di giorno le città di Panamá possono apparire
sonnolente, di notte si scatena la vita notturna. E onestamente, dopo lo
spavento di oggi, un po’ di sano alcol e musica caraibica era proprio quel che
ci voleva.
Dopo aver riportato i cavalli al maneggio,
compreso il mio traditore che si era fermato un chilometro dopo avermi lasciato
tra le braccia di Christian, Martin ci ha portati in un villaggio poco
distante, dove l’oscurità ha assunto mille tonalità colorate e l’infrangersi
delle onde sulla costa è stato sostituito dai ritmi della musica salsa e
reggae.
Siamo in un locale davvero carino, tranquillo e
semplice, e per un attimo sembra di stare in quelle località tropicali dove gli
aperitivi vengono serviti in chioschi coperti di foglie di palma secche e sono
tutti allegri e spensierati.
Aspetta un attimo, ma noi siamo davvero in una
località tropicale. Il locale affaccia sulla spiaggia, e anche se il tetto è
ovviamente più solido, è ricoperto ugualmente da foglie di palma per ricreare
l’atmosfera. Potrei anche dire che siamo tutti allegri e spensierati,
specialmente dopo aver bevuto quantità industriali di seco, la bevanda alcolica nazionale. A me non fa impazzire l’alcol,
ma questo scende giù che è una meraviglia.
Perciò, ringraziatelo pure se ho raggiunto
Christian in terrazza. È seduto su una specie di divanetto, con le gambe
allungate in avanti e il volto rilassato mentre si gode la brezza serale. Non
mi ha sentito arrivare, per cui mi prendo il tempo di osservarlo per qualche
istante con un piccolo sorriso sulle labbra.
Quando mi siedo accanto a lui, apre gli occhi e
mi guarda. Sorride, è dolcissimo.
«Come ti senti?» Mi domanda, girandosi
leggermente verso di me.
Ho voglia di baciarti.
Cosa?
No, sono i fumi dell’alcol.
«Bene. Io… beh, pare proprio che debba ringraziarti
per l’ennesima volta. Non puoi fare a meno di salvarmi.» Ridacchio, e mi sento
stupida. Non avrei mai dovuto provare a cavalcare quel ridicolo animale.
Christian si stringe nelle spalle. «È uno sporco
lavoro, ma qualcuno deve pur farlo.» Sorride, poi si fa serio. «Non ho altra
scelta.» La sua frase, come un soffio, mi fa rabbrividire. Poi una muta
richiesta, quella di tornare tra le sue braccia, che allarga per accogliermi.
Questa volta, non indugio affatto.
~ Note
Meglio tardi che mai, diciamocelo. Avevo
promesso a diverse di voi che il capitolo sarebbe arrivato entro l’anno passato
ma ho tardato di qualche giorno. Su, su. Sorridete XD
Nuovo blend,
nuova Elettra. Nuova mica tanto, però sta cambiando parecchio. Nel prossimo
capitolo sganciamo la bomba *corre a rifugiarsi in un
angolo*
Che dire? Devo ammettere che scrivere di
questo viaggio si sta rivelando più complicato del previsto (tutte in coro: “MA
DAI?!”) ma ho buone aspettative per il prossimo.
Intanto, ringrazio Luisiana e Wikihow per le dritte
sull’equitazione, di cui non sapevo una cippa lippa,
e Costanza e Federica per l’ultima risposta di Christian. So che così ho praticamente
distrutto la sua reputazione di fluff-repellente (e vi cito testuali parole
uscite dalle sue dita in chat: “ODDIO COSA MI FAI
SCRIVERE, T'AMMAZZO, NON DIRE A NESSUNO DI QUESTA
CONVERSAZIONE!”) ma lei sa che la adoro alla follia e non so cosa farei senza
di lei NÉ senza le altre meravigliose
ragazze del gruppo. Ragazze che stanno addirittura pensando di scrivere Missing Moments su questa storia,
cosa di cui sono altamente onorata (e riguardo a questo leggete il P.S.).
Rinnovo come sempre l’invito a far parte
del gruppo, chiedendo l’amicizia qui, e torno a darvi uno spoiler del prossimo capitolo, per
ringraziare tutti voi lettori, silenti e non, che crescete di giorno in giorno.
Siete arrivati a 500 e io non so davvero cosa dire, se non che non merito tutto
questo seguito.
Spoiler:
«Ho
un’ideeeea.» Dichiara, mentre apre la bottiglia.
«Sedetevi tutti per terra. Forza, in cerchio.» Agita le dita descrivendo una
circonferenza immaginaria e noi, più o meno scettici, facciamo come dice.
«Vuoi
fare una seduta spiritica?» Domanda Lily con un sopracciglio alzato. Tony
scoppia a ridere e prende posto tra Christian e Thomas. Io mi metto esattamente
di fronte, vicino a Rachel.
«Per
esorcizzarti quei capelli forse ci vorrebbe, ma no, facciamo qualcosa di
divertente: giochiamo.» Danny ride scompigliando la chioma elettrizzata di Lily
e Thomas si passa una mano sul mento, valutando la cosa.
«A
cosa?» Chiedo, con una punta di terrore mitigata dall’alcol.
Tony
continua a sorridere malefico mentre estrae il cellulare dalla tasca dei
pantaloni. «Obbligo e verità.»
All yours,
Sara.
P.S.: About Wayne ha già un Missing
Moment, scritto da colei che ispira la mia Rachel. Lo trovate QUI, e dovete leggerlo
perché riguarda Rachel e Thomas e so che li amate. E poi perché è bellissimo,
ovvio.