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Autore: BlackPearl    08/01/2014    16 recensioni
Come definire Elettra? Apparentemente cinica, piuttosto indisponente, amante del 'vivi, lascia vivere e non rompere le scatole'.
In termini matematici, Elettra sta alla gente come i gatti stanno all'acqua.
Elettra conosce Christian.
Come definire Christian? Affascinante, provocatorio, autentico.
Prendete Elettra, prendete Christian, e metteteli in una camera d'albergo, costretti a una notte di convivenza forzata.
Io, fossi in voi, mi metterei comoda. Perché questo, signori miei, è solo l'inizio.
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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“Se il mondo dovesse scegliere una capitale,

l’istmo di Panama sarebbe il posto più ovvio per ricoprire questo alto ruolo”

Simon Bolivar

 

 

 

«È il comandante che parla. Siete pregati di allacciare le cinture, ci prepariamo all’atterraggio.»

Il dlin-dlon metallico mi riscuote dal torpore in cui ero scivolata durante la lettura dell’ultimo romanzo di Zafón e mi riporta lentamente sull’aereo. Mugolo qualcosa mentre controllo la mia cintura con gli occhi ancora socchiusi e, constatato che le due estremità sono saldate come nemmeno due gemelle siamesi possono essere, cerco di capire come mai mi sento la testa pesante. Sembra che abbia un peso che preme sulla mia spalla…

Il peso che senti è l’amabile testa innamorata del tuo redattore preferito.

Christian!

Che brava, vedo che l’altitudine non ha intaccato la sede della tua memoria…

Mi sollevo appena sul sedile – visto che praticamente ero sprofondata e il mio sedere stava per toccare il poggiapiedi – facendo attenzione a non muovermi troppo bruscamente.

Bene. Stiamo atterrando e Christian si è placidamente appisolato sulla mia spalla. Come posso svegliarlo?

…e il tuo sonno cesserà, se l'amor ti bacerà! Sia questo il più fulgido dei tuoi doni, che la speranza mai ti abband-

VIOLET. Hai finito?

Che c’è? Serenella è sempre stata la mia fata preferita!

«Christian?» Provo a mormorare, muovendogli delicatamente un braccio. Non ottengo nessun risultato e a giudicare dal fischio alle orecchie siamo quasi arrivati sulla pista. «Christian?» Ci riprovo, ottenendo lo stesso risultato.

Oh, al diavolo.

«SVEGLIA!» Dico a voce alta, scuotendolo energicamente. Lui sussulta e poi fa una smorfia, strizzando gli occhi prima di aprirli.

«Tu sì che sai come svegliare un uomo…» Borbotta, mentre il suo peso abbandona la mia spalla. Si preme due dita alla sommità del naso e si guarda intorno per capire dove siamo. In quel momento, l’aereo sobbalza e le ruote toccano l’asfalto.

Dopo circa tre amabili ore di volo e dieci minuti a fare il giro panoramico della pista di atterraggio, mettiamo piede a terra con la testa un po’ leggera – e per quanto mi riguarda, anche le spalle – investiti dalla calda aria panamense. Non vedo l’ora di togliere questi jeans che più appiccicosi non si può, e mettere un paio di shorts, ignorando naturalmente il fatto che sono bianca come il pavimento dell’aeroporto. Una vocina nell’angolo remoto della mia mente mi ricorda che ho l’autoabbronzante, ma siccome non l’ho mai usato, temo di preferire il colorito cadaverico alle chiazze arancioni stile dermatite acuta.

All’ingresso dell’aeroporto, un gruppo di piccoli ragazzini mulatti ci mette al collo ghirlande di fiori coloratissimi. Oddio, credevo che queste cose succedessero solo alle Hawaii! Christian, accanto a me, deve abbassarsi sui talloni per permettere a una bambina alta poco più di un metro di fargli indossare la sua. Lei, felice, lo guarda rapita come se fosse un essere mitologico. Come darle torto?

«Che figata. Aaaalooohaaa!» Tony ci sfila davanti muovendo le braccia nel tipico movimento ondeggiante degno di una prima ballerina di Hula. Prima che inizi a sculettare sul serio – senza il minimo accenno di pudore, ma addirittura incitato dagli sguardi divertiti dei bambini – lo trasciniamo verso il nastro dove recupereremo le nostre valigie.

Uno ad uno, tutti i componenti del gruppo adocchiano il proprio bagaglio e lo tirano giù dal nastro. Tranne me.

La mia valigia non c’è.

Il mio mobile NON C’È!

Quando il nastro si ferma, sento distintamente una gocciolina pendermi dalla fronte in pieno stile manga giapponese.

«Aspettate, dov’è la mia valigia?» Avvicino un tizio vestito da addetto a qualcosa, e gli chiedo se le valigie sono tutte qui o potrebbero essere altrove. Ovviamente, il tizio non capisce una sola parola di quello che dico.

«Ma che razza di gente incompetente assume quest’aeroporto?! E COME SI PUÒ PERDERE UN BAGAGLIO ARANCIONE DELLE DIMENSIONI DI UNA VASCA DA BAGNO DI LUSSO?!» Strillo, attirando l’attenzione di tutti gli altri passeggeri.

«L’avranno scagliato apposta giù dall’aereo perché era troppo pesante.» Risponde Christian accanto a me, ridacchiando.

Lo guardo con occhi fiammeggianti. «Zitto tu e usa le tue doti da seduttore per estorcere informazioni a quella tizia. Vieni con me!» Gli afferro un braccio e provo a smuoverlo nella mia direzione.

«Perché proprio io? Potrebbe farlo Tony.» In quel momento guardo Tony e lo vedo impegnato a osservare il sedere di una hostess di terra, piegata a raccogliere un blocco di fogli.

«Tony saprebbe solo peggiorare la situazione. Dai, non farti pregare.» Piagnucolo, totalmente demoralizzata. Andiamo, è la mia valigia! C’è tutta la mia vita lì dentro! Possibile che nessuno lo capisca?

«Uhm... che ottengo in cambio?» Christian incrocia le braccia e mi guarda pensoso. Dal suo mezzo sorriso intuisco che mi aiuterà comunque, ma decido di stare al suo gioco.

«Desideri qualcosa in particolare?»

«Sicura di volerlo sapere?» Adesso il suo sguardo è più che malizioso, e io alzo un sopracciglio.

«Se stai per chiedermi il siparietto caraibico sappi che la risposta è no.» Replico, categorica. Christian sbuffa e si dirige dalla hostess senza neanche avvisarmi, o quanto meno aspettarmi. Lo seguo trotterellando.

«Mi scusi, il bagaglio della mia collega non era presente sul nastro. Possibile che sia rimasto in aereo? O forse l’hanno caricato sul nastro sbagliato. Potrebbe controllare?»

Ah, certo. Ora sono la sua collega. Ma sentitelo! E guardatelo, più che altro! Impettito e offeso come un moccioso a cui hanno tolto la macchinina preferita.

«Non ci credo che stavi per chiedermi quello.» Mormoro, mentre la signorina digita qualcosa sul computer.

«Non saprai mai quello che stavo per chiederti.» Risponde lui, schioccando la lingua.

«È qualcosa di peggio del siparietto? Perché magari con un burqa addosso potrei pensarci.» Meglio contrattare su un terreno che conosco, piuttosto che tentare il pericoloso ignoto.

«Speravo con quel completo di cui parlava Tony stamattina... tanto ormai ho già visto.» Mi fa l’occhiolino e io muoio per circa cinque secondi.

«T-tu non hai visto proprio un bel niente.» Oddio, ho balbettato? «MI SCUSI, ci sono notizie del mio amato bagaglio? Dentro c'è davvero tutta la mia vita, perfino un cervello nuovo per il mio amico qui.» Esclamo, rivolta all’addetta alle informazioni. Christian, intanto, sghignazza soddisfatto.

La ragazza mi rivolge un’occhiata tutt’altro che amichevole. «Il bagaglio è stato rintracciato, deve attendere nell'area apposita. Per quanto riguarda il cervello del suo amico...» Lascia cadere la frase, guardando Christian con un’aria da mangiatrice di uomini. So bene come vorresti procurarglielo. O mandarglielo in pappa, brutta arpia!

«Credo che terrò quello vecchio ancora per un po', grazie.» Interviene Christian, con un sorrisino tirato. Mi mette il braccio intorno alle spalle e mi porta via.

 

***

 

Un’ora e qualche patimento dopo, finalmente mettiamo piede in albergo. Alla reception ci accoglie una donna sulla cinquantina, coi capelli scuri tirati indietro e un sorriso garbato. Quando vede la mia astronave arancione sgrana appena gli occhi, poi li riporta su di me e mi rivolge uno sguardo di compatimento. Cosa c’è, signora panamense? Non ha mai visto una valigia capiente?

«Allora, la prenotazione è a nome Macmillan, è esatto?»

«Ecco, vediamo di non fare mix-up.» Borbotto, scimmiottando il concierge dell’albergo in quel di Roma dove, per mia sfortuna, ho conosciuto Christian.

«Sì, sono io. Eccomi qui.» Martin si fa avanti e mostra i documenti alla donna che annota tutto al computer. Ci chiama poi uno per volta e poi ci consegna le chiavi delle stanze.

«Le stanze sono disposte sullo stesso piano, ma non sono tutte vicine. 171, 172, 173, ecco a voi.» Consegna le chiavi a me – in stanza con Rachel e Lily –, a Martin – in stanza, ovviamente, con Phoebe – e a… oh, no. Siamo vicine a Clara e Alexandra.

«Stanze numero 178, 179 e 180, ecco le chiavi.» La prima delle stanze appartiene a Christian e Tony, la seconda a Danny e Thomas e l’ultima ai restanti ragazzi, ovvero Christopher e Mike.

Christian mi guarda e io gli sorrido sollevata: ringraziando il cielo, non mi è toccata la stanza accanto alla sua. Con Tony, poi, figuriamoci.

Mentre i facchini si caricano delle nostre valigie – sì, d’accordo, ho dato la mancia extra per la mia – saliamo in ascensore e ci prepariamo a scoprire le camere dove soggiorneremo nei prossimi sette giorni.

«Bene, ragazzi.» Annuncia Martin, una volta riuniti tutti in corridoio. «Il pranzo inizia tra circa un’ora, ci vediamo tutti di sotto al ristorante. Non bussate. Tony, mi hai sentito?»

Tony, sovrappensiero, sussulta e si porta una mano alla fronte. «Sissignore, certo signore. Mai più si ripeterà l’inconveniente dell’anno scorso. Mai, signore.» Enfatizza il gesto facendolo diventare la solita presa in giro per la quale è noto, e Martin alza gli occhi al cielo. Guarda Christian e dice: «Mi spieghi perché non dovrei licenziarlo?»

Christian gli mette una mano sulla spalla. «Perché è il migliore nel suo lavoro.»

«Già, già.» Martin scuote la testa e con un gesto della mano ci saluta tutti, prima di rintanarsi in camera con Phoebe.

«Sul serio avresti voce in capitolo per farlo licenziare?» Domanda Rachel, esitante. Christian aggrotta la fronte e apre la bocca per rispondere, ma Clara lo precede: «Certo, è il cocco di Martin!» Ridacchia e sparisce in camera. Brava, sparisci, prima che ti lanci giù per il vano ascensore. E non dalla cabina.

«Non è vero, stava solo scherzando…» Mormora Christian, e in quel frangente colgo lo sguardo preoccupato di Rachel rivolto a Thomas, che sta sbuffando mentre cerca di aprire la porta della stanza.

«Oookay, non siamo qui per parlare di lavoro, giusto? A dopo, ciaaao!» Rachel spinge me e Lily in camera e poi richiude la porta come se in corridoio fosse appena scoppiata una bomba.

«Abbiamo bisogno di un piano.»

 

***

 

Ho appena scoperto che Christian, in realtà, ha cinque anni.

Stiamo percorrendo Calle 58 Este verso la fermata dell’autobus che ci porterà al Casco Viejo, ovvero la città vecchia di Panama, e qualcuno ha messo su un broncio da manuale.

«Io volevo andare al mare, tu non volevi andare al mare?»

Lo sta chiedendo a tutti, adesso è arrivato in fondo alla fila.

«No.» Rispondo, scrollando le spalle.

«E tu, Rachel?» Non si arrende, eh?

Rachel non lo guarda nemmeno. «Dove va Thomas vado io, lo vedi al mare per caso? No, è qui. Quindi no.»

«Thomas, vieni al mare!»

«Ma la vuoi smettere?» Esclamo, fermandomi.

Lui mi guarda torvo. «D'accordo, ci vado da solo al mare.» Ed eccolo lì, il suo fondoschiena da statua greca che si incammina nella direzione opposta alla nostra.

Sbuffo dalle narici e con un grugnito lo raggiungo in pochi passi. Gli afferro il codino e lo tiro fino a farlo fermare.

«Ahia, ma sei imp-»

«Tu non ti muovi da qui perché ho paura degli indigeni.» Sibilo, guardandomi intorno circospetta. Alcuni passanti ci osservano perplessi e io faccio finta di niente.

Christian alza un sopracciglio. «Non ci sono indigeni a Panama City.»

«Invece sì, sono TRAVESTITI da civili!» Esclamo, mentre lo trascino di nuovo nel gruppo.

«Elettra, funzionava anche se gli dicevi la verità.» Gracchia Tony, facendo scoppiare una bolla col chewingum dritta nel mio orecchio.

«Io ho detto la verità! Di che diavolo stai parlando?»

«Del fatto che vuoi che stia con te.» Guardo Christian che ha incrociato le braccia e mi sta guardando con un sorrisetto molto esplicito.

«Bene, vai al mare. Ciao.»

«D'accordo.» Così come lo pronuncia, si allontana verso il mare e gli altri verso il centro, così che resto perfettamente impalata al centro della strada senza sapere che fare.

«Sapete cosa c’è, quasi quasi resto in albergo e mi riposo, non è che sia poi così lucida e pimpante per…»

«Ooooh, che diamine! Non fate gli asociali!» Tuona Martin esasperato, e devo dire che sinceramente aspettavo questa reazione parecchie battute fa. Non faccio in tempo a dare la colpa a Christian che mi sento sollevata in aria e ho un terribile déjà vu.

Quando mi deposita a terra davanti a tutti, e intendo proprio dopo aver attraversato tutta la fila, sono talmente furiosa da non riuscire a parlare. Punto il dito indice proprio di fronte al suo naso maledettamente dritto e riesco a far uscire qualche parola fra i denti.

«Tu… tu sei pieno di brutti vizi!»

Lui mi circonda le spalle col braccio contro la mia volontà, oscurandomi la vista con la sua mano gigante da orsacchiottone. «Lemon, stai zitta o domani al mare ti affogo.»

«Giuro che ti farò mangiare crudo dagli indigeni!» Strillo, lottando contro la mano che sta cercando di affogarmi.

Certo, affogarti…

«Oppure ti lascio da sola al largo in mezzo agli squali.»

Se avessi anche solo pensato di crogiolarmi nell’illusione che la nostra fosse una conversazione privata, beh, non avevo tenuto conto di Clara. «Squali? Ci sono gli squali qui?!» E con lei anche i due mitici eroi Christopher e Mike, che hanno iniziato a googlare “Panama” e “Squali”.

Sbuffo, e con l’ennesimo schiaffo riesco a togliermi la sua mano dal viso. «Sei un cretino, hai scatenato il panico.» Mi libero anche dalla presa del suo braccio e cammino per una decina di metri in silenzio. Poi lo guardo di sottecchi. «Ci sono davvero gli squali qui?»

Il suo sorriso dolce e al tempo stesso malizioso mi fa perdere due o tre battiti. «Non necessariamente a mare.»

 

***

 

«No, io non sono razzista, ma quel tizio davvero mi sembra un indigeno. Guarda, ha un dente d’oro!»

Siamo appena saliti sull’autobus che ci porterà nella città vecchia: tredici turisti per caso abbarbicati alla bene e meglio ai supporti per le mani. Questi autobus sono chiamati diablos rojos, ovvero ‘diavoli rossi’, e quando ha chiuso le porte ho capito perché. Credevo fosse solo perché somigliano a dei murales ambulanti, pieni di disegni inverosimili dove Gesù è affiancato a Madonna (non Maria, ma la pop star), e invece scopro che questi aggeggi infernali sono guidati da pazzi che, tra slalom e sorpassi da tutte le parti, sfrecciano nel traffico a velocità da formula uno.

Qualche fortunato di noi è riuscito a trovare un posto. Io, naturalmente, no, e sono altamente instabile, oltre che pericolosamente vicina a un indigeno travestito da civile. Sono sicura che sotto l’ascella pelosa nasconda un lacrimogeno.

E perché mai un indigeno dovrebbe avere un lacrimogeno? Quelli sono i terroristi, e tu hai visto troppi thriller contemporanei.

Christian alza gli occhi al cielo. «Anche Johnny Depp ha un dente d’oro.» Bisbiglia, cercando di non attirare l’attenzione dell’indigeno, cosa di cui io, intelligentemente, non mi preoccupo.

«Quello era Jack Sparrow, in realtà.»

L’autobus si ferma e decine di bambini con i loro zaini salgono con la grazia di un branco di elefanti imbufaliti, urtando tutto quel che trovano al loro passaggio, ovvero il mio braccio, la mia schiena, le mie gambe e i miei piedi. Contemporaneamente e convulsamente.

«Sì, e nemmeno Jack Sparrow era un indigeno.» Mi fa notare Christian, pazientemente. Asseconda tutti i miei scleri paranoici senza battere ciglio, e ormai sento di essere su un terreno scivoloso ma sono troppo orgogliosa per ammettere di aver iniziato un dibattito inutile sui denti d’oro.

«Beh, no, ma ha avuto a che fare con gli indigeni… se lo sono quasi mangiato arrosto!» Ribatto, appunto, sulla buona scia per cambiare totalmente argomento, cosa che mi riesce particolarmente bene.

Tranne che con Christian, che mi guarda con tanto di sopracciglio aggrottato in un’espressione snob. «Devo anche risponderti?»

Alzo gli occhi al cielo, ormai con le spalle al muro e con l’ombra di un piccolo sorriso. «No, d’accordo.»

Christian non fa in tempo ad apprezzare il mio mezzo ghigno che si ritrova pesantemente sbilanciato all’indietro con un peso massimo di – no, non vi dirò mai quanto peso – addosso, troppo impegnata a guardare gli indigeni per mantenermi da qualche parte. Imprechiamo tutti contro l’autista che ha inchiodato di botto per cosa? Far attraversare una tartaruga marina? Santo cielo, neanche a New York inchiodano così.

«Razza di imbecille, ti è venuta una mossa spastica al piede? EH?» Esclamo, facendo girare un paio di indige... abitanti del posto.

«Potresti, per esempio, evitare di farmi saltare un timpano la prossima volta?» Christian si massaggia l’orecchio offeso e io mi rendo conto di essere ancora spalmata addosso a lui come paté alle olive.

Mi allontano da lui con tutta la nonchalance del caso, stavolta aggrappandomi saldamente a un supporto alla mia destra.

«È questa la vostra fermata, signori!» Esclama l’autista col morbo di Parkinson una manciata di minuti dopo, come se non vedesse l’ora di farci scendere. Ehi, che problemi ti stiamo dando, amico? Tzè. Gli aborigeni non capiscono la classe.

E tu non sai distinguere una persona mulatta da uno pseudo selvaggio.

«Molto bene.» Alexandra la secchiona apre una grande cartina e cerca di capire dove siamo.

«A me sembra di stare in una terra di mezzo. Tra Portobello e il Bronx.» Commento, osservando le case di diversi colori più o meno in rovina.

«Ehi, lì c’è scritto che parte una guida ogni mezz’ora.» Interviene Mike, spulciando il suo dizionario di spagnolo. Martin sembra d’accordo, così ci dirigiamo tutti al punto d’incontro, dove effettivamente si presenta una bionda super abbronzata con tre strati di ciglia finte e un rossetto rosso sgargiante.

«Questa sarebbe una guida? Sa parlare?» Borbotta Lily, alzando un sopracciglio. «Cielo. Sembra uscita da una puntata di Dire, fare, baciare

L’unico intraprendente che avrebbe potuto arrischiarsi a parlare è, naturalmente, Tony Shark. Le si avvicina col suo sorriso migliore e si spettina un po’ i capelli prima di rivolgerle la parola.

«Hola, niña.» Incalza, sicuro di sé. Poi inizia a balbettare. «Noi… ehm… nosotros… somos… ehi, aspetta. Elettra, perché non vieni un po’ qui?» Mi sta facendo cenno di andare a tradurre qualche stupida avance alla sorella di Nicki Minaj, ma non ci penso nemmeno.

«Ce la puoi fare, muchacho.» Gli faccio il verso, fingendo un conato di vomito subito dopo.

Tony mi lancia un’occhiataccia e torna a guardare Nicki. «Somos estatunidenses y quieremos…»

«Queriamos.» Mormoro, alzando gli occhi al cielo.

Tony prosegue gesticolando col massimo charme e ammiccando a più non posso. «Queriamos vere el.. er… che cazzo questo spagnolo… cientro… el Casco…»

«Centro, non cientro.» Intervengo di nuovo, stavolta a bassa voce prima che Tony si dia al linciaggio pubblico di traduttrici innocenti.

«Claro, por aquí joia bela.» La bionda sbatte le ciglia e si incammina verso una delle tante vie che ci circondano. «Los hombres adelante!» Esclama, facendo una risata frivola e sculettando a più non posso. Rachel, Lily ed io la guardiamo torve e ci piazziamo in prima fila, contrariamente a quello che ha detto.

«Ma joia bela non è portoghese?» Bisbiglia Rachel, confusa.

«A me sembra un trans, hai sentito che voce?» Lily è a dir poco inorridita.

Tony invece ha il volto di chi ha visto l’Eden e un sorriso ebete stampato in faccia. Si è messo accanto a lei e camminano a braccetto. Quanto è caduto in basso.

Improvvisamente, Miss Finezza 2013 inizia a parlare inglese. A modo suo, ovviamente.

«Inisiamo col Palacio Presidencial, dove vive los presidencie di Panama.» Ci indica un palazzo interamente bianco, talmente bianco che sembra un plastico, contraddistinto da diverse bandiere, stendardi, striscioni e chi più ne ha più ne metta, tutti riportanti i colori della bandiera di Panama. «Questo edifisio è chiamado anche Palacio de las Garzas, por las… garzas…» Si porta sbadatamente la mano alla testa, come se avesse dimenticato qualcosa.

«Gli aironi.» Traduco, secca, e lei sorride melensa.

«Sgiusto, gli airroni! Por gli airroni che caminano nel patio.» Sculetta ancora un po’ indicando chissà cosa e poi prosegue, instabile sugli zoccoletti altissimi.

«Sono d’accordo con Lily. È un trans portoghese. Anzi, secondo me nemmeno quello. Parla peggio di mia nonna senza dentiera e la sua conoscenza della città è pari a quella che potrei avere anch’io leggendo la pagina di Wikipedia.» Osservo, scrutando attentamente le sopracciglia tatuate. Christian e Danny, appena dietro di noi, stanno commentando i suoi pantaloncini praticamente inesistenti. Lo sguardo assassino da parte mia e di Lily non passa inosservato.

Continuando a camminare, arriviamo in una piazza, che la signorina ci presenta come Piazza Bolivar. Ma c’è scritto ovunque quindi è stato uno spreco di fiato alla fragola.

«Questa plaza se llama così porqué Simón Bolívar il libertador si riunì per aposgiare l’unione dei paesi latini y americani. Quello è il Teatro Nacional, belissimo! Tutto pieno de rosso e oro e cristalo franscese!» Nel modo esagerato in cui gesticola mi ricorda Effie Trinket. Solo che Effie avrebbe il duecento per cento di classe in più di lei.

Imbocchiamo il Paseo General Estebán Huertas, un lungomare sopraelevato, e proseguiamo fino a giungere in capo al promontorio dove sorge Plaza de Francia.

«Questa plaza è dedicada a Ferdinand de Lesseps e agli inscegneri franscesi che lavorarono al canale di Panamá. Guardate l’obelisco! Mi fascio una foto con voi, hombres! Venite!»

Christopher si arma di macchina fotografica e scatta foto a più non posso. A me tocca farne una a Christian con Pamela – sì, si chiama PAMELA. Non ridete. – e sono sicura di non aver mosso la macchina di proposito. Sarà venuta sfocata per un caso.

Continuiamo per due isolati e visitiamo i resti dell’antica Iglesia y Convento de Santo Domingo, e poi la piazza più grande del centro storico, ovvero Plaza de la Indipendencia.

Pamela alias Dolores, come l’ho ribattezzata io, ci illustra le bellezze della piazza narrandoci qualche aneddoto che capisce solo lei, mischiando parole spagnole, portoghesi e credo di aver sentito perfino qualcosa di francese. È come se camminasse con un cartello appeso al collo con scritto “Impostora”. Ma la seguono tutti.

Dopo esserci inoltrati in un quartiere pieno di case pericolanti, ci fermiamo davanti a un’altra chiesa, quella di San José.

«Qui restate tuti unidi e sopratuto los muchachos posono venire da questa parte per protegere la guida ahahah!» Dolores trascina letteralmente Christian, Tony e Thomas con sé mentre inizia a parlare della chiesa.

Rachel ha un diavolo per capello.

«Ma tu guarda quella sottospecie di viscida piovra travestita da donna se deve mettere le sue luride zampe pelose addosso al mio Thomas!» Sta sibilando da dieci minuti, mentre Lily cerca di calmarla. Certo, perché Ursula non ha ancora accalappiato Danny.

Inizio a vedere doppio quando traballa sui trampoli e prende Christian per il braccio per essere sorretta.

«Lo ha tirato per un braccio.» Dico, e sono quasi sicura di avere uno sguardo vacuo. Che preannuncia la tempesta.

«Ma no che non lo ha tirato per un braccio, ti sei impressionata.» Lily mi tocca la spalla e Rachel spalanca la bocca.

«Adesso con Thomas!»

«CHRISTIAN vieni a darmi una mano, per favore?» Strillo, fingendo di aver bisogno d’aiuto. Per fare cosa? Non ci ho ancora pensato, ma ci arriverò. Christian si volta a guardarmi ma Alexandra – che sarà morta prima di tornare a Miami – richiama la sua attenzione mostrandogli un dipinto nella chiesa.

«Christian a te non piacciono i dipinti, vero?» Dico tra i denti dopo averli raggiunti. «Piuttosto, guarda quell’altare!»

«In realtà mi piacciono…» Oh cielo. Perché gli uomini sono tutti ottusi?

D’accordo. Piano B.

Vado da Danny e lo prendo sottobraccio per fargli vedere l’altare. Traduco le note illustrative così che Christian veda che sto parlando. «Questo è l’Altar de Oro, uno splendido altare barocco d’oro risalente al XVII secolo. La leggenda vuole che i frati riuscirono a sottrarlo alla razzia del pirata Morgan, dipingendolo completamente di nero.» Ci aggiungo qualche altra cosa inventata per allungare il brodo, e finalmente dopo un po’ la mia geniale strategia porta i suoi frutti.

«Che dicevi, di quest’altare? Dan, Lily ti sta cercando.» Christian mette amorevolmente una mano sulla spalla a Danny, mentre gli indica la posizione esatta della sua ragazza. Certo, amorevolmente.

Si può sapere che problemi hai, Elettra?

Nessuno, perché?

«Bleah, profumi di fragola zuccherata con una spruzzata di cannella giamaicana.» La butto lì, storcendo appena il naso e avanzando verso un arazzo. Non è vero, Christian profuma sempre di Christian e di Hugo Boss, ma dovevo dire qualcosa.

«E tu profumi di stragelosia avariata, piccola Elettra.» Risponde lui con tutta la calma del mondo, passandomi un dito alla base del collo mentre mi raggiunge dall’altro lato.

«Devi smetterla di chiamarmi piccola Elettra, mi fai sentire una bambina di tre anni.» Grugnisco, concentrata ad ammirare qualcosa di non meglio precisato, solo per non guardare lui.

«Non sei una bambina di tre anni.» Lo sento dire, e a quel punto incrocio il suo sguardo divertito. «Sei una bambina di ventisei anni.»

Stavolta riesco a tirargli un destro ben assestato che lo fa mugolare più per la sorpresa che per il dolore, ma sono ugualmente soddisfatta. D’altra parte, però, non so proprio cosa rispondere senza insultarlo pesantemente – e oltretutto confermerei la sua affermazione –, così giro sui tacchi e raggiungo Martin e Phoebe. Butto lì qualche frase di circostanza sul tempo e il panorama, e dopo un po’ inizio a parlare con questa splendida donna, che per giunta è anche simpaticissima. Non conosco bene Martin, ma direi che sono una meraviglia insieme.

«Allora, Elettra. Tu sei la new entry del gruppo ma sei con noi da abbastanza tempo per dirmi cosa pensi della MP.» Naturalmente, a origliare arrivano subito anche Lily e Tony, come se avessero un radar per captare le occasioni in cui mettermi in imbarazzo pubblicamente.

«Cosa penso? Ehm… beh…» Cerco di trovare le parole adatte, ma in fin dei conti non ce n’è neanche troppo bisogno. «Penso che sia una squadra eccezionale, formata da professionisti più o meno eccentrici – e qui Tony ridacchia – ma anche da persone di cuore, genuine. Mi piace molto lavorare con voi.» E ora lasciatemi in pace, grazie.

«E hai avuto modo di notare qualche… come dire… legame, tra i tuoi colleghi?» Il tono di Martin è estremamente innocente, ma ha quello sguardo indagatore che non promette nulla di buono, specialmente con quei due chiacchieroni nei paraggi. Sto per battere in ritirata con la scusa di cercare un bagno, quando Mr Gola Profonda, senza battere ciglio, butta lì la frase più catastrofica della giornata.

«Certo, digli di te e Christian.»

«Te e Christian?» Ripete Martin, incalzante.

Li guardo sbigottita. «Cosa? Non c’è niente da dire su me e Christian. Piuttosto, Lily…»

«Dai, digli che vi piacete da circa un millennio e tu lo stai torturando, poverino…» Subdola, subdola serpe di una Lily… non te la caverai mica con quel sorrisetto innocente.

«Sì, e per giunta hanno anche dormito insieme e lui l’ha vista seminuda, e poi…»

«...lui ha scelto la sua torta preferita, ma poi hanno litigato, e…»

«…è stato tutto il tempo in ospedale ad assisterla…»

«RAGAZZI!» Strillo, col viso ormai in fiamme. «Voi siete matti. Siete… oh, Dio, non riesco a credere di aver appena assistito a questa conversazione. Devo sedermi.» Mormoro, con la testa che mi gira. Hanno appena spifferato ai quattro venti alcuni dei dettagli più imbarazzanti e al tempo stesso significativi del mio rapporto con Christian. Come se stessero raccontando la trama dell’ultimo episodio di Doctor Who! Ora mi butto nel canale.

Martin mi ferma e mi poggia una mano sulla spalla. «Elettra, stai tranquilla, non è mica un problema… vorrei solo non essere l’ultimo a sapere le cose…»

«Danny e Lily amoreggiano sempre nella stanza delle fotocopie!» Esclamo, e vedo Lily spalancare la bocca, in una smorfia tra il comico e l’indignato.

«E allora? Anche io l’ho fatto una volta. Che c’è di strano?» Interviene Tony, corrugando la fronte. Martin, attonito, sbatte le palpebre per qualche istante e poi fa spallucce. Lily è salva, ma io sono sempre più sconcertata.

«Lo dicevo io che ero capitata nel Grande Fratello.»

 

***

 

Il sole è quasi arrivato alla fine della sua corsa, ma noi siamo ancora belli arzilli e pimpanti nonostante la stanchezza del viaggio. Abbiamo fatto compere in alcuni adorabili negozietti caratteristici del paese e pranzato al ristorante dell’albergo. Dopo una doccia rigenerante, siamo tutti riuniti nella hall per decidere il da farsi.

«Io propongo la spiaggia.» Sta dicendo Christian, per la… quarantesima volta?

«Signore Onnipotente, andiamo in spiaggia prima che gli venga una crisi epilettica.» Esclama Danny, esasperato dall’insistenza del suo redattore. La frase ci fa ridere e Martin acconsente, a una condizione: faremo equitazione.

«Però prendiamo un taxi.» Intervengo, ancora scioccata dalla corsa sul diablo rojo.

Quando arriviamo su una spiaggia della costa di Coclé, Martin sembra già sapere il fatto suo, e si dirige verso un maneggio poco distante. Clara e Christopher si chiamano fuori, cosa che avrei voluto fare anch’io, ma Rachel me l’ha impedito. Nuove esperienze, dice. Anch’io avrei in mente un paio di nuove esperienze da farle fare, se vogliamo dirla tutta.

Le coppiette decidono di cavalcare romanticamente insieme, dunque escono i primi tre cavalli per Martin, Danny, Thomas e compagne. Mike e Christian scelgono i loro, dopodiché tocca a me e Tony. Adocchio un cavallo nero, bellissimo. Devo ammettere che in una delle mie innumerevoli fantasie ho sempre sognato di cavalcare un cavallo nero.

Certo, ora si dice così.

«Chi di voi sa cavalcare?» Domanda un tizio vestito di tutto punto, che suppongo sia un istruttore, e resto sbalordita quando almeno quattro di noi alzano la mano, ovvero Martin, Danny, Tony e Christian. Ovviamente. Cos’è che non sa fare quell’uomo?

Conquistarti, pare.

«D’accordo. Se voi altri vi sentiste insicuri, io o uno degli altri istruttori siamo a disposizione per aiutarvi. In ogni caso, i cavalli sono tutti addestrati e non hanno mai dato problemi.» Rivolge lo sguardo a noi poveri ignoranti di cavalcate, e nessuno fiata. Si vede che Alexandra se la sta facendo sotto dalla paura, ma non accenna il minimo movimento. Orgogliosa.

Ah, senti chi parla! Come mai stai a dieci chilometri dal tuo bellissimo cavallo nero?

L’istruttore ci lascia dopo aver appurato che nessuno ha bisogno di aiuto – come siamo temerari! – e Martin, d’ora in avanti soprannominato Lady Oscar, inizia a spiegarci come prendere confidenza col cavallo e prepararlo alla cavalcata. Vedo gli attrezzi che ci hanno fornito i tizi del maneggio e un brivido agghiacciante mi percorre la schiena.

Non mostrare mai la paura a un animale: loro lo fiutano. Da brava, Elettra. Che sarà mai? È solo uno stupido cavallo. Non c’entra niente il fatto che potrebbe azzopparti con un lieve movimento della zampa, o darti un morso e staccarti tutte le dita.

«Per prima cosa, prendete quell’arnese dall’aria raccapricciante che si chiama striglia e iniziate a spazzolare il pelo del cavallo. Ecco, così. Poi togliete i residui con la spazzola rigida e rifinite con quella morbida. Se volete, col pettine a coda potete dedicarvi alla criniera o alla coda.» Spiega Martin, mostrandoci come si fa.

Sì, certo. Come se fossi così stupida da toccare la coda di un cavallo!

Guarda che non gliela stai mica pestando. E non è una tigre!

«Buono, cavallo. Ciao. Salve.» Mi avvicino lentamente a Tornado – ho deciso che lo chiamerò così. Quanto posso essere originale da uno a dieci? Non ditemelo – e con la striglia comincio a pulire il pelo. D’accordo, non è così difficile, e il cavallo sembra non detestarmi troppo. Fa un paio di sbuffi e io indietreggio di circa tre metri ma poi capisco che è normale e mi limito a trattenere il fiato sperando che non mi atterri con un calcio.

«Adesso monteremo la sella, in quest’ordine: sottosella, agnellino e poi la sella vera e propria.» Ci mostra come fare e io stranamente riesco a eseguire il tutto senza combinare casini. O almeno, se non contiamo il fatto che sono caduta due volte mentre cercavo di agganciare la cinghia e Tornado stava per uccidermi, ma sono dettagli.

Quando arriva il momento delle briglie, sto per sentirmi male. Io dovrei infilare questa cosa in bocca al cavallo? Ma sono impazziti?

«Va bene, cavallino.» Lo guardo negli occhi e inizio a sudare freddo. Si vede che mi odia. Perché non ho scelto un pony? «Ora apri lentamente la bocca e mordi questo, d’accordo? Non la mia mano. Questo.» Gli indico quest’affare che non so neanche come si chiama – Martin l’ha detto, ma ero troppo impegnata a farmela addosso per ascoltare – e lui, con mio sommo gaudio e tripudio, obbedisce senza battere ciglio.

Tra un po’ se lo metteva da solo in bocca, idiota. Cosa credi che lo addestrino a fare?

Taci tu, vecchia baldracca!

Prima di salire, Martin passa a controllare i finimenti di noi inesperti. Stringe un po’ la cinghia al cavallo di Alexandra e ci dice che siamo tutti pronti ad andare.

Dopo aver infilato il casco, che mi fa sembrare un soldato tedesco più che una cavallerizza, ci prepariamo a montare. Ah-ha, come se fosse facile. Cerco di calarmi nella parte di un’intraprendente amazzone e mi mantengo alla sella mentre infilo il piede nella staffa. Prego per circa dieci secondi di non fare una gigantesca figura di profondo sterco, e poi mi do lo slancio per salire e sedermi. Quando credo di avercela fatta, perdo l’equilibrio e finisco per aggrapparmi al collo di Tornado – i cavalli hanno un collo? – lasciandomi sfuggire un gridolino di terrore. Provo a ignorare gli sguardi degli altri e piano piano mi sistemo sulla sella fino a raddrizzarmi e ritrovare la posizione di una persona seduta su un cavallo. Va bene, ce l’ho fatta. Mi asciugo una gocciolina dalla fronte e guardo Tony sorridente.

«La cosa da ricordare sempre è guardare in avanti e tenere la schiena dritta, allineata con i talloni. Se vi sembra di perdere l’equilibrio, afferrate la criniera del cavallo finché non lo riacquistate.» Spiega Martin, e io inorridisco. Credo che anche Tornado sia inorridito, così lo accarezzo piano e gli sussurro qualcosa.

«Stai tranquillo, non voglio mica tirarti la criniera. A me dà fastidio quando mi toccano i capelli, figuriamoci se me li tirassero. Tranquillo, cavallino.» Per concludere gli do due colpetti e lui, inaspettatamente, inizia a camminare. «Oddio, cavallino. Vuoi avvertirmi?!»

Resta calma. Calma. Respira, su.

Come si ferma questo coso?!

«Ehm, Martin?» Provo a dire, con gli occhi spalancati e il terrore che mi scorre nelle vene. Lui si gira e mi raggiunge col suo cavallo marrone, Phoebe dietro di lui che si tiene saldamente ma con la postura di una dea greca.

«Se vuoi fermarti, affonda la seduta nella sella e fai pressione con le redini. Puoi anche dire “hoo”!» Mi dice, e per tutta risposta il suo cavallo si ferma.

«Certo. Mi ci vedi a dire “hoo”? Chi sono, il nonno di Heidi?!» Infatti, Tornado non mi ha nemmeno preso in considerazione. Che sia femmina? Devo provare a chiamarla Violet.

Un piccolo sforzo dopo l’altro, riusciamo a partire tutti. Chi trotta, chi si muove e poi si ferma dopo due passi, chi si fa una galoppata e torna indietro. Io sono a metà tra le prime due categorie, con Tony alle calcagna che mi prende in giro non appena il cavallo si ferma, e quando mi giro a guardarlo Tornado intercetta il movimento della mia testa e gira anche lui, facendomi tornare dov’ero prima. Mi sto innervosendo parecchio, sapete.

«Elettra, potresti anche fare tre metri consecutivi, non c’è niente di male!» Mi sfotte Lily, beffarda.

«Infatti, dovrei proprio imparare da te. Guarda con che bravura stai guidando il tuo cavallo… ops, non lo stai guidando tu.» Le rispondo con una linguaccia, e lei ride.

Quando Tornado si ferma per l’ennesima volta, lasciandomi sempre per ultima – diamine, perfino Alexandra è avanti con gli altri! –, mi chino in avanti e stringo i polpacci, più forte delle volte precedenti.

Non l’avessi mai fatto.

Tornado inizia dapprima a trottare velocemente, poi quando tiro le redini per fermarlo, o almeno così credevo, parte al galoppo facendomi urlare come una disperata.

«Cavallinoooo! AAAAAAAAAAHHHHHHIIIIUUUUTOOO!» Cerco di aggrapparmi a lui il più possibile, e gli tiro anche la criniera con tutta la mia forza, col risultato che il bastardo – o a questo punto dovrei dire proprio la bastarda – raddoppia la velocità. Ormai sobbalzo a ritmo di samba e il riso col pollo del pranzo sta pericolosamente risalendo verso l’uscita sbagliata.

«Elettra, non stringere le gambe!» La voce della salvezza. Mi volto a guardare Christian, e poi mi ricordo che i cavalli seguono lo sguardo del cavaliere, per cui spalanco gli occhi terrorizzata in attesa di una sterzata che non arriva, perché ormai Tornado ha deciso di raggiungere la Florida entro sera.

«CHRISTIAAAAAAAN!» Mai avrei pensato di urlare il suo nome in questo modo. Sto quasi per mettermi a piangere. Quando vedo la testa del suo cavallo un singhiozzo mi scuote il petto. Vedo che incita il suo destriero – bianco, che ve lo dico a fare? – a correre più veloce con fare esperto e per un momento penso che sia la cosa più bella che abbia mai visto. Poi torno a singhiozzare.

«Adesso mi avvicino e tu ti aggrappi a me. Mi hai capito, Ele? Devi aggrapparti più forte che puoi!» Esclama, fissandomi con quell’azzurro così intenso in cui leggo tracce di inquietudine e al tempo stesso determinazione. Annuisco e aspetto il momento in cui il suo cavallo affianca il mio per lasciarmi afferrare dalle sue braccia e stringerlo a mia volta, mentre mi trascina davanti a sé con una forza incredibile. Ho ancora gli occhi chiusi quando mi rendo conto che siamo fermi.

«È tutto finito, Elettra. Sei al sicuro.» Le sue parole mi fanno scappare una lacrimuccia invisibile che mando via con un gesto repentino del braccio. Sono stretta al suo petto, coccolata dalla sue mani che mi tranquillizzano con gesti lenti e rassicuranti. Tiro su col naso e lui mi stringe ancora di più, posandomi un bacio sui capelli. «Accidenti. Neanche i cavalli ti resistono.» Dice, e nonostante tutto mi scopro a ridere sommessamente contro la sua camicia.

«Grazie.» Mormoro, dopo un po’, ma credo che non mi abbia sentito perché in quel momento arrivano gli altri, che domandano concitati cosa è successo e come sto adesso.

Sto bene. Sì, ora sto bene.

 

***

 

Se di giorno le città di Panamá possono apparire sonnolente, di notte si scatena la vita notturna. E onestamente, dopo lo spavento di oggi, un po’ di sano alcol e musica caraibica era proprio quel che ci voleva.

Dopo aver riportato i cavalli al maneggio, compreso il mio traditore che si era fermato un chilometro dopo avermi lasciato tra le braccia di Christian, Martin ci ha portati in un villaggio poco distante, dove l’oscurità ha assunto mille tonalità colorate e l’infrangersi delle onde sulla costa è stato sostituito dai ritmi della musica salsa e reggae.

Siamo in un locale davvero carino, tranquillo e semplice, e per un attimo sembra di stare in quelle località tropicali dove gli aperitivi vengono serviti in chioschi coperti di foglie di palma secche e sono tutti allegri e spensierati.

Aspetta un attimo, ma noi siamo davvero in una località tropicale. Il locale affaccia sulla spiaggia, e anche se il tetto è ovviamente più solido, è ricoperto ugualmente da foglie di palma per ricreare l’atmosfera. Potrei anche dire che siamo tutti allegri e spensierati, specialmente dopo aver bevuto quantità industriali di seco, la bevanda alcolica nazionale. A me non fa impazzire l’alcol, ma questo scende giù che è una meraviglia.

Perciò, ringraziatelo pure se ho raggiunto Christian in terrazza. È seduto su una specie di divanetto, con le gambe allungate in avanti e il volto rilassato mentre si gode la brezza serale. Non mi ha sentito arrivare, per cui mi prendo il tempo di osservarlo per qualche istante con un piccolo sorriso sulle labbra.

Quando mi siedo accanto a lui, apre gli occhi e mi guarda. Sorride, è dolcissimo.

«Come ti senti?» Mi domanda, girandosi leggermente verso di me.

Ho voglia di baciarti.

Cosa?

No, sono i fumi dell’alcol.

«Bene. Io… beh, pare proprio che debba ringraziarti per l’ennesima volta. Non puoi fare a meno di salvarmi.» Ridacchio, e mi sento stupida. Non avrei mai dovuto provare a cavalcare quel ridicolo animale.

Christian si stringe nelle spalle. «È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo.» Sorride, poi si fa serio. «Non ho altra scelta.» La sua frase, come un soffio, mi fa rabbrividire. Poi una muta richiesta, quella di tornare tra le sue braccia, che allarga per accogliermi. Questa volta, non indugio affatto.

 

 

 

 

 

~ Note

Meglio tardi che mai, diciamocelo. Avevo promesso a diverse di voi che il capitolo sarebbe arrivato entro l’anno passato ma ho tardato di qualche giorno. Su, su. Sorridete XD

Nuovo blend, nuova Elettra. Nuova mica tanto, però sta cambiando parecchio. Nel prossimo capitolo sganciamo la bomba *corre a rifugiarsi in un angolo*

Che dire? Devo ammettere che scrivere di questo viaggio si sta rivelando più complicato del previsto (tutte in coro: “MA DAI?!”) ma ho buone aspettative per il prossimo.

Intanto, ringrazio Luisiana e Wikihow per le dritte sull’equitazione, di cui non sapevo una cippa lippa, e Costanza e Federica per l’ultima risposta di Christian. So che così ho praticamente distrutto la sua reputazione di fluff-repellente (e vi cito testuali parole uscite dalle sue dita in chat: “ODDIO COSA MI FAI SCRIVERE, T'AMMAZZO, NON DIRE A NESSUNO DI QUESTA CONVERSAZIONE!”) ma lei sa che la adoro alla follia e non so cosa farei senza di lei NÉ senza le altre meravigliose ragazze del gruppo. Ragazze che stanno addirittura pensando di scrivere Missing Moments su questa storia, cosa di cui sono altamente onorata (e riguardo a questo leggete il P.S.).

Rinnovo come sempre l’invito a far parte del gruppo, chiedendo l’amicizia qui, e torno a darvi uno spoiler del prossimo capitolo, per ringraziare tutti voi lettori, silenti e non, che crescete di giorno in giorno. Siete arrivati a 500 e io non so davvero cosa dire, se non che non merito tutto questo seguito.

 

Spoiler:

«Ho un’ideeeea.» Dichiara, mentre apre la bottiglia. «Sedetevi tutti per terra. Forza, in cerchio.» Agita le dita descrivendo una circonferenza immaginaria e noi, più o meno scettici, facciamo come dice.

«Vuoi fare una seduta spiritica?» Domanda Lily con un sopracciglio alzato. Tony scoppia a ridere e prende posto tra Christian e Thomas. Io mi metto esattamente di fronte, vicino a Rachel.

«Per esorcizzarti quei capelli forse ci vorrebbe, ma no, facciamo qualcosa di divertente: giochiamo.» Danny ride scompigliando la chioma elettrizzata di Lily e Thomas si passa una mano sul mento, valutando la cosa.

«A cosa?» Chiedo, con una punta di terrore mitigata dall’alcol.

Tony continua a sorridere malefico mentre estrae il cellulare dalla tasca dei pantaloni. «Obbligo e verità.»

All yours,

Sara.

 

P.S.: About Wayne ha già un Missing Moment, scritto da colei che ispira la mia Rachel. Lo trovate QUI, e dovete leggerlo perché riguarda Rachel e Thomas e so che li amate. E poi perché è bellissimo, ovvio.

 

   
 
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