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Autore: IreChan    08/01/2014    4 recensioni
" Parlami di lui. Di Giovanni, di mio padre, parlami di come l'hai conosciuto, di come avete deciso di... Avermi e perché... Mi avete... respinto” [...] “ Dimmi del Team. Voglio sapere tutto. Almeno ora che... lui è sparito. ”
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Memorie di Atena dopo l'ingresso nel Team Rocket.
( Silverspawnshipping )
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Giovanni, Silver, Team Rocket
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Manga, Videogioco
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Per la gioia di tutti- *si sentono insulti in sottofondo* sono tornata. Esatto. Eccomi con un nuovo capitolo. Con IL capitolo. Sì, avete capito bene.
Scusate se ci ho messo tanto ad aggiornare, ma tra compiti, vacanze, cosplay, battling vario e, sì, anche vita sociale, non ho avuto tempo. Ma ora mi faccio perdonare. Grazie a tutti per i commenti, spero che anche altri inizino a seguirmi! \(°3°)/
Buona lettura!

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Quella notte non aveva dormito. Aveva passato ore e ore rannicchiata sul letto a osservare il distintivo che fino a poco prima troneggiava all'altezza del seno prosperoso, a rigirarselo tra le mani, a cercare di distogliere i pensieri che, alla fine, tornavano comunque a tormentarla. Aveva maledetto i suoi Pokémon, poi se stessa, e subito dopo aveva scagliato le pokéball dall'altra parte di quella nuova stanza che le era stata assegnata in quanto generale. Quattro mura che sembravano volerla schiacciare.
Chiudeva gli occhi, li riapriva di scatto, poi si voltava, cambiava posizione, sbuffava. Niente, il sonno non sarebbe sicuramente giunto.
Eppure tentava di ragionare, di dirsi che il suo corpo non era un prezzo troppo alto da pagare per una luccicante spilla da generale e tutti i privilegi che ne conseguivano. Era stata lei, in fondo, ad aver giurato a se stessa che il suo obiettivo sarebbe stato raggiunto a qualunque scopo.
Ma, più tentava di razionalizzare, più tutte quelle parole apparivano vane e insensate, ben distanti dalla realtà: aveva paura ed era in preda all'agitazione, all’ansia, quasi alla claustrofobia.
Si voltò sul ventre, prese ad attorcigliarsi convulsamente intorno a un dito una ciocca dei suoi capelli scarlatti e si rannicchiò su se stessa.
Il suo cuore aveva ripreso a suonare quella musica selvaggia simile a quella di non molte ore prima che però ora, in quella posizione, percepiva con ogni singola parte del corpo. Sperò che quell’incubo finisse presto.
Voltò lo sguardo verso l'orologio appeso al muro.
Tic tac.
Le quattro del mattino e qualche non ben definito minuto.
Tic tac.
Non si era accorta di quanto fosse trascorso, aveva perso del tutto la concezione del tempo.
Tic tac.
Che smettesse, quel maledetto suono, che tacesse, quell’arnese infernale!
Ora, a invaderle le orecchie, la mente, c'era quest'incessante ticchettio. E aveva preso a contare ogni secondo, minuto, ora, nemmeno fosse una condannata a morte.
Ogni tentativo di abbandonarsi al sonno, possibilmente senza sogni, era inutile.
Serrò gli occhi del colore del rubino, si portò le mani alle orecchie, quasi a voler tenere quel rumore penetante il più lontano possibile da lei.
Affondò il volto nel cuscino.
E gridò con tutto il fiato che aveva in gola.
Così nessuno avrebbe potuto sentirla. Quel modo era l’unico per potersi sfogare.
Poi, d'un tratto, un lampo le balenò nella mente in quell’attimo di follia e le sembrò di dimenticarsi qualcosa. Giusto, le pokéball, che ora, dopo essere rotolate di qualche metro, giacevano tristemente in un angolino della stanza. E non si erano nemmeno aperte.
Si mise a sedere di scatto così come si era riversa, per poi poggiare i piedi nudi a terra. Un brivido le corse lungo la spina dorsale.
Si mordicchiò un labbro.
Si alzò in piedi.
A passi felpati si avvicinò alla sua meta, recuperando le tre sfere.
Si accorse al tatto che la loro superficie, a seguito dell'impatto, non era più liscia, ma risultava irregolare. Probabilmente anche chi ci stava all'interno si era fatto male.
Tanto peggio per loro, pensò Atena, che le avevano fatto fare una figura così disastrosa. Anzi, più che un pensiero era quasi un augurio, e, se non era accaduto, gliel'avrebbe fatta pagare appena avrebbe avuto tempo. Un Pokémon debole per lei non valeva nulla.
Un Pokémon che la faceva perdere e stare a quel modo, ancora meno.
A piccoli passi e a capo chino si diresse nuovamente in direzione del suo letto e vi si lasciò cadere sopra. Aveva ancora le tre sfere Poké nelle mani.
Si mise nuovamente in posizione fetale, imprecando a denti stretti.
Immaginò che il capo, in quel momento, stesse dormendo della grossa, non curandosi nemmeno che una ragazzetta dai capelli rossi, fresca di nomina a Generale e a oggetto dei suoi desideri, potesse essere ridotta in quel modo. Eppure non riuscì a maledirlo, né a vomitare imprecazioni e parolacce a lui rivolte come avrebbe tanto desiderato. E per quello si detestava, per quella sorta di remissione che, nonostante tutto, provava nei suoi confronti. Maledetti fossero stati il suo carisma e le sue abilità di comando.
Serrò nuovamente gli occhi, imponendosi, chissà come, di non pensarci. Ma sapeva comunque dell’inutilità del tentativo ancor prima di provarci.
E si rigirò ancora e ancora, mentre il ticchettio dell'orologio continuava a ferirle le orecchie.
Andò avanti in questo modo almeno un paio d’ore.
Successivamente non avrebbe potuto dire con certezza quanto le ci fosse voluto a calmarsi o a ottenere qualcosa di almeno simile alla tranquillità, fatto stava che, alla fine, era riuscita ad addormentarsi.
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La luce mattutina le ferì gli occhi.
Li aprì improvvisamente e si mise a sedere.
Un suono gracchiante, invece, le fece tappare le orecchie. Murkrow era uscito dalla pokéball divenuta difettosa e ora svolazzava intorno, emettendo un rumore veramente fastidioso. Avrebbe dovuto riparare al più presto quella sfera, prima che quello stupido uccello la disturbasse di nuovo. Lo richiamò dentro.
Poi si stiracchiò.
Aveva tutte le membra indolenzite per la pessima posizione che aveva mantenuto durante il sonno. Quello non le sarebbe stato d’aiuto. 
Di nuovo, ecco che il pensiero tornò.
Dopo averla congedata, il capo l’aveva richiamata un attimo per comunicarle l’infausto orario... che adesso era arrivato.
Si alzò in piedi.
Non avrebbe dovuto ritardare.
Svolse come un automa tutte le azioni quali lavarsi e vestirsi con i nuovi abiti da Generale che erano stati recapitati, per poi ricordare a se stessa di cercare almeno di sembrare un essere umano.
Si appuntò la spilla con la “R” rossa sul petto, poi le pokéball difettose alla cintura, e si contemplò.
Niente male, comunque.
Avrebbe sicuramente fatto una buona impressione: quella divisa, ben diversa dalla precedente, la valorizzava dove necessario. Chissà se era stato voluto. Sospirò.
Almeno i colori, un bel bianco con rare tracce di nero attorno al collo, alle maniche e al ventre, e il taglio erano decisamente migliori di quelli vecchi. La gonna era molto più lunga, gli stivali più alti.
Sì, così suggeriva decisamente un’idea di potere. Quello sembrò calmarla, finché non si ricordò delle tempistiche che avrebbe dovuto assolutamente rispettare.
Così chiuse la porta e, a brevi passettini e a testa alta si avviò verso l’ufficio del capo, col cuore che batteva all’impazzata.
Era la seconda volta che percorreva quel tragitto e, ironicamente, le sue condizioni psicologiche erano le stesse.
Ma ora la distanza da coprire sembrava molto più breve. Troppo, forse: in men che non si dica, era arrivata.
Respirò a fondo.
Prese coraggio.
Poi bussò energicamente.
Dall’interno della stanza sentì una sedia strisciare sul parquet e dei passi pesanti avvicinarsi.
Ancora pochi istanti.
La maniglia si abbassò.
Pochissimi.
Giovanni, ora, le stava davanti. Non osò guardare l’espressione sul suo volto.
“Prego, avanti.”
Fece, fin troppo cortesemente, chiudendo la porta alle sue spalle dopo che Atena aveva fatto il suo ingresso nell’ufficio. Quest’ultima sentì poi, distintamente, il suono di una chiave che girava nella serratura.
“Non vogliamo che qualcuno ci disturbi, vero?”
Si sentì chiedere.
“Assolutamente no, sarebbe un peccato.”
Rispose, con la voce più vicina alla sensualità che potesse ottenere. Dopo aver udito il risultato, convenne di essere un’ottima attrice.
“Vedo che capisce. Passato una piacevole nottata?”
Fece lui, poi le si avvicinò e le fece il baciamano. Niente a che vedere con lo scatto d’ira della sera precedente. Quell’uomo non avrebbe mai finito di sorprenderla, ne era sicura.
“Meravigliosa.”
Mentì spudoratamente, sperando che se la bevesse o che, almeno, non si avvicinasse. Altrimenti avrebbe avvertito la sua tachicardia, scoprendo la farsa.
Ma ovviamente, sperarlo era eccessivo.
Si avvicinò.
“Penso sia giunta l’ora di riscuotere il mio premio, lei non pensa?”
E, senza aspettare risposta, le si avvicinò a larghe falcate, prendendola e rovesciandola con la schiena appoggiata sulla scrivania.
Aveva improvvisamente preso a baciarla, a palparla, a toccarla, con una tale foga che lei non riusciva nemmeno a comprendere bene cosa stesse esattamente facendo. Ma il suo corpo parlava per lei.
“Adesso sta’ ferma.
Dichiarò ad un certo punto, scostandole gli slip.
   
 
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