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Autore: Odiblue    08/01/2014    7 recensioni
"Non gli scocciava il fatto che Sakura fumasse. Molte persone fumavano. Sasuke aveva perfino visto Shikamaru Nara cercare un brandello di carta tra le macerie, per farsi una sigaretta. Immaginava che aiutasse a rilassare i nervi, a soffiare fuori, assieme al tabacco bruciato, la rabbia, il rancore, la tristezza. Certo prendere a pugni qualcosa sarebbe stato più salutare, ma non restava molto da distruggere nei paraggi. Era un altro il punto che infastidiva Sasuke. Lui aveva fatto notare un particolare a Sakura, cioè che il fumo uccide, e Sakura, sebbene lo avesse sentito, aveva scelto di non ascoltarlo". Sasusaku. Quasi sicuramente OOC, del resto chi li capisce quei due?
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sakura Haruno, Sasuke Uchiha | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
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Disclaimer: questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Masashi Kishimoto; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.


Rifiuto di una costrizione

La guerra era finita. A Konoha, tra le macerie degli edifici e i boschi ridotti a zolle di terra incolta, rimaneva un alone di distruzione, una macchia di sporco incancellabile. I giorni passavano, quattro o forse cinque dal termine dello scontro, ma la puzza di rancido e il tanfo della decomposizione non sfumavano. Il tatuaggio della sofferenza non poteva essere lavato. Sasuke Uchiha sentiva l'odore del sangue nelle narici. Riempiva i polmoni, circolava sulla pelle, trasmetteva ai pensieri un senso di inquietudine ben noto. Era una sensazione che si portava dentro dallo sterminio del clan: il tentennamento, l'esitazione, quel gioco di “fare o non fare” che aveva cercato di non ascoltare nel corso dell'adolescenza, stabilendo di volta in volta le sue priorità, promettendosi di non deviare dalla rotta dei propositi, fino a che non li avesse compiuti.

E ora che li aveva compiuti – perché sì suo fratello era morto, e Danzo era morto, e Konoha era stata distrutta, anche se non da lui– Sasuke fissava i cadaveri sul campo di battaglia, seduto su quattro sassi di cemento che un tempo erano stati una cinta muraria. Studiava i ninja della Foglia, li guardava mentre si trascinavano per il campo. Li teneva in piedi la consapevolezza che quei cadaveri mutilati, coperti da terriccio, sudore e sangue, marci per il tocco della morte, erano stati un tempo i loro compagni. Consapevolezza che ogni caduto – fratello, amico, o solo conoscente – meritasse di essere premiato con una degna sepoltura.

Sasuke non muoveva un dito. Il dilemma lo aveva paralizzato: fare o non fare? Aiutare o non aiutare? Scappare o non scappare? Konoha o non Konoha? Il gioco delle possibilità presentava una novità che Sasuke non riusciva a digerire.

Un futuro incerto. Niente obiettivi. Niente vendetta. Niente nemici da sterminare. Niente villaggi da distruggere. Il vuoto.

Diventare Hokage. A pensarci bene sembrava un proposito detto tanto per dire. Non gli era mai importato di anima viva che non fosse suo fratello. Prima per ucciderlo. Poi per vendicarlo. Per assurdo, Sasuke non sapeva nemmeno se Itachi potesse essere considerato “un'anima viva”. Una parte di lui, sin dall'età di sette anni, aveva creduto che fosse morto in quella casa, con i loro genitori; che fosse sopravvissuto senza vivere, con il ricordo di una famiglia di scheletri, con la speranza che un giorno lui, Sasuke Uchiha, il più caro dei suoi cari, riuscisse a crearne una nuova.

Restaurare il clan. Questa sì che era una certezza, ma solo perché di certezza si trattava non significava che Sasuke non conoscesse le implicazioni. Konoha non apprezzava gli Uchiha. Konoha aveva sacrificato un Uchiha. Nel villaggio regnava il germe della corruzione. Era una città marcia fino al midollo: le fondamenta di ogni edificio, di ogni istituzione, di ogni persona non erano blocchi di cemento stabili, sicuri, ma assi di legno corrose dalla pioggia, da fiumi di odio e ripicche. Dopo la guerra le travi si erano assottigliate, stuzzicadenti sul punto di spezzarsi. Ecco cosa restava delle fondamenta di Konoha, un filo tirato, accarezzato dalle lame di una forbice, pronto a essere reciso.  

«Perché non te ne vai allora?»

Una sola altra persona, in tutto quell'affanno di salvare, sotterrare, pregare, piangere, cercare, ringraziare, se ne stava seduta sul muretto di Konoha a rigirarsi i pollici.

«Non sono affari tuoi, Nara.»

Era da qualche anno che Sasuke mancava da Konoha e si vergognava ad ammetterlo: il suo cervello non aveva rimosso i nomi degli altri ninja.   

«Non sei costretto a restare» gli disse.

E non aveva rimosso nemmeno i tratti peculiari del loro comportamento. Così Sasuke si ricordava che Shikamaru Nara era pigro e intelligente, e così Sasuke aveva avuto la conferma che il corso delle stagioni e lo scorrere del sangue non avevano reso Shikamaru Nara uno stupido.

«Non sono mai stato costretto a fare nulla nella mia vita.»

Si pentì della risposta troppo educata, una sola frase che ammetteva ciò che Sasuke non voleva ammettere, che Shikamaru avesse colto il nocciolo della questione, centrato con una freccia di cinque parole il bersaglio della realtà: non sei costretto a restare. Costrizione, dovere, obbligo, senso di lealtà verso Konoha, verso i suoi abitanti, verso il ceto dirigente che aveva brindato alla sua infelicità, al suo dolore.

«Fottuti. Vogliono incatenarmi» sussurrò a se stesso.

Shikamaru al suo fianco teneva gli occhi chiusi e Sasuke pensò si fosse addormentato. Un vantaggio per quanto lo riguardava. Non cercava la compagnia di nessuno lui, voleva decidere in autonomia, come aveva sempre fatto. Il suo nucleo familiare era costituito da un unico individuo e quell'individuo era se stesso. Motivo per cui non potevano esserci un Naruto, un Kakashi e tanto meno una Sakura a corrompere le sue decisioni. Sasuke Uchiha rifiutava ogni costrizione. Dagli sguardi taciti con cui la gente lo studiava, aveva capito che cosa si aspettavano i superstiti di Konoha. Restare voleva dire essere costretto a riconoscere Naruto un fratello, Kakashi un padre e Sakura...

Restare voleva dire essere incatenato a un destino già scritto e, per quanto potesse essere rassicurante rendere un futuro incerto certo, restava un futuro deciso da altri. Stabilito a priori. Non da lui. Per i cittadini di Konoha doveva accadere ciò che era giusto.

Era giusto che Naruto non fallisse. Era giusto che mantenesse la sua promessa. Era giusto che salvasse il suo migliore amico. Era giusto che si sentisse degno di diventare Hokage.

Ed era giusto che Kakashi riavesse almeno questo team. Era giusto che potesse fingersi un padre. Era giusto che tornasse a dargli dei consigli, pillole di saggezza, che Sasuke non poteva tollerare. Era giusto che lo perseguitasse con l'odioso libretto arancione. Era giusto che lo iniziasse al mondo delle “arti gentili” che prima o poi ogni uomo deve conoscere.

E poi c'era Sakura. Sakura era la massima espiazione della colpa. Rendi felice chi hai fatto soffrire. Dai a Naruto un fratello, dai a Kakashi un figlio, dai a Sakura... un amico? Un compagno di squadra? Un amore? Gli venne da ridere. C'era più amore in un sasso o in un kunai di quanto se ne potesse trovare nel suo cuore. In lui vigeva un talento naturale nel quale non aveva rivali: ferire, uccidere, deludere. Con Sakura aveva vinto il campionato, si era cimentato nella miglior prestazione da “stronzo menefreghista”. Chiunque avesse tenuto un minimo alla kunoichi avrebbe dovuto salvarla delle grinfie del vendicatore, dell'assassino, del traditore. Eppure il villaggio parlava, raccontava, tesseva fiumi di favole e di bugie, perché le favole non sono verità, sono mera finzione, storielle inventate per rassicurare gli infanti.

“E così la principessa sposò il principe”, il motto preferito dalle vecchiette di Konoha, dopo una settimana dalla fine della guerra era stato sostituito da “E così la bella Sakura riottenne il suo Sasuke, si sposarono e vissero per sempre felici e contenti”.

Il finale era scritto e Sasuke non possedeva una penna per cambiarlo. “Konoha è pronta ad accettarmi” si disse, “Ma per essere accettato, devo obbedire alla favola: voler bene a Naruto, rispettare Kakashi, amare Sakura”.

Se per i primi due imperativi avrebbe potuto chiudere un occhio, Sasuke sapeva di dover rifiutare l'ultima costrizione.

*

Sasuke non odiava Sakura. Le malelingue lo credevano. Solo per un kunai puntato alla gola e un colpo di Chidori tra l'altro mai andato a segno. “In amore e in guerra tutto è lecito” replicavano le nonnine dal mondo delle favole. “Alla fine non l'ha uccisa. L'amore trionfa su tutto”. Una visione alquanto distorta della realtà, ma comunque non era questo il punto.

Sasuke non odiava Sakura. In passato l'aveva trovata irritante, con i capelli rosa e quella vocina sottile sottile e la malsana abitudine di squittire ogni volta che lo incrociava. Ma del resto, a parte Hinata Hyuuga, che per trovare interessante il Dobe doveva avere qualche problema mentale, quale altra ragazzina all'epoca non balbettava in sua presenza?

Poi Sakura era cambiata, cresciuta, aveva fatto quel piccolo passo che trasforma un'infatuazione in ammirazione, in affetto e alla fine in amore. Perché Sasuke non dubitava della sincerità di quei sentimenti, non li riteneva l'ultimo stratagemma, l'asso nella manica, per impedire la sua partenza. Ci credeva, un po' ne andava fiero, ma il tempo era passato anche per Sakura, e lui non sapeva dire se dopo il passo d'affetto che si trasforma in amore ve ne fosse stato un altro, verso un sentimento non definito: disinteresse? Astio? Indifferenza?

Quando Sasuke aveva incontrato Sakura, a fine battaglia, nella tenda dei medici, aveva appurato che l'affetto era rimasto. Per lui affetto significava tenere a una persona, alla sua salute e alla sua felicità, proteggerla, apprezzarla, al di là di ogni errore e di ogni sbaglio, nel caso di Sasuke al di là di ogni tradimento. Durante il loro incontro, che più che un incontro potrebbe essere definito una visita medica, non c'era stato un “bentornato”, o un pugno nel naso. Non c'era stato nemmeno un sospiro che potesse essere interpretato come un “Sasuke-kun”. Sakura lo aveva curato per poi passargli una mela sbucciata, tagliata a fettine, con amore. No, con affetto. Se ne era andata, lasciandolo solo, con il piatto sulle gambe e la forchetta nel piatto. Assieme a quella insolita compagnia, un piatto e una forchetta, Sasuke Uchiha aveva trovato due conferme: non odiava Sakura e Sakura non odiava lui.

*

“E allora perché mi evita?” si chiese, sistemandosi sul muretto.

«Non ti evita» disse Shikamaru.

Due punti non tornavano. Come potesse Shikamaru Nara comprendere i suoi pensieri e soprattutto perché si ostinasse a perseguitarlo.

«Faccio quello che farebbe Ino se fosse ancora qui» disse lui, leggendo ancora una volta i suoi dubbi. «Quello che vorrebbe fare.»

A Sasuke non sfuggì la nota di dolore. Una piccola inclinazione nella seconda frase tradiva sofferenza, nostalgia, colpa. Si ricordava di Ino Yamanaka. Se la ricordava perché ricordava Sakura e quelle due erano amiche. Ino Yamanaka. Bionda, rumorosa e piena di sé. Sasuke si ricordava anche della sua morte. E se ricordava la morte della bionda, rumorosa e piena di sé e non quella di altri ninja, era solo perché si ricordava Sakura in ginocchio, accanto a lei, con il chakra verde che fluiva sul corpo dell'amica, con Shikamaru che si lasciava sfuggire una lacrime solitaria e le sfiorava la spalla, mentre le diceva che era inutile: nemmeno l'apprendista dell'Hokage poteva resuscitare i morti.

«Il mondo non ti ruota attorno» riprese a dire Shikamaru. «I medici non trovano il tempo manco per riposare.»

Continuava ad avere gli occhi chiusi e allora Sasuke capì che non era per provare a dormire. Era per non vedere. Il sangue. Le macerie. Gli ultimi cadaveri. Ino.

“Però è successo” si diceva Sasuke. “E' successo davvero e ti senti in colpa, Nara. Perché l'hai lasciata morire.”.

Suo malgrado, si trovò a pensare che fosse giusto, sentirsi in colpa. In un team di tre persone, una squadra, per due maschi c'è una femmina. Più delicata, più gentile, più indifesa. Non debole. Semplicemente il corpo di un uomo è più adatto a certe ostentazioni di forza, più resistente. Shikamaru non aveva protetto Ino, a differenza di Sasuke che quando era nel team 7 aveva protetto Sakura, ne aveva fatto una priorità.

«Comunque mi evita» concluse lui.

Si alzò dal muretto e salutò con un cenno Shikamaru, che non lo guardava per non affrontare l'orrore, la distruzione, la morte. Avrebbe fatto due passi, in solitudine, cercato di trovare tra le macerie il fiore della speranza, un suggerimento che gli indicasse il futuro, la via da percorrere.

*

Trovò Sakura e si maledisse per averla trovata. Che fine aveva fatto la sua intelligenza da prodigio? Se vai nel quartiere medico, se cammini tra le tende dell'ospedale, le brande con i feriti, le garze sporche, inutilizzabili, gettate al suolo, è ovvio che trovi Sakura!

Sasuke l'aveva trovata in piedi, di schiena, appoggiata alla staccionata che Shizune usava per stendere le lenzuola sporche, per disinfettarle e prepararle a ospitare nuovi feriti. Sasuke la trovò e sentì una morsa allo stomaco. Vedere Sakura equivaleva a vedere i propri sbagli, equivaleva a sentire una madre elencare gli errori di una vita, uno dopo l'altro. Tapparsi le orecchie non serviva. Chiudere gli occhi, come faceva Shikamaru Nara, non serviva.

“Non è vergogna” si disse Sasuke. “Non è senso di colpa. Sarei in colpa se fosse morta. Sarei in colpa se fossi stato al suo fianco e non l'avessi salvata, ma sono stato al suo fianco. Ho combattuto contro Madara con lei, con Konoha. L'ho salvata. Proprio come l'ha salvata Naruto.”.

Ma più guardava Sakura, più i suoi pensieri gli parevano un triste tentativo di auto-convincimento, una menzogna non minore alle favole raccontate dalle nonnine. A proposito di favole, si ricordò di una storiella che gli raccontava sua madre, di un chiodo e di un legno.

“Quando ferisci una persona” gli aveva detto, “conficchi un chiodo in lei, nella sua corteccia. Puoi chiedere scusa, dire che ti dispiace. Lo fai togliendo il chiodo, Sasuke, ma anche se nel legno non c'è più il ferro, resta il buco ed è un buco che non si può riempire porgendo delle scuse”.

Se ripensava al loro passato, suo e di Sakura, gli sembrava di vedere nel corpo di lei, nella pelle lattea, morbida, una costellazione di chiodi. Risaliva dai polpacci fino alle spalle, disegnava quadrati, triangoli, figure che Sasuke avrebbe cercato di definire, se non gli avesse dato fastidio guardare così a lungo. I chiodi le bucavano le braccia, la testa, la schiena.

“Non girarti” la pregò Sasuke. Temeva che avrebbe visto dei chiodi anche sul viso: sulle guance, sulla fronte, al posto degli occhi. Aveva degli occhi verdi, Sakura. Davvero troppo verdi. A Sasuke ricordavano il bosco attorno a Konoha, la foresta dove il team 7 aveva svolto le prime missioni. Erano così verdi che a immaginarli poteva sentire l'odore stesso della foresta, il profumo degli alberi. Sasuke non voleva che quegli occhi, così verdi, diventassero dei chiodi, le fronde appassite di un albero morto. Non voleva accettare quell'ondata di senso di colpa che lo stava investendo, uno tsunami di rimorsi.

“Non sentirti in colpa” si disse. “Perché dovresti? Forse non starai a Konoha. Non sei costretto. Vattene e lascia che lei e Naruto si arrangino. Vattene subito.”.

Si chiese però come sarebbe stato togliere un chiodo, uno solo, non necessariamente tutti, da quell'albero di ciliegio, vedere che effetto gli avrebbe fatto osservare il buco nella pelle di Sakura, nella sua corteccia. Si ripeté che era solo un chiodo, che male non poteva fare. Dopotutto sua madre gli aveva parlato del dolore nel conficcare il chiodo, nel dargli un colpo secco con il martello, non nel levarlo con la pinza.

Si avvicinò, consapevole che Sakura, allieva dell'Hokage, s'era già accorta della sua presenza. Si mise accanto a lei, poggiò i gomiti alla ringhiera e scelse di non fissarla. Guardò invece la sigaretta che teneva tra le dita. Si perse ad osservare la scia di fumo che scivolava tra le sue labbra, volteggiando nel cielo, disperdendosi nel grigio di quel tardo pomeriggio.

«Non lo sai che il fumo uccide?» le chiese.

Il Sasuke di dodici anni si sarebbe atteso un “Sasuke-kun, ti preoccupi? Che carino!”, il tutto pronunciato da una Sakura squittente, saltellante e rossa come i capelli di Gaara. Il Sasuke di sedici anni, invece, si attendeva un secco “Che ti importa?”, al massimo il silenzio di chi resta senza parole. Sakura rise e lui abbracciò l'incomprensione. Non era una risata di gioia o di divertimento, ma un singolo suono, isolato, composto, amaro. Era il riso di chi si prende in giro da solo, di chi si rinfaccia la propria idiozia, di chi è consapevole di un proprio difetto ed è disposto a prenderne atto.

«Deve essere una mia abitudine allora» disse lei, staccando le labbra dalla sigaretta. Non la spense, anzi, prese un altro tiro. «Un vizio.»

Non fece in tempo a chiederle spiegazione. Tsunade venne a cercarla e lui dovette sorbirsi uno sguardo di rimprovero. Per aver avvicinato la sua allieva, per non averle dato i suoi spazi.

«Ci sono due pazienti che-»

«Arrivo» la interruppe Sakura. Gettò la sigaretta e Sasuke rimase a guardare l'ultima scia di fumo uscire dal mozzicone a terra, sfumare nel cielo, prossimo alla notte, fino a sparire nel nulla. Sakura sparì assieme a lei.

*

Il giorno dopo Sasuke tornò alla ringhiera e trovò Shizune, tutta presa a stendere lenzuola e a spruzzare disinfettante. Se ne andò, senza dire niente.

*

Il giorno dopo Sasuke tornò alla ringhiera e non trovò nessuno. Attese dieci minuti e quando il sole calò si risedette sul muretto e osservò le fondamenta di Konoha, in attesa che lo stuzzicadenti si spezzasse.

*

Il giorno dopo Sasuke tornò alla ringhiera e trovò Hinata. Lei gli chiese se avesse visto Naruto, con un po' di imbarazzo, ma anche con una sicurezza di cui lui non la credeva capace. Non le rispose. Se ne andò.

*

Il giorno dopo Sasuke tornò alla ringhiera e trovò Naruto, un Naruto stanco, spento, eppure speranzoso: ce l'avrebbero fatta, Konoha si sarebbe messa in piedi, il team 7 sarebbe tornato, suo fratello non lo avrebbe tradito. Naruto non si stupì di vederlo. Sorrise a trentadue denti.

«Aspettiamo Sakura-chan, insieme?» Bastò il nome di lei a riaccendere sul viso del Dobe quella luce che un tempo possedeva. La speranza che avrebbero potuto farcela divenne certezza.

Sasuke non gli rispose, perché non voleva dargli una sicurezza che non aveva. Non voleva fare una promessa che non avrebbe potuto rispettare. Sarebbe stato un nuovo chiodo in un altro albero e la storia sarebbe andata avanti, sempre uguale. Così attese, ascoltando ma non troppo le chiacchiere di Naruto, il suo geniale piano di avere un nuovo Ichiraku, per poterci andare insieme, come ai vecchi tempi. Loro due e Sakura. Sasuke non lo contraddisse, né lo assecondò. Rimase a braccia incrociate alla ringhiera, ad aspettare Sakura. Sakura non arrivò.

*

La rivide una settimana dopo, quando sul campo non c'erano più cadaveri, solo le tracce di quelli che un tempo erano stati uomini. Ancora il sangue. Sempre il sangue. E poi brandelli di vesti, armi spezzate, targhette con lo stemma della Foglia imbrattate dalla polvere. Sasuke bazzicava ancora per Konoha, calpestava i resti di quelle fondamenta marce, lo stuzzicadenti pronto a spezzarsi, non a diventare più forte. Bazzicare non era un verbo che Sasuke utilizzava. Proveniva da Shikamaru, seduto al solito muretto, con gli occhi un po' più aperti dell'ultima volta, curiosi, ma non pronti a scoprire quel nuovo mondo. Senza Ino.

«Quanto a lungo bazzicherai da queste parti per capire che non è una costrizione di nessuno, se non di te stesso?» aveva detto.

Era una domanda troppo difficile e sicuramente una risposta l'avrebbe meritata, ma Sasuke non la diede. Shikamaru stava dicendo, e non in modo implicito, che era Sasuke Uchiha stesso a imporsi di diventare il fratello di Naruto, il figlio di Kakashi e il qualcosa di Sakura ancora da definire. Una teoria spiazzante.

Trovò Sakura e dove trovò Sakura trovò anche la sigaretta. Alla ringhiera. Sembrava che una non potesse esistere senza l'altra. Senza Sakura, la sigaretta non sarebbe stata accesa, non avrebbe fumato di vita propria. Senza la sigaretta, Sakura non si sarebbe tenuta in piedi, sarebbe crollata sotto i chiodi nella sua corteccia che, ora Sasuke lo aveva capito, non erano stati piantati tutti dal suo martello.

“Un po' sono miei, un po' della guerra” si disse.

Fu preso dalla voglia di chiederle dove fosse stata, ma lei che cosa avrebbe detto? Sembrava che si divertisse a dargli risposte enigmatiche, a non parlare, a lasciare che il silenzio creasse un muro, ad ogni parola taciuta sempre più alto.

«Mi sembrava di averti detto che il fumo uccide» ripeté.

Non gli scocciava il fatto che Sakura fumasse. Molte persone fumavano. Sasuke aveva perfino visto Shikamaru Nara cercare un brandello di carta tra le macerie, per farsi una sigaretta. Immaginava che aiutasse a rilassare i nervi, a soffiare fuori, assieme al tabacco bruciato, la rabbia, il rancore, la tristezza. Certo prendere a pugni qualcosa sarebbe stato più salutare, ma non restava molto da distruggere nei paraggi. Era un altro il punto che infastidiva Sasuke. Lui aveva fatto notare un particolare a Sakura, cioè che il fumo uccide, e Sakura, sebbene lo avesse sentito, aveva scelto di non ascoltarlo. Si era accesa un'altra sigaretta e chissà quante altre nei giorni in cui l'aveva evitato. La guardò gettare il mozzicone a terra, spegnerlo con il tacco dello stivale. Ogni singolo gesto senza voltarsi verso di lui, con il capo abbassato.

«E io ti ho già detto che deve essere una mia abitudine, un vizio.»

Non rise e Sasuke non colse il senso di quell'affermazione che gli era stata già fatta. Le sue parole erano di una chiarezza imbattibile. Sakura le aveva scandite bene, una dopo l'altra, con tranquillità, senza mangiarsi una vocale o una consonante. Le aveva pronunciate con un'intonazione piatta, senza un accento sbagliato o una “o” troppo aperta o troppo chiusa. Le aveva pronunciate alla perfezione, come la miglior attrice di teatro, eppure il loro significato non era per niente chiaro.

«Che vuol dire?» Pose una domanda, atteggiamento che agli estranei sarebbe potuto sembrare fuori dal personaggio, ma Sasuke in quel momento lo voleva davvero. Capire.

«Desiderare quel che uccide» rispose Sakura. «Deve essere una mia abitudine, un vizio, un difetto.»

“Desiderare quella sigaretta è come desiderare me” pensò Sasuke. Si immaginò con il kunai alla gola di lei, la katana conficcata nel petto, il Chidori pronto a colpire il bersaglio. La sua amata madre gli aveva mentito e, se non mentito, aveva omesso: togliere il chiodo dal legno faceva male quanto metterlo. Sakura si era rivelata brava più di lui a inchiodare ferite.

“Desiderare me uccide” si ridisse. Il grande Sasuke Uchiha non era meglio di Shikamaru Nara, che aveva lasciato morire Ino Yamanaka. Shikamaru non l'aveva salvata, ma non l'avrebbe uccisa. Lui, al contrario, aveva protetto Sakura, ma non si era trattenuto dall'annientarla.

«Non chiedere scusa» gli disse lei. «Non a me.»

Donna malvagia. Spietata. Senza cuore. Naruto lo diceva che Sakura sapeva far paura, che tirava pugni peggio di uomo. Lui stesso l'aveva vista in azione, ma mai avrebbe pensato che le sue parole fossero più mortali dei suoi pugni. Impedirgli di chiedere scusa restava una mossa bassa, perché Sasuke aveva capito, merito di sua madre, che domandare il perdono non guariva, non chiudeva il buco lasciato dal chiodo, ma sapeva che rimaneva il primo passo per il sentiero della redenzione. A Naruto e a Kakashi, per orgoglio, non avrebbe mai chiesto scusa. Loro erano uomini e gli uomini hanno un codice segreto, fatto di cazzotti e di insulti. Ma a Sakura aveva creduto di poter dire “scusa”, proprio come in passato a lei aveva potuto dire “grazie”.

«Non metterla sul personale» la sentì dire. «Non ti capivo all'epoca, ma adesso è diverso.»

Alzò lo sguardo da terra e lo portò lontano fino alla linea dell'orizzonte, fino al sole che correva a nascondersi dietro il campo di battaglia, tramontava, mimetizzava con le sue sfumature rossastre il sangue nella terra. Fuggiva dalla luna, sua eterna inseguitrice. Li condannava all'ombra. Sasuke pensò ai cadaveri di Ino, Neji, Tenten e Shino. Capì che Sakura capiva, almeno in parte. Sperava non lo facesse.

«Al tuo posto sono certa che l'avrei fatto anch'io» continuò a dire lei.

Alla fine lo guardò. Sasuke studiò i suoi occhi. Li ricordava verdi, verdissimi, troppo verdi. Verde foresta, verde bosco, verde alberi. Alberi vivi. Quelli che vide, invece, erano occhi spenti, di un verde tendente al grigio, al colore della cenere. Si disse che era impossibile. Gli occhi di una persona non cambiano a seconda delle emozioni. Si disse che non funzionava così. Si ripeté che gli occhi di Sakura erano condannati ad essere verdi e che quel velo di opacità che si trovava di fronte era uno scherzo della luce, un effetto del sole scomparso dietro l'orizzonte.

«Te l'avrei impedito» le disse. Suonava come una promessa alla Naruto, e Sasuke se ne vergognò.

«A parole.» Sakura pareva determinata a vincere il duello di sguardi, una competizione che era iniziata senza un “via”, ma che Sasuke sentiva in ogni fibra del suo corpo.

«A fatti» giurò lui. «A ruoli invertiti, io te l'avrei impedito.»

«Mi stai accusando di non avere fatto lo stesso?»

E questa da dove l'aveva tirata fuori quella strana donna? Il grande Sasuke Uchiha ammise di essere confuso. Non era sua intenzione giocare al giudice e all'imputato e, anche avessero voluto fingere un processo, sarebbe spettato a Sakura lanciare le accuse, a lui cercare delle prove per sostenere la sua difesa. Prove introvabili. Gli venne in mente un'unica frase da usare come risposta: “Qual è il tuo problema, Sakura?”. Sapeva però che tale domanda avrebbe portato fiumi di insulti e di parole, meritate, ci mancherebbe, ma non era sicuro di essere pronto ad ascoltarle.

«Ti ho detto che ti capisco, Sasuke» lo rassicurò lei. Perse la gara e staccò lo sguardo per prima, lo riportò all'orizzonte, in cerca di nuovi cadaveri tra le zolle e la polvere.

“Sei cresciuta troppo, Sakura”. La vide frugare nella tasca e tirare fuori un'altra sigaretta.

«Capisco tutto. Quello che ti passa per la testa. Ti ho dato il tuo spazio.»

“Mi hai evitato. Alla tua faccia, Nara. Avevo ragione io”. La vide passare un fiammifero sulla ringhiera di legno, accendere la sigaretta.

«E voglio dirti che devi sentirti libero di stare a Konoha. Di fare quello che vuoi. Senza curarti di me, Naruto o Kakashi. A meno che tu non lo voglia.»

“Lo fai sembrare come se voi tre foste la peste, la varicella e il morbillo”. La vide prendere una boccata, liberare una nuvoletta di fumo, grigia, come grigi stavano diventando i suoi occhi, non più verdi.

«Non devi essere costretto» continuò a dirgli.

“A fare cosa, Sakura?” le chiese in silenzio. Più le parole uscivano dalla bocca di lei, assieme al fumo della sigaretta, più gli sembrava di vedere strati di chiodi spuntare sulle braccia, e più chiodi distingueva sulla pelle, più sentiva le mani prudere, in cerca di un kunai o di una pinza, di un qualsiasi attrezzo che gli permettesse di toglierli tutti, non solo uno, come all'inizio aveva desiderato.

«A fare cosa, Sakura?» le chiese ad alta voce.

Lei prese un altro tiro, probabilmente chiedendosi se rispondere fosse la cosa giusta oppure no. Pronunciò le parole con la sigaretta sulle labbra. Questa volta il suono uscì confuso, non scandito o contraddistinto da quella chiarezza imbattibile che era tipica della nuova Sakura. Uscì schiacciato, con le vocali appena abbozzate e le consonanti pronunciate a stento, tanto che un orecchio non attento avrebbe percepito solo la “a accentata” della seconda parola. Sasuke invece aveva sentito e ascoltato e compreso. In tutta la sua vita, nulla aveva avuto più significato di quelle due parole: “ad amarmi”.

Accorciò la distanza tra di loro e sfiorò con il braccio il gomito di lei. Non indietreggiò sotto la minaccia dei suoi sguardi, due armi che potevano rivelarsi mortali, ma portò le dita alle labbra e le accarezzò. Rapì la sigaretta senza trovare resistenza.

“Ad amarmi” ripeté in silenzio. Gli sembrò che gli occhi di Sakura ripetessero quella frase: “Non devi essere costretto, Sasuke, ad amarmi”.

Sasuke, con decisione, gettò la sigaretta oltre la ringhiera, la gettò dove era giusto che stesse. Sul campo di battaglia, tra i morti, perché il fumo uccide, e lui e Sakura avevano già pianto troppe morti. Lui e Sakura erano vivi, in un modo o nell'altro, e Sasuke ora lo sapeva. Un giorno, a Konoha, tra fondamenta che da stuzzicadenti sarebbero diventate travi e da travi blocchi di cemento, stabili e indistruttibili, un giorno sapeva che avrebbe imparato ad amarla. Davvero. Senza costrizioni.       


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Buona notte a tutti!
Ci sono momenti in cui si dovrebbe fare una cosa e invece non la si fa. Nel mio caso dovrei

1) dormire;
2) riposare così da essere scattante domani mattina e visitare la bellissima città di Brema, millimetro per millimetro.

Ci sono però dei momenti in cui ti viene da scrivere qualcosa e non puoi proprio farne a meno. E' la classica idea che non si sa bene da dove nasca, né tanto meno dove andrà a finire. Nel mio caso

1. l'idea so da dove è nata: dalle chiacchiere di un mio compagno di viaggio che ha passato il tragitto a raccontare gli ultimi capitoli di Naruto (lo fa in media una volta alla settimana, ripetendosi) e da grandi discorsi di vita in una birreria tedesca;
2. tuttora non mi è chiaro cosa volessi dire e dove volessi andare a parare.

Spero quindi che voi, miei cari lettori, riusciate a trovare un senso in questa “cosa” che è venuta fuori e che non vi risulti un delirio abbozzato a casaccio in fretta e furia (ciò corrisponderebbe al vero. Forse sarebbe stato più corretto rileggere domani mattina). -.-' Detto questo, vi saluto e vi auguro la buona notte. E giuro di dormire, così non sforno più cavolate!

Odiblue <3
   
 
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