Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Dustbunny13_traduzioni    10/01/2014    1 recensioni
"Il suo palazzo mentale era in rovine: un incendio lo aveva raso al suolo, bruciando i ricordi e polverizzando le memorie, riducendo i momenti recenti in cenere, e rendendo quelli più vecchi irriconoscibili – reminiscenze carbonizzate che non sarebbero mai più tornate, lasciandolo ad arrovellarsi su ciò che erano state."
Post-Reichenbach.
E' la traduzione di una fic inglese che ho davvero adorato. Spero farete lo stesso!
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3

Assassino

 

Aveva percepito il calore delle fiamme molto prima di capire che cosa Sherlock avesse fatto saltare in aria: il magazzino adiacente al lato est della centrale elettrica. John si immobilizzò sui suoi passi, ancora al primo piano. L'intero edificio di fronte a lui stava andando a fuoco, il tetto già completamente carbonizzato, con lunghe lingue rossastre che si innalzavano verso il cielo buio, riempiendo l'area circostante di scintille e frammenti di legno bruciato. Un odore pungente lo colpì, facendogli trattenere il respiro – qualsiasi cosa Sherlock avesse usato per causare l'esposione, beh, era decisamente tossica: percepiva catrame, olio e solvente. John si schermò gli occhi con le mani, e ispezionò freneticamente il terreno. Notò un'attività febbrile sulla parete est: lampi di luce azzurrognola, uomini pesantemente armati che correvano verso l'incendio – non erano pompieri, si rese conto, questi uomini erano lì per combattere e si muovevano con precisione. Forze speciali, dunque.

 

Moran aveva raggiunto il piano terra, e a quanto pareva li aveva visti anche lui. Non esitò, comunque; cambiò invece direzione, puntando dritto verso il fuoco, senza curarsi delle esplosioni che ancora detonavano all'interno del magazzino. John imprecò, capendo cosa aveva in mente: con la costruzione in fiamme come scudo, aveva intenzione di scavalcare la recinzione che circondava l'area e poi svingarsela nel buio. Una volta arrivato dall'altra parte della rete metallica, era comunque virtualmente irriconoscibile, essendo vestito ed equipaggiato come ogni altro soldato. John puntò la pistola verso di lui, ma era del tutto inutile a quella distanza, e poi avrebbe dovuto correre il rischio di attirare la sua attenzione – doveva essere cauto, quell'uomo aveva un fucile ad alta precisione e aveva abbastanza sangue freddo da girarsi e ucciderlo con calma nonostante il pericolo imminente.

 

Continuò a tenere la pistola puntata nella sua direzione, per ogni eventualità, ma non c'era niente che potesse fare. “Dannazione!” urlò, mentre osservava Moran scappare, evitando abilmente i soldati di Mycroft che si avvicinavano all'edificio.

 

“Che accidenti sta succedendo qui?” borbottò, e si chiese velocemente se l'assassino fosse venuto per lui o per Sherlock – e chi diavolo era Moran? Ma poi, un altro pensiero lo colpì: chi era il terzo uomo, quello che era corso verso il cadavere – quello che Sherlock stava andando a combattere, disarmato?

 

Sherlock.

 

Doveva trovare Sherlock. Gesù Cristo, stava affrontando un nemico senza nemmeno un coltellino svizzero. Si girò, lasciando cadere la pistola, e inizò a correre – proprio in quel momento, un'altra esplosione lacerò il silenzio. John sentì l'onda d'urto colpirlo da dietro, facendolo cadere in ginocchio. L'aria venne invasa da un calore ustionante, e lui si accovacciò, coprendosi la testa, fino a che la pioggia di polvere e macerie non si calmò. Sentì l'eco dei tonfi provocati da oggetti pesanti che colpivano il suolo, come se qualche gigante stesse gettando qua e là bidoni della spazzatura e lattine di metallo. “Ma cosa – ” Si alzò in piedi e corse verso la finestra, il vetro rotto dalla forza dell'esplosione, il cornicione che pendeva di traverso.

 

Il magazzino in fiamme era saltato in aria completamente, e John guardò attonito le taniche d'olio rotolare lì intorno, mentre tutti correvano per mettersi al riparo.

 

“Gesù Cristo” mormorò John, “Sherlock, non si può dire che tu non sappia come mettere in piedi uno spettacolo.”

 

Ogni singolo camion dei pompieri disponibile a Londra sembrava essere arrivato; ovunque si poteva vedere il lampeggiare bluastro delle luci, la notte scura era squarciata dal suono penetrante delle sirene, e dozzine di torce venivano accese contemporaneamente. La zona si fece più luminosa del sole, e il cuore di John si fermò; lui dimenticò di respirare, mentre la paura attraversò il suo corpo come una scarica elettrica: lì, tra i vigili del fuoco, c'era la macchina di Mary.

 

Era senza dubbio la sua, di quell'inconfondibile colore azzurro cielo, con l'ammaccatura sul cofano, ricordo di quando erano andati a Dublino e avevano parcheggiato vicino al cimitero, e un ragazzino ci era saltato sopra. Inoltre, l'auto era arrivata lì prima dei pompieri, perchè ora la stavano portando via per fare spazio; si ricordò della telefonata di prima, quando lui le aveva detto dov'era e lei aveva risposto ti passo a prendere più tardi... e improvvisamente, lo colpì il ricordo di aver trovato quell'altra figura che era corsa verso l'uomo morto stranamente familiare. Oh mio Dio, pensò John, era così da Mary correre in aiuto di un ferito nonostante il pericolo. E Sherlock le era andato dietro.

 

John corse.

 

Si scagliò attraverso il piano terra, aggirando gli ostacoli e saltando sopra le buche nel terreno fino ad arrivare al lato esterno dell'edificio, cercando disperatamente un segno di Mary o di Sherlock.

 

Si stava già precipitando nell'area circostante, quando sentì il rumore di uno sparo, lacerando l'aria come una frusta. Si immobilizzò all'istante. Era venuto dal piano superiore, non lontano da dove aveva incontrato Sherlock pochi minuti prima. Come era finito lì sopra? John si girò e rientrò di corsa nella centrale, salendo rumorosamente le scale di metallo, guidato dal suono di un urlo soffocato e di piedi che colpivano il pavimento.

 

Si scaraventò all'interno di una stanza – e per poco non cadde: gran parte del pavimento era crollata, e lui era quasi precipitato oltre la ringhiera di protezione, con solo delle barre di ferro tra lui e l'abisso, ad aspettarlo detriti e schegge di legno. Era buio nella stanza, ma non completamente nero, grazie alle torce dei pompieri che creavano un po' di luce, dando alla stanza un'atmosfera sinistra. Ansimando, riguadagnò l'equilibrio e fissò i tafferugli di fronte a lui. Si sentì gelare il sangue; e infine urlò con quanto fiato aveva in corpo: “Sherlock! Smettila!”

 

Fino a quel giorno, John aveva sempre pensato che il suo incubo peggiore fosse quello in cui Sherlock si gettava dal tetto del St. Bart, dopo avergli detto Pensi che io sia una macchina? Guarda come mi rompo. Ora si rese conto che la realtà era molto peggio.

 

Sherlock stava uccidendo Mary.

 

Era troppo buio per vedere le loro facce, solo due ombre che lottavano – ma non poteva non riconoscere quella voce, quegli ansimi affannati, quel corpo che si contorceva violentemente. Sherlock l'aveva schiacciata a terra, con le mani attorno alla sua gola, soffocandola, completamente insensibile alle sue richieste di pietà.

 

Con orrore, John balzò in avanti. Avvertì il suo piede colpire contro qualcosa di duro – una pistola – e la fece slittare sul pavimento. Forse Mary aveva preso la pistola dell'uomo morto? Ma che importava. Saltò addosso a Sherlock. “Sherlock! Fermati! La stai uccidendo!”

 

Sherlock sembrava assolutamente sordo alle sue grida. Era come se agisse seguendo solo l'istinto, isolato da tutto ciò che lo distraeva dal suo intento; e il suo intento era uccidere l'avversario.

 

John ringhiò, “Sherlock! E' mia moglie! La stai uccidendo!”

 

Non ebbe alcun effetto. John aggredì disperatamente Sherlock, scuotendolo e infine anche prendendolo a pugni, cercando di spezzare la stretta assassina – ma senza successo. Allora afferrò la pistola e premette la canna contro la tempia del detective. Fece in modo che lo schiocco, indicante che l'arma era pronta all'uso, fosse udibile.

 

“Lasciala andare. Ora.” La voce di John era perfettamente calma e le sue mani non avevano il minimo tremito.

 

Sherlock si immobilizzò – forse per la determinazione nella voce del dottore, o forse per il metallo gelido premuto sulla sua pelle – e lasciò cadere le mani, liberando la vittima. Mary ansimò, in preda ai conati.

 

“Allontanati da mia moglie,” ordinò John, e Sherlock si alzò con un movimento fulmineo, allontanandosi immediatamente di alcuni passi. “Dio, Mary!” John gettò via la pistola e si inginocchiò accanto a lei. Fece correre le mani sul suo corpo, come per assicurarsi che fosse viva – e grazie al cielo si stava muovendo, tossendo violentemente in cerca d'aria. La aiutò a sedersi.

 

“Mary, riesci a sentirmi? Va tutto bene, sono qui, respira, tranquilla.” Sentì le sue mani che cercavano il suo viso. “Va tutto bene, sei al sicuro. Stai andando benissimo,” le disse dolcemente, sorreggendole la testa. Lei uggiolò e si rannicchiò contro il suo petto, ancora senza fiato, aggrappandosi disperatamente a lui. “E' tutto okay,” mormorò, stringendola ancora più forte e accarezzandole la schiena. “E' tutto okay, ora.”

 

Non era in grado di parlare, realizzò John, ma il suo respiro era diventato meno affannoso e il suo cuore stava rallentando. Le esaminò velocemente il collo, ma non c'era nessuna ferita evidente. “Andiamo, vieni qui,” sussurrò, abbracciandola con delicatezza. “Adesso ce ne andiamo,” promise, “c'è un'ambulanza qua fuori, e ti portiamo in ospedale, okay?” Lei stava ancora ansimando, ma mugolò una risposta che sembrava molto una protesta.

 

“Devi farti visitare, Mary,” spiegò con calma col suo tono da dottore, “anche se adesso ti senti a posto, perchè la tua gola potrebbe infiammarsi e darti difficoltà respiratorie in futuro. Non vogliamo che questo succeda, non è vero?” Non le disse nulla sulla rottura dei vasi sanguigni, sul possibile danno alla laringe o della frattura dello ioide o di altri ossi nel collo.

 

Lei annuì, ma diede un leggero strattone al suo giubbotto, con aria infelice. “Bene,” disse John, “andiamo.”

 

Solo in quel momento si ricordò di Sherlock. Imprecando silenziosamente, John si girò, abbracciando Mary con fare protettivo. Sherlock era immobile, un paio di passi indietro, niente più che una sagoma scura illuminta dalle luci dei camion dei pompieri. C'era qualcosa di profondamente sbagliato in lui; John lo percepiva, ma non riusciva a capire che cosa fosse. Il suo corpo era teso come una corda di violino, le sue dita erano aperte, come immobilizzate nel bel mezzo di un movimento. John si mordicchiò il labbro inferiore, incerto su come reagire – lui per primo era sommerso dalle emozioni, e non sapeva come prendere il violento attacco di Sherlock contro Mary. Anche se in un primo momento l'avesse scambiata per un nemico, perchè non si era fermato quando John gli aveva detto che era sua moglie?

 

John si concentrò sulle sue priorità: ora come ora doveva portare Mary in ospedale e andare, insieme a Sherlock, in un luogo sicuro. Dio solo sapeva se Moran era ancora nei paraggi meditando un secondo tentativo.

 

“Sherlock,” disse, cercando di sembrare il più calmo possibile. “Dobbiamo andarcene da qui. Mi daresti la mano, per favore?”

 

Nessuna risposta.

 

“Senti, parleremo dopo di quel che è successo. Spero per te che tu abbia delle buone spiegazioni. Ma ora tutto ciò che conta è raggiungere gli uomini di Mycroft. E, tanto per la cronaca: sono contento che tu sia vivo.”

 

Come per confermare il concetto, si sentirono le voci e i passi di soldati in avvicinamento. Stranamente, questo sembrò scuotere Sherlock dal suo stato di immobilità: trasalendo, indietreggiò, avvicinandosi pericolosamente al luogo dove il pavimento era crollato. “Sherlock!” John si alzò in piedi, e stava per raggiungere il suo amico quando improvvisamente la stanza sembrò essere colpita da un fulmine.

 

Un raggio di luce squarciò l'oscurità, e tutto divenne bianco, accecandolo dolorosamente, seguito da un'esplosione così forte che minacciò di distruggergli i timpani. John fece scudo a Mary con il suo corpo, annaspando per lo shock e la confusione.

 

Granata stordente, pensò. La sua mente funzionava ancora, nonostante la momentanea perdita sensoriale; rimase immobile, sapendo che non sarebbe stato in grado di vedere o sentire alcunchè per alcuni secondi.

 

Appena i suoi sensi iniziarono a ritornare, si mise a fatica in piedi, oscillando pericolosamente, ancora frastorato e disorientato a causa della granata. Imprecò ad alta voce, ma riuscì a malapena a sentire la propria voce, le sue parole sommerse da un acuto stridio nella sua testa.

 

“Idioti!” urlò. “Noi siamo i buoni!” Si lasciò andare ad altre colorite espressioni, ma poi tornò da Mary. I soldati avevano fatto irruzione con una torcia, e ora la luce al magnesio stava illuminando la sua faccia terrorizzata con scioccante chiarezza. Però sembrava meno sconcertata di lui: indicava freneticamente il buco nel pavimento, cercando di dirgli qualcosa. E infine John capì. Sherlock non c'era più.

 

Si guardò intorno, avvicinandosi al baratro, alla ringhiera distrutta e alla granata – doveva essere stata quella a far perdere l'equilibrio al detective. “Oh Dio, no.” John trasalì, gettandosi in ginocchio davanti al profondo squarcio nel pavimento, e fissò l'abisso.

 

I lampioni illuminavano una pila di macerie, con pezzi di legname e metallo che sporgevano. E, in cima ad essa, con la testa che ondeggiava e il volto coperto di sangue, c'era Sherlock.

  
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