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Autore: Ellie_x3    12/01/2014    2 recensioni
Quando i miei cugini, che ora giacciono negli ossari come martiri della guerra Boshin, erano giovani e dediti allo studio del Cinese classico, io avevo l'abitudine di prendere parte alle loro lezioni. Ero solo una bambina, ma divenni stranamente brava e capivo con facilità i passaggi che loro trovavano troppo difficoltosi da comprendere e memorizzare.
Mio padre, un uomo colto, se ne dispiaceva moltissimo.
"Solo fortuna!" diceva "Che peccato che non sia nata uomo."

Contesto: da Toki no Kizuna a Hekketsuroku
On hiatus fino a data da definirsi -causa ispirazione morta, casini scolastici e soliti problemi in real. Non so se ho intenzione di finirla, davvero, ma prima o poi caricherò almeno i 10 capitoli già pronti.
Sorry, y'all
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Toshizou Hijikata
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Sono passati anni, oramai, da quella calda e lunga primavera che vide fiorire per l'ultima volta i ciliegi.
Indossavo un furisode o un homogi, all'epoca? Andava di moda la musica Tougaku dalla Corea o i canti di campagna Jiuta?
Non ricordo.
Il mio armadio era ben ordinato e profumato e il colore della stagione era indossato da ogni attore o attrice di Yoshiwara, ma i dettagli sono sfumati.
Anni, anni, anni.
Ora la neve si posa sui bei ponti di Tokyo e non posso fare a meno di chidermi se smetterà mai di cadere.
La mia mano trema per lo sforzo di sostenere il pennello ed ogni singolo carattere trema con me, come se avesse freddo. Freddo o paura.
Fuori dalla mia finestra si sentono mille voci, in mille dialetti, e persino il colore del cielo pare cambiato.
Eppure, se mi guardo anche solo un poco indietro, rivedo il passato; quando portavo i capelli lunghi, quando questa guerra non esisteva.

Quando lo shogun proteggeva tutti noi dai barbari, indisturbato da più di duecento anni, e le porte erano chiuse a stranieri ed assassini. 
Quando la famiglia Tokugawa, il grande drago giallo uscito vittorioso da scontri leggendari, aveva ancora potere.
Quando avevo sedici anni, questa città si chiamava Edo ed io contavo ancora qualcosa.

.I.

La casa sulla strada di ciottoli bianchi

 

[Giugno 1851]

Mi pareva di attendere da ore, seduta accanto alla grande finestra che dava sul giardino.
Intravedevo le minuscole carpe, punti rosa e bianchi sotto il velo trasparente dell'acqua, le mezze lune lignee dei ponti e le fronde degli alberi bassi. Il rigagnolo dell'Immortalità che sgorgava dalla montagnola rocciosa, posta nell'angolo canonico, brillava sotto i raggi del sole.
Era uno spettacolo tremendamente bello, con l'erba di quel delicato colore fra il verde e il giallo che prelude l'inizio dell'estate, ma così suggestivo da farmi male.
Distolsi lo sguardo.
La realtà è che, seduta, annoiata e privata della compagnia di Keisei, mi sentivo trementamente frustrata.
Quando apparve un vecchietto tutto ricurvo, vestito coi colori dei Sakakibara e col nostro stemma sulle maniche, mi sentii sollevata tanto da schizzare in piedi senza la minima grazia.
Naturalmente, finse di non accorgersene.
"Potete essere ricevuta, Sakakibara-dono".
Gli rivolsi un sorriso reverente.
"Vi ringrazio." mormorai, ad occhi bassi, e sospettai che non mi avesse sentita.
Non ero sicura che ci sentisse ancora bene; era vecchio, stropicciato come un foglio bagnato lasciato a seccare, con gli occhi neri incastonati in un mare di rughe color ocra e i capelli bianchissimi.
Vero che indossava le vesti grigie dei gokenin, gli uomini della casa fedeli alla mia famiglia, ma l'aspetto era quello di un contadino lasciato a macerare sotto il caldo sole estivo e non escludevo l'idea che potesse patire degli acciacchi dei fattori e degli uomini che ormai hanno fatto il loro tempo.
Si inchinò profondamente al mio passaggio e, senza pensarci, chinai il capo a mia volta. Ciocche lucide mi ricaddero sul viso, scivolando fuori dall'acconciatura, ma mi limitai a spostarle dietro le orecchie con un gesto sbrigativo.
Dietro le spalle ossute dell'uomo si apriva l'arco laccato della porta -della mia nuova vita, temevo- e non sapevo se ero o no pronta ad attraversarlo.
Avevo intravisto Edo solo attraverso le sue strade polverose, senza poter godere della vista delle sobrie stanze della tenuta di famiglia nè avere il tempo per sistemarmi a dovere e, anche se ero stanca, la città mi incuriosiva.
Era quella la vera capitale? I suoi abitanti erano così diversi da quelli di Kyoto come si diceva?
Mentre a Kyoto il figlio primogenito dello Shogun festeggiava la maggiore età all'ombra dei giardini di Nijo, io ero davvero tenuta a rimanermene quieta come un uccellino in gabbia?
Naturalmente la risposta era sì.
Sì, ad ogni domanda.
Sì, ad ogni restrizione.
Esattamente quello che avevo dovuto dire io stessa, rispondendo ad una chiamata troppo esosa per essere rifiutata: sì.
De
sideravo respirare, vivere ritirata in campagna in compagnia dei miei libri, ma non mi era permesso.

Attraversai la porta, passo dopo passo.
A casa, nell'intimità delle mie stanze e circondata da un capannello di amiche e cugine, mi ero preparata a camminare ben diritta nonostante l'impedimento di strati e strati di seta; su zoccoli alti, laccati di nero, sarei sembrata flessuosa come un giglio e dotata della grazia di una principessa.
Finivo sempre per ridere di mè stessa, questo è vero, ma mai avrei sospettato di fare il mio ingresso trionfale in solo un sobrio hitoe sui toni dell'azzurro, in seta imbastardata a cotone.
Mio zio, il fratello maggiore di mio padre, mi diede il benvenuto.
La sua presenza sapeva di casa, di ambienti familiari, del suono dei grilli nel giardino, ma non bastava a placare il risentimento che serbavo nell'animo.

"Kimiko." mi salutò "Prego, vieni avanti."
Obbedii, guardando bene avanti.
Agli angoli della mia visuale scorrevano pareti laccate e paraventi dipinti; distinsi distrattamente un unico, enorme quadro in stile occidentale che torreggiava sulla parete nord, proprio alle spalle dello zio, e nel quale erano ritratti i membri principali della casata Sakakibara.
Era stato dipinto anche mio padre.

Sakakibara Masamichi era seduto su un cuscino di velluto viola, anch'esso di richiamo occidentale, ed era rimasto esattamente come lo ricordavo: un uomo basso, corpulento, con un grande sorriso senza labbra aperto sul volto come una cicatrice.
Sulle maniche del suo kimono scuro riposava lo stemma di famiglia, bianco e circolare.
"Sono contenta di trovarvi in salute, zio." salutai, arrivata ormai ad una decina di passi da Masamichi ed affondando in un inchino.
Sperai che non si intravedesse il rossore che mi imporporava le guance nel sentire nuovamente l'acconciatura traballare, sciogliersi ciocca dopo ciocca dalla presa dei pettini d'argento. Erano stati di mia madre, un dono proveniente dalle miniere dello shogunato passati a me come unica figlia, tuttavia non ero certa di portarli con la dovuta grazia.
Non v'era stato il tempo di accordare niente di meglio, a causa dei ritardi subiti durante il viaggio e speravo davvero che almeno l'obi fosse stato assicurato correttamente e che durasse per tutta la durata della riunione: sarebbe stato oltremodo imbarazzante trovarsi a dover sostenere a mano tutti quei vestiti.
Lo zio rise, per tutta risposta, una risata entusiasta che mal concordava con la fredda compostezza che avevo in animo di mantenere per tutta la durata della conversazione.
Ricordavo quell'uomo per i suoi modi gentili, è vero, ma è facile dimenticare la dolcezza quando si è sottoposte al bastone una volta di troppo.
Per un momento temetti che mi stesse prendendo in giro.
"Su, bambina mia, quanta formalità. Mettiti seduta e lasciati guardare, non ti vedevo da così tanto tempo..."
"Credevo di essere stata mandata a Edo proprio per una questione formale." replicai inarcando appena un sopracciglio e rimanendo ostinatamente in piedi. Tuttavia, mi pentii subito del mio tono saccente e, diventando d'improvviso ancora più rossa in viso, aggiunsi con cautela: " Sono qui per servire nel miglior modo possibile."
Masamichi annuì, con la fronte aggrottata. La sua pelle pareva fatta d'acqua, uniforme e brillante, ma per un secondo distinsi chiaramente ogni minuscola ruga d'espressione.
Era invecchiato, o magari era solo tipico degli uomini della sua età?
Poche volte mi era stato concesso di parlare così apertamente con un parente che non fosse mio padre, il quale sembrava davvero avere la capacità di non invecchiare mai. Daigo, invece...Daigo era giovane e bello, e il tempo lo levigava come fa con l'avorio e le pietre preziose.
"Vi hanno spiegato il motivo del vostro trasferimento?" domandò lo zio.
Io, nel sollevarmi dall'ennesimo inchino in cui mi ero profusa, gli lanciai un'occhiata perplessa.
"Seguo le direttive di mio padre e mio marito." risposi.
E, sebbene la risposta fosse stata impeccabile, sentivo nella testa la voce di nonna che mi rimbrottava per il comportamento troppo sincero e il tono acido.
A nessuno piaceva una donna velenosa come una serpe, per bella che fosse.
Mi rispose uno sbuffo che proprio non riuscii a definire: sperai non stesse ridendo di me, ma ci sarebbe stato da penare se con i miei primi dieci minuti a Edo avessi già indispettito lo zio.
Non mi piaceva ignorare i pensieri altrui poichè non ero affatto abile nell'indovinarli.
Finivo per concentrarmi su quelli, mi concentravo, mi concentravo...e, inevitabilmente, dimenticavo tutto il resto.
"Ah, Kimiko. Sei venuta fino a qui senza conoscerne il significato?"
Esitai.
V'era una risposta rispettosa per quello che sembrava un buffetto sulla guancia dato ad una bambina obbediente?
Ad ogni modo, lo zio continuò accontentandosi del mio silenzio: "Ma va bene. Capisco perchè tu l'abbia fatto: provi devozione nei confronti di tuo padre?"
"Naturalmente." mi sforzai di essere docile nei modi e armoniosa nelle parole, poichè ero stata cresciuta nel segno della pietà filiale, come dettavano i precetti del Venerabile Hayashi.
"Ami tuo marito?"
Annuii nuovamente: "Sì." e, sebbene fosse una verità traballante, non suonò diversa dall'affermazione riguardo mio padre.
"Passerai in loro vece qualche mese a Edo, Kimiko. Questo l'avrai capito da sola. Il fatto importante è che prenderai parte alle direttive dello shogunato, con la tua condotta, e mostrandoti ai sovrintendenti dichiarerai la fedeltà tua e della famiglia a Tokugawa Iesada."
Chinai il capo, in segno di comprensione ed asservimento all'autorità -com'era naturale, d'altro canto.
Avevo già sentito parlare del Sankin Kotai, sapevo cosa significava: una lunga vacanza a spese della famiglia e che si poteva facilmente evitare con una tassa supplementare.
Fin'ora l'avevamo vissuta così, come se una tassa potesse allontanarci da una vita politica alla quale mio padre non era affatto interessato: lui che passava la vita all'ombra di un pino in compagnia dei suoi studi confuciani, il suo bunbu-ryodo, e delegava gli affari al fratello maggiore.
Naturalmente, la mia presenza a Edo indicava la fine di tale pratica.
"Se è necessario comprovarla in questo modo, ebbene, non mi dispiace." dissi, soppesando bene le parole. Non desideravo fare la figura della stupida "Potrò vedere Edo, così come avevo desiderato, e vivere un po' dedicandomi alla città. Sarà un bel cambiamento."
Lo zio si mostrò soddisfatto dalla mia risposta: a differenza delle mie cugine, Mawako, Noriwako e Suiko, non ero particolarmente spaventata dall'idea di vivere fuori casa.
Mi sarebbero mancati mio padre e mia madre, certo, e mia nonna...ma cos'era, quello, se non il prezzo per conoscere il mondo?
I miei genitori mi avevano considerata abbastanza marginale da spedirmi a Edo. Daigo era impegnato negli affari dell'impero. Bene.
E allora, mi chiedevo, non era forse saggio vederla come un'opportunità?
Tutto nel mondo aveva una logica.
Speravo che lo zio, guardando nei miei occhi, vi leggesse questa consapevolezza.

"Quanti vestiti hai con te?"
"Due bauli."
"Donne che possano assisterti?"
"Tre, più la mia domestica e il vecchio Komichi."
Lo zio si lisciò la sottile strisciolina di barba che gli pendeva da mento, come una cordicella nera e lucida, e aggrottò le sopracciglia.
"Necessiterai di altro personale" decretò, infine, dopo averci riflettuto un po' su "E, forse, di qualche bel vestito. Di che colore ti piacerebbe?"
Le sue parole, per quanto gentili, ebbero il terribile effetto di ricordarmi il tessuto che portavo addosso: vestiti belli come quelli che poteva comprarmi lo zio non ne avevo mai avuti.
Daigo me ne portava di meravigliosi, vero, ma erano troppo mondani.
Io ero diversa: come Kiritsubo e come Yang Guifei, simili per l'alto rango, il carattere e l'amore. Soprattutto l'amore.
Quel tipo che inibisce la ragione, che accende la bellezza e corteggia la morte in giovane età.

"Grigi." risposi, comunque, senza nemmeno pensare a declinare l'offerta per educazione. Poteva rifiutare il dono, se gli andava e se mi avesse ritenuta troppo sfacciata, anche se speravo davvero non lo facesse. "Grigi, oppure azzurri. Sono i colori che preferisco e si addicono alla stagione."
"Hai un buon gusto estetico, mia cara, adatto ad una moglie." mi sorrise, così caldamente che credetti di non aver mai visto un affetto tanto sincero "Sei nata con quello che qui chiamiamo Iki."
Iki.
Aveva un bel suono.
Sorrisi beandomi del mio nuovo essere Iki, raffinata.
"Vi ringrazio, Zio."

*

Alla fine della nostra conversazione, risultò che mi avrebbero lasciato un negozio di Kimono, parte dell'industria d'alta classe dei Matsuzakaya, di cui la mia famiglia possedeva parte delle licenze.
Non vi avrei lavorato affatto, com'era chiaro, ma avrei potuto supervisionarlo e i suoi proventi mi sarebbero serviti da sostentamento suplettivo.
Uscendo dalla residenza dello zio mi sentivo leggera; ancora un po' a disagio per via del mio aspetto scombinato, ma ritrovai con piacere il vecchio Komichi ancora al proprio posto.
Mi aspettava.
"Ben ritrovata, Kimiko-chan." mi salutò.
Appoggiato al suo bastone di legno scuro sembrava uno di quei piccoli Budda di pietra che si trovano ai bordi delle vie per proteggere il cammino.
"E' stato più facile di quanto pensassi, Oji-san. Possiamo andare."
Lui annuì e mi porse l'ombrellino di carta che aveva custodito per me; mi prese la mano nella sua.
Era stato sempre con me e con mia madre prima di me: era il nostro guardiano, ci proteggeva come faceva l'ombrello dal sole e dalla pioggia, e non mi sarei fidata tanto di nessun'altro.
"Keisei vi ha preparato il necessario per riposare." mi comunicò, sulla strada di casa: chissà quante altre volte era stato a Edo, e in mille altre città, mentre io a stento avevo percorso un frammento di Toukaido.
Soffocai uno sbadiglio, all'ombra del parasole giallo, e non risposi.
Dovevo proprio ricordarmi di chiedergli se conosceva bene la città, per farmi da guida.


Il negozio di mio padre era sulla strada, ma non vi dedicai neanche un'occhiata.
Non mi fermai nè vi prestai attenzione, troppo stanca e concentrata sui vestiti che sarebbero stati commissionati per me.
Non notai nessuno dei miei dipendenti.
No, neanche quel ragazzo dagli occhi violacei che, più tardi, avrei scoperto essere stato messo in mostra al pari dei vestiti per attirare clienti.
Posso solo supporre che non stesse facendo il suo lavoro.
Beh, non che me ne stupisca.

Non sarebbe stata la prima volta.




Note :
Risorgo dal regno dei morti [e degli esami] perchè forse ho trovato la voglia di finire Ume Nikki. I diari del Pruno. Capirete poi il perchè del titolo.
Naturalmente è una bestiaccia storica e io mi sento molto Victor Hugo a presentarvelo così, alla cià, hai mica tempo per infrittarti il cervello?, ma è pur vero che Victor Hugo ha tanti tanti pregi. Tipo Grantaire. E Jehan Prouvaire. E Enjolras. E Gringoire. 
Insomma, cercate quel che c'è di buono, ma non solo. Questo è un lavoro profondamente pensato, anche se magari uscito male, e nella testa di una delle più alte casate fudai non potevo procedere a pane-latte-pasta. Anche se mi sarebbe tanto tanto piaciuto. 
Prima di tutto, sì, mi spiace: non ho detto che fa schifo. Perchè non penso che faccia schifo, per una volta, e sono anzi molto fiera della coerenza d'insieme vista la difficoltà
Quindi niente, magari fa schifo, ma per ora ne sono contenta.
Ora che ho cambiato lidi boh, sarà dura trovare tutti i legami storico/sociali basandomi solo sul web ma...ehy, è per questo che mi piace.
Non metterò tutte le note a fine capitolo, per la semplice ragione che dovrei tradurlo nella sua interezza in termini occidentali. Se qualcosa, qualsiasi cosa, non è chiaro oppure è discutibile chiedetemelo/sindacate senza problemi: non mangio nessuno e mi fa piacere :3 

Sì, il ragazzino è chi sospettate che sia <3

 

   
 
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