Ume Nikki
Mio padre, un uomo colto, se ne dispiaceva moltissimo.
"Solo fortuna!" diceva "Che peccato che non sia nata uomo."
Sorridevo di quelle parole, un tempo. Per farlo penare di meno, mi esiliai volontariamente nel mondo dei monogatari.
All'alba del 1864, però, capii.
Da quel giorno, avrei dato qualsiasi cosa per essere in grado di combattere la guerra di coloro che amavo.
[Smile
One moment
vacant stare the Next
Unbroken treads of yearning
thoughts
realm of dreams ever before me.]
Tang
Xianzu; Il Padiglione delle Peonie
Du Liniang; Scena 36
.0.
La sposa di Edo
Vivevo
da molti anni in stanza arredata tradizionalmente, sobria, nel bel
mezzo di una villa costruita sulle sponde del Arakawa.
La mia vecchia residenza, Fuyuhara, era stata confiscata
insieme a numerosi beni di famiglia, tuttavia non me ne ero curata:
dopo aver vissuto con ansia la rivoluzione Meiji e i cambiamenti del
mio
paese, avevo smesso da molto di lasciarmi intaccare dal mondo
esterno.
Lasciando che altri camminassero in mia vece, quando
io non dormivo né mangiavo, avevo cercato. Per cinque anni,
attraverso occhi e gambe altrui, avevo battuto le strade di Tokyo
alla sua
ricerca.
“Qui
dentro” la invitò una cameriera, la stessa che
l’aveva
accompagnata per tutto il tragitto, indicando oltre la porta
occidentale che insistevo per tenere aperta “La signora vi
attende”.
Chizuru annuì, con l'aria perplessa. Era diventata una
bella, giovane donna e aveva vissuto nel freddo di Ezo, gomito a
gomito con persone importanti, ma ancora sembrava un coniglietto
spaurito di fronte al lusso.
Non facevo fatica a comprendere il
perchè.
Non era da sola, prima.
C’era lui, prima.
Le
venne nuovamente indicata la porta e lei la superò a passi
lenti, guardandosi
bene attorno. Si poteva dire che avesse imparato la prudenza ben prima
dei tempi Ezo, durante i suoi anni a Kyoto, e che conoscesse il valore
di
un’occhiata attenta.
Potevo ben immaginare il suo sconcerto nel
vedersi aprire davanti davanti una grande sala bene illuminata che
misurava almeno tre tatami per sei, con muri bianchissimi e due
kimono appesi alla parete. Uno pareva un aquilone, con due amanti
rappresentati sotto un grande pruno in fiore ricamato su gonna e
maniche, mentre l’altro era più cupo ed un uomo
abbigliato da kuge
sembrava per essere inghiottito dalle onde.
Quei kimono. I suoi
occhi vi indugiarono un istante di troppo -come se capisse, come se
sapesse.
“Yukimura
Chizuru.”
Chizuru si irrigidì nel sentirsi chiamare e io mi
stupii di quanto fosse diventata debole la mia voce.
“S…Sono
io.” Asserì, affondando in un profondo inchino.
“Lo so, lo
so. Ma guardati, come ti sei fatta grande.”
La ragazza sfarfallò le ciglia, senza
capire, e io mi sentii stringere lo stomaco in un nodo di nostalgia.
Ma guardati…sì, avrei dovuto dirlo a me stessa.
Vedova, con i
fianchi allargati da una decina di gravidanze e gli occhi arrossati
dal pianto, dovevo essere l'immagine della miseria: a quarant'anni
ero anziana ma non curva, con i capelli neri sciolti sulle spalle e
ancora il portamento che imitava quello delle principesse d'altri
tempi. Quello, quello la restaurazione non aveva potuto
mutarlo.
Vestivo d’un viola acceso, una cascata di seta
eliotropo drappeggiata sulle mie ossa minute.
Sapevo cosa
avrebbero ricordato quel colore alla piccola Chizuru, poiché
lo
ricordava anche a me ogni giorno, da cinque lunghi anni.
Da
quando le lettere si erano interrotte e Ezo si era rivelata per il
miraggio che era -eppure Hakodate, Hakodate era reale. Troppo
reale.
Le rivolsi un sorriso che desiderava essere accomodante.
“Quanti anni sono passati, Chizuru-chan.”
“Mi
conoscete?” domandò, con un filo di voce. Temeva
la risposta,
questo era piuttosto chiaro: lo leggeva nel fondo dei suoi occhi
color terra e nelle movenze scattose.
Si era nascosta dagli Oni,
vivendo come un’umana nella città che
l’aveva vista crescere e
che sapeva essere abbastanza grande da nasconderla, ma forse aveva
sempre sospettato che l’avrebbero trovata.
Era stata una sorpresa enorme, per me, scoprire la vera natura di
Chizuru.
“Quando eri una bambina, sì. Ti
comprai i dolcetti.”
“Perdonatemi, non ricordo.”
Risi una
risata leggera come carta da Origami. La luce iniziava a ferirmi gli
occhi.
“Oh, lo immagino. Ma cercando Toshi ho trovato
te…e non
me lo sarei mai aspettata. Che coincidenza.”
Toshi.
Chizuru
spalancò le labbra e, per un momento, parve sul punto di
crollare in
ginocchio. Barcollò, impallidì, si sciolse
davanti ai miei occhi.
“Hijikata-san?”
Di
nuovo quel tono terrorizzato.
“Quando lo conoscevo io era
ancora il ragazzino che attirava clienti a Matsuzakaya, il negozio di
kimono.” La corressi, gentilmente. Lei era ben più
piccola,
all'epoca, non poteva ricordare...non poteva immaginare. “E
l’ho
cercato per vedere se ne era rimasto qualcosa, sotto le spoglie
dell’oni.”
“Hijikata-san è…”
“Lo so. Non dirlo. E’
difficile per entrambe pronunciare quelle parole, temo.”
“Sono
passati anni.” mormorò, asciutta.
Comprendevo bene perchè
sembrava che non gliene importasse poi molto, vedevo sotto la
maschera: aveva pianto troppo, dagli anni della Shinsengumi in poi.
Aveva amato troppo.
Eravamo tutte come l'acqua in un pozzo
dimenticato ed esposto ai raggi del sole: secche.
“Non sempre
basta il tempo, Chizuru-chan. Lasciatelo dire da una donna ormai
vecchia che sa di cosa parla...” un sorriso, sulle sue labbra
spente. Sembravano essere state belle, ma ora erano pallide e
sottili. “Tuttavia, non ho trovato Toshi ma te, e ti ho fatta
chiamare ugualmente. Hai idea del perchè?”
La ragazza scosse la
testa.
Voglio
saperlo.
Voglio rendermi utile.
Anche
senza parlare, era capace di farsi capire. E Toshi, diventato
insofferente alle chiacchiere per sua stessa ammissione, l'aveva
apprezzata proprio per quello?
“Vorrei esservi utile,
Obaa-san.”
“Lo sarai.”
Voce, voce come sabbia che
scorre in una clessidra. Morbida e ruvida al tempo stesso.
Non ero
più abituata a parlare tanto.
“Come?”
“Desidero che tu
mi leghi le caviglie, Chizuru.” fu la mia risposta. Pacata,
composta, una donna non troppo vecchia che diceva di averla
conosciuta quando era bambina le chiedeva assistenza nella morte. Mi
rendevo conto di come dovevo apparirle strana, e Chizuru mi
dedicò uno sguardo
smarrito che ricambiai senza batter ciglio. “Ho formalmente
posto
termine alla mia vita con la morte di Hijikata Toshizou. Desidero che
tu mi possa aiutare nel compimento dell'atto fisico.”
“Perchè
io?”, domandò.
Aveva visto morire uomini e donne a sufficienza per due
vite, quella ragazza, ma ero ben lontana dal provare pena per lei.
Al
contrario, forse, la stimavo.
L'avevo conosciuta sulle strade di
Edo e attraverso la scrittura affilata delle lettere di Toshi. Era
incapace di provare risentimento nei confronti di quella ragazzina, e
così accadeva anche a me.
Era forte.
Passiva,
forse,
ma forte.
“ Perchè lo conoscevi nel suo momento di maggior
forza e debolezza. Ha smesso di rispondere alle lettere da troppo
tempo perchè io possa conoscere l'Hijikata Toshizou che
conosci tu.”
mentii.
“Vorreste lui, ad assistervi.”
Ah,
questo era vero.
L'aveva
capito.
“Sì. Ma lui non potrebbe, poiché
è una questione di
donne. Ed era tanto tempo che speravo di rivederti, Chizuru-chan.
Posso chiederti questo favore?”
Chizuru esitò.
Un momento
troppo lungo, troppo pregno d'indecisione, tanto da farmi temere che
mi avrebbe negato un favore. Non ero certa di poter sopportare un
rifiuto, non da lei: la bambina incontrata per caso, con il padre
medico e la risata di campanelle.
Avevo fatto così tanto
affidamento, su di lei...
“Lo farò.” disse, solo, e seppi
che sarebbe stata fantastica.
Lo
farò.
Una
promessa senza tanti complimenti.
“Bambina, hai preso così
tanto dalla Shinsengumi.” commentai, non senza affetto. Avrei
desiderato abbracciarla, ma le gambe non mi avrebbero retta.
“Grazie.
Grazie davvero.”
Non le dissi che prima avrei celebrato le nozze
spettrali, poiché non v'era necessità di
turbarla.
In fondo, non
era Hijikata Toshizou l'uomo che volevo sposare: desideravo solo la
sua compagnia oltre la morte. Forse era per questo che avevo atteso
così tanto per porre fine alla mia vita, senza seguire
né il primo
né il secondo degli uomini che avevo amato.
Avevo aspettato il
terzo.
E poi, ancora, avevo atteso la piccola Chizuru poiché non
potevo far nulla senza parlarne con lei, senza renderla partecipe.
Toshi non sarebbe stato felice, altrimenti -se felice poteva dirsi
vedendomi legata ad uno Shiranui.
L'approvazione di
Toshi.
Bah.
L'approvazione
di un contadino.
Non
avevo mai smesso di chiedermi, dall'estate del 1853 al giorno del mio
jigai,
perchè fosse così importante.
Note:
Jigai: Suicidio rituale femminile. Serviva un'assistente, appunto, per legare le caviglie.
---Io, niente. Ecco. Sono felicissima di essere riuscita a postare Ume Nikki, finalmente.
E' un lavoro complesso, con una quantità incredibile di citazioni classiche, ma sono fiera di poter dire che mi sto divertendo un mondo.
E, spero, potrò farla piacere a qualcuno tanto quanto a me.