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Autore: Blam_    14/01/2014    0 recensioni
Mi chiedo che senso ha?
Non la vita. La vita non ha nessun senso. Già il parto è una cosa inutile: devi soffrire per regalare al mondo una vita che probabilmente non avrà nessun senso.
Prima dovevi sopravvivere per vivere, ora se sei vivo esisti.
La vita è un peso.
Ma che senso ha?
Si può essere indipendentemente liberi?
Genere: Avventura, Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
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Le sei  e mezza.
Dovevo alzarmi, fare colazione, lavarmi e andare alla fermata dell’autobus. Era la routine.
Ogni scelta ha una causa e ogni causa ha una conseguenza.
Io avevo scelto. Avevo scelto di frequentare il classico.
Non so il perché della mia scelta ma mi sembrava il liceo più conveniente.
Odiavo la matematica, non ero un artista da liceo “artistico”. Pensavo forse che il classico mi avrebbe aperto di più la mente.
La mia vita era un ciclo continuo: una routine infinita mossa da un movimento meccanico di tutto ciò che facevo. Ero in qualche modo cieco.
Mi alzavo, prendevo il pullman e passavo la mattinata in quell’istituto, scuola di merda.


Erano passati esattamente 3 anni da quella notte in cui persi la verginità con mia cugina. Ormai lei faceva l’università a Napoli, facoltà di medicina.
Ogni notte dopo quella, per i successivi due anni, lei si spogliava davanti a me e io di fronte a lei. Si stendeva sul letto e io l’abbracciavo.
Mia madre non saapeva niente ma conoscendola credo che avesse una minima cognizione di ciò che accadeva quando Giuly mi “veniva a trovare”.
La nostra non era una relazione. Ci beavamo della nostra intimità mentale e fisica; oltre me lei aveva altri ragazzi e io non ne ero geloso come con Biagio. Io avevo solo lei. Ci usavamo, nient’altro.
Sentivo la sua mancanza: era la mia migliore amica, forse anche la mia “dolce metà”. Non ci davo peso ma mi mancava ogni volta che tornava a Napoli dopo una breve settimana qui da me.
Intanto io lasciavo passare velocemente la mia adolescenza in quella prigione. L’unico pensiero che mi tormentava dopo aver preso quella scelta era “cosa farò dopo?”. E’ un dubbio che ho ancora adesso.
“Cosa farò domani?”
Non ho mai saputo cosa volevo da me, dagli altri. Mai saputo quali fossero le mie capacità perché davo tutto per scontato. Avevo un’immaginazione smisurata per cose banali ma non per immaginare il mio futuro oltre il cancello della scuola.


La mia giornata era al massimo della sua mediocrità. Sprecavo il mio tempo a studiare per un domani buio e cieco, al piano e in passeggiate monotone ascoltando Bach e i miei adorati gruppi musicali sconosciuti.
Ma nonostante tutto, non avevo mai tempo per fare niente. 
Ormai ci sono così tante cose da fare in questo mondo che le persone corrono come inseguite da Mefistofele per poi non concludere niente.
“La maratona del tempo”.
L’unico momento libero per pensare era sull’autobus. Quaranta minuti andata e ritorno, ottanta in tutto. Più di un’ora.
Mentre mi beavo della mia musica pensavo. Pensavo a cosa volevo, cosa mi sarei aspettato che facessi in un ancora inesistente futuro.
In realtà ho sempre saputo cosa avrei voluto fare ma non avevo le palle per formulare quel pensiero. Avevo paura di provare e rimanere deluso. Così venivo invaso da un senso di panico e impazienza: volevo che il tempo passasse più in fretta per andarmene e cercare un lavoro adeguato alle mie aspettative: pensavo che forse libero dai vincoli dell’età minorile, sarei stato più libero. Libero dalla paura di non deludere nessuno.
 Ogni mia idea su un ipotetico lavoro veniva accartocciata come il foglio di uno scrittore bloccato. Non mi piaceva niente, reputo e reputavo tutto banale.
Volevo un’occupazione che mi facesse sentire bene con me stesso, che potesse riempire il guscio del mio corpo reputato vuoto.
La mia situazione è sempre stata una sorta di “accidia” interiore. Il peccato capitale petrachesco che ti logora l’anima nella ricerca della pace interiore.
Ero fatto di paradossi, motivo per cui nessuno riusciva ad avere una conversazione sensata con me.
Nella mia classe odiavo tutti e loro ignoravano me. Nessuna rogna, nessun complotto tra amici che si tradivano a vicenda.
Rivolgevo la parola a quei pochi che consideravo “normali” per i miei standard. Tutti gli altri erano marmaglia da ferro vecchio: mocassini e pantaloni arrovellati sulle caviglie anche d’inverno.
Odiavo la gente che frequentava quella scuola, il loro modo di vestire tutti uguali, di vantarsene, di pensare, di parlare. Non avevano niente delle cose che avevo immaginato per una persona di un liceo classico.


Il loro guscio era più vuoto del mio.
Non posso vantarmi di aver sempre avuto una “mente superiore” ma..DIAMINE! Anche la gallina di mia nonna avrebbe avuto un cervello migliore di quelli là e tutti sanno che la gallina ha un vocabolario ristretto formato da tre parole: nutrirsi, cagare uova, covare.Oltre queste tre azioni non riesce a coordinarne altre.
I primi due anni furono i peggiori lì dentro: non riuscivo ad ambientarmi, i miei voti non rendevano felice nessuno, non avevo un motivo per fare quello che continuavo a fare.
L’unica mia occupazione era suonare. Mi piaceva.


Le prime lezioni me le diede mio zio Diego, quelle basilari, poi feci da solo.
Non amavo particolarmente leggere gli spartiti, adattarmi al testo, era noioso così iniziai a comporre musica tutta mia sia per esercitarmi sia come svago personale.
Avevo una memoria uditiva e ciò mi facilitava il dover ritrovare le note di tutte le melodie che mi avevano accompagnto durante i miei viaggi per poi suonarle con la tastiera del piano.
Quello strumento diventò il mio scopo principale all’inizio: andavo a scuola con l’attesa di tornare a casa e provare il mio “nuovo giocattolo”. Poi divenne un’ossesisone:  se non suonavo al meno una volta al giorno diventavo nervoso, iniziava a mancarmi l’aria e muovevo convulsamente le dita.  Il suono melodico del pianoforte, anche di una sua singola nota, mi risvegliava.
Non poggio più un mio polpastrello su un pianoforte da tanto tempo.
Mi manca saggiare l’avorio liscio e freddo dei tasti, sentire la vibrazione di una corda finchè il suono non evapora da solo…mi manca terribilmente.
Prima era impensabile da parte mia vivere senza musica, senza suoni, ora è la realtà.
Dicono che la musica ti salvi la vita probabilmente perché è vero.
Fu grazie al mio pianoforte che riuscii ad uscire dalla tomba che mi ero costruito e ad una serie di eventi che condizionarono quella che non sono sicuro sia la mia vita.
Era un’estate caldissima. Luglio credo, facevo siesta sotto la palma del mio giardino con gli occhi chiusi. Ricordo che avevo litigato con Giuly per non ricordo quale motivo la sera prima ed ero molto nervoso, ero lì e pensavo a quanto fossi inutile sotto una palma malaticcia a sudare come un’idrante senza fare nulla quando mia cugina Amelia mi svegliò dalle mie pippe mentali con il tubo dell’acqua gelida che mi diede un rapido sollievo dal caldo prima di evaporare come era uscita.
La mia cara cuginetta dopo avermi annaffiato per bene, si mise sul mio petto accucciata dicendo che ero fresco e che mia madre voleva vedermi.
-E perché ha mandato te?
-Perché mi stava raccontando una storia e all’improvviso si è ricordata che doveva dirti una cosa.-
-E tu che ci facevi in casa mia? Hai detto che odi stare lì dentro….-
-Non è vero, sei un bugiardo!-
Detto così si alzò e torno spedita in casa. Anche da fuori, stesi in giardino, si potevano udire i suoi piedi salire impettitamente le scale.
Lentamente mi alzai anche io e mi diressi verso il portone. Salii le scale fino al nostro “attico” e spinsi la porta per entrare.
Trovai mia madre nella sua solita postazione estiva, il divano giallo in cucina.
-Hai interrotto la mia siesta, mà-


-Mmm, prepara la zavorra, la tua meravigliosa mammina ha deciso che è tempo di fare un altro viaggetto….tu hai 14 anni vero?-


-Ne ho 16! E..NO! Non voglio lasciare casa di nuovo! Ho le mie abitudini, i miei alberi e..e..i miei amici..e..-


-Quali amici, tesoro? Non iniziare a cacciare scuse inverosimili. Questo classico ti sta rovinando la tua bellissima abilità nello sviare e io che ci cacchio anche i soldi.
Tranquillo, puttanella, è un viaggietto non un viaggio, ciò significa che sarà breve e torneremo in questa gattabuia. Tempo due mesi. Voglio farti vedere l’unico luogo che ho sempre nascosto al mondo intero  fino a d ora che me lo sono ricordata.-
-Ora che ho 16 anni? Sa tanto di una “la bella addormentata” o “Cenerentola”, insomma una favola disneyana dove io sono la principessa che compiuti i suoi 16 anni manderà il mondo nella nuova apocalisse zombie dove il “bacio di vero amore dato a mezzanotte” potrà far ritornare etc…etc..-


-PREPARA LA ZAVORRA PUTTANELLA! Paratiamo alle nove di questa sera.-


 
  
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