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Autore: Blam_    14/01/2014    1 recensioni
Mi chiedo che senso ha?
Non la vita. La vita non ha nessun senso. Già il parto è una cosa inutile: devi soffrire per regalare al mondo una vita che probabilmente non avrà nessun senso.
Prima dovevi sopravvivere per vivere, ora se sei vivo esisti.
La vita è un peso.
Ma che senso ha?
Si può essere indipendentemente liberi?
Genere: Avventura, Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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Andai in camera mia, accessi il piccolo ventilatore sul comodino e cacciai fuori dall’armadio la mia “zavorra”, una sacca in pelle che a causa dei numerosi “viaggetti” di mia madre si presentava logora e coperta di toppe.
Spalancai ogni cassetto, anta o fessura della mia stanza per poi rivoltare il contenuto sul pavimento e sul letto.
Con mia madre bisognava essere attrezzati perché ogni volta le nostre gite turistiche si presentavano sempre nella maniera più sbagliata possibile: il “andare a vedere il gran canyon” divenne “buttarsi con il paracadute dal gran canyon” o il “fare una passeggiata seguendo il corso del Nilo” si trasformò in “sfida a chi riesce a rimanere vicino ad un coccodrillo più a lungo mentre fa il riposino LUNGO LE SPONDE DEL NILO”; a volte credevo che si volesse sbarazzare di me una volta per tutte.
Mi ritrovai a scegliere tra il portare coperte di sopravvivenza o calzoncini da mare e poiché non sapevo quale fosse la meta decisi di chiedere a mia madre un’indizio, almeno per facilitare la preparazione della zavorra.
-Che devo portare!?-
-Di tutto, il tempo è incerto da quelle parti.-
-E tu hai deciso di passare la giornata a fare meditazione sul divano? Io non te la preparo la valigia!-
-E’ già tutto pronto per me, la tengo nell’armadio da settimane. Non provare a sbirciare il contenuto. Se una sororesa è ,tale deve rimanere!-
Ritornai sbuffando verso la mia stanza ma a metà percorso mi bloccai e mi diressi verso la camera di mia madre: io non sono tipo da sorprese.
Abbassai la maniglia e spinsi la porta. Chiusa a chiave. 
Dalla cucina sentii la risata compiaciuta di quella perfida donna che mi teneva sempre più sulle spine.
Perché era così segreto questo viaggio?
Misi in valigia pile e t-shirt, tute invernali e felpe primaverili, le mutande che avevo ricevuto a natale e non avevo ancora usato, calzini da trekking per facilitarmi le interminabili passeggiate con mia madre, il mio keeway blu, la crema solare, l’accappatoio, due asciugamani, lo spazzolino, la spazzola celeste, shampoo e balsamo, una saponetta ipoallergenica, due flaconi di acqua ossigenata per essere previdenti, una scatola di cerotti, due pacchi di bende, delle fasce elastiche, del gesso fai da te, medicinali vari compresi antidolorifici e OKI, che può curare qualsiasi cosa, e il mio coltellino svizzero. L’mp3 della sony l’avrei portato in tasca, non potevo perderlo.
Iniziai a prendere a pugni il mio sacco e alla fine si chiuse quasi da solo, come se sapesse già cosa fare e non vedesse l’ora di partire.
Non ero affatto minimalista come mia madre: lei poteva arrangiarsi con un rametto secco e una mutanda, io no. Volevo sempre essere attrezzato perché odiavo gli imprevisti, le cose non programmate e gli acquazzoni immprovvisi, quelli che il meteo non potrà mai prevedere. Quando mia madre mi disse che “il tempo era incerto” mi arrabbiai ancora di più.
E’ anche vero che ogni volta che stilavo una tabella di marcia poi non la seguivo, ma almeno avevo una base d’appoggio su cui basarmi.
Quando finì erano le cinque del pomerigio, avevo ancora quattro ore a disposizione. Ciò significava che potevo fare un salto al bar, in farmacia e poi festeggiare il compleanno di Giuly che quel giorno avevo completamente dimenticato…forse era per quello che avevamo litigato.
Uscì frettolosamente e mi diressi al bar lì vicino, da Mauro, un signore che mi aveva preso in simpatia e che la mattina mi rifilava ciambelle gratis nella tasca della giacca, alto con la pelle scura e i capelli bianchi, lunghi da fricchettone. Sembrava un’indios americano.  Era suo figlio però il mio amico di infanzia, probabilmente il mio migliore amico.
Hector poiché viveva lì a fianco, nelll’appartamento che era sopra il bar, divenne compagno di giochi dei miei cugini più grandi, Giuly e Dante, prima di me che arrivai molto dopo a conoscere la mia famiglia materna.
Quando Dante scopri di avere un cugino più piccolo, mi adottò come suo fratello e mi costringeva a fare tutto ciò che voleva lui, ad essere amico dei suoi amici a parlare con le sue stesse espressioni  ma ,a  causa del mio carattere, il suo lavoro di clonazione non ebbe un esito positivo e così costrinse sua madre a sfornargli un fratellino, Jordan, ma neanche quella volta ebbe fortuna.  Dalla sua ossesisone dell’avere un gemello però guadagnai l’amicizia di Hector e l’accesso illimitato al frigobar del padre.
Era più o meno solitario come me  ma molto più sociale; aveva un’innata aura positiva che portava subito le persone a fidarsi di lui, capelli neri e carnagione caffelatte che addolciva anche le più restie ad uscire con lui. Era però troppo buono con tutti e molti ne approfittavano; io divenni come la sua guardia del corpo e gli difendevo le spalle grazie al mio fiuto per gli opportunisti essendo anche io in quella categoria. A differenza sua ,ero freddo con tutti e non mi fidavo di nessuno e la mia statura allontanava i bulli che cercavano di minacciarlo per le caramelle del bar.
Diventammo amici quando lo savai da un manrovescio che probabilmente gli avrebbe fatto saltare i denti.
Era una banda di bulletti che si aggirava sempre intorno al nostro quartiere e osservava con molto interesse Hector che usciva dal bar e veniva a casa nostra per giocare ai carabinieri con Dante.
 Ogni volta che mio cugino aveva visite, io mi allontanavo per non disturbargli poiché non mi facevano mai partecipare ai loro giochi: la scusa era che fossi prepotente ma in realtà vincevo sempre io e il gioco finiva perennemente in una rissa.
Dante veniva a casa nostra ogni sabato alle 15.00 e se non poteva chiamava per disdire. Quel giorno mio cugino lo aspettò fino alle 15.30 poi corse a chiamare me e mia cugina per formare una squadra di soccorso. Avevamo già notato quei loschi individui per le nostre strade e temavamo che avevessero aggredito Hector come era successo a Ezio, il figlio del vicino, pochi giorni prima.
Era il nostro quartiere, dovevamo proteggerlo dai loro attacchi furtivi.
Cercammo in ogni vicolo, chiamandolo a gran voce, chiedendo ai vicini. Niente. Poi Dante decise di andare a cercarlo nell’unico posto a cui non avevamo pensato: casa sua.
-Probaiblmente non è stato aggredito da nessuno e non è voluto venire.-
-Imbecille, avrebbe chiamato, no?-
-E se ha il telefono rotto?-
-Sarebbe venuta la madre come l’ultima volta.-
-Forse si è scordato…-
-Non vedo Andres e la sua banda in giro!-
-…Tom, Giuly, correte!-
Quello che ricordano i vicini fu solamente una nuvola di polvere che si alzava per la nostra corsa verso il bar di Mauro, quello che ricordo io furono svariati dolori alla milsa, i polmoni che bruciavano ossigeno e Dante che gridava impazzito il nome dell’amico. Quando arrivammo il bar era chiuso perché era domenica . Andammo sulla porta del retro per avvisare la famiglia e ci trovammo davanti Hector seduto su una scatola di bottiglie con il naso sanguinante e i pantaloni bagnati di paura, Andres che stava per colpirlo e aveva la mano alzata per lo slancio e i suoi compari che tenevano fermo il nostro amico.
Dante mi guardò e io risposi allo sguardo, ci lanciammo su Andres e io gli tirai una testata contro il suo contenitore vuoto, che in anatomia viene definito “testa”, e Dante gli bloccò il braccio tirandoglielo indietro finchè non si lussò. Giuly sottrasse Hector agli occhi sbarrati di quegli imbecilli che se la svignarono lasciando il loro capo indietro. Loro a destra, noi a sinistra.
Non partecipai mai ai loro giochi ma la nostra divenne un’allegra e salda combriccola con strani componenti dove io presi sotto la mia ala Hector e gli guardai sempre le spalle.
Quando arrivai al bar al bancone c’era Mauro e suo figlio che mi salutarono e io gli feci cenno di servirmi al tavolo poiché faceva caldo. Scelsi proprio quello con l’aria condizionata e aspettai con pazienza di ordinare.
Mi servì Hector.
-Hey, puttanella, che ti porto?-
-Una birra ghiacciata e una stecca di mentos.-
-Ora capisco perché ti sei fatto servire al tavolo, ser Pel di carota. Ti costerà un’euro in più.-
-Perché, hai aumentato l’iva?-
-Sono serio, puttanella. Numero uno, devo portarti le mentos e la birra senza farmi vedere da mio padre; numero due, ieri mi hai dato buca e ho dovuto subirmi l’amica di Clarissa che sparlava della tua buca e di quanto fossi strano. Sono andato in bianco, cazzo!-
-Spero che tu abbia accentuato le voci sulla mia stranezza con quella psicopatica, non voglio un’ammiratrice segreta e altre cazzate simili. Va bene accetto il prezzo, mi fai pena.-  
Ridendo andò a prendere l’ordine e tornò poco dopo con tutto: fece scivolare la stecca di sigarette sotto il tavolo, me la infilai nei pantaloni e mi diede la birra ghiacciata in mano, fuori dalla porta del bar.
-Che devi farci con tutta quella scorta di tabacco?
-Sta sera parto per non so dove. Al compleanno di Giuly ci vieni?-
-Si, si, il regalo chi ce l’ha?-
-In teoria Amanda ma l’ha lasciato a casa di Dante ieri sera: era ubriaca poverina.-
Scoppiammo a ridere, poi me ne andai ,zoppicando per la scatola che infilava i suoi spigoli nelle mie palle, verso la farmacia dove comprai una scatola di profilattici. Avevo deciso che in qualsiasi luogo mi avesse portato mia madre mi sarei goduto l’estate, recitando la mia parte da don giovanni. Tanto lì sicuramente non mi conosceva nessuno. 
E’ bello fingersi attori per un breve periodo e costringerci a vedere il mondo da occhi diversi; ero un gran bugiardo così come ero bravo a recitare personalità differenti e confondere le idee della gente. Adoravo anche essere me stesso perché per coloro che non ti conoscono, essere se stessi può anche essere una maschera di un’altra commedia e quindi è come recitare. Un po’ come “il mercante in fiera”: è il mercante che sa la verità e ha in pugno il cliente.
Tornai a casa per le 6.30, mi preparai per il compleanno e riuscì di nuovo con la bici alla volta del ristorante, “Il Leccese”.
Quando arrivai erano già tutti seduti e mia cugina scartava i regali.
Ventitre invitati. Un incubo.
Verso le otto e mezza, quando tutti avevano finito la pizza e avevano appena iniziato a sbronzarsi, presi da parte Giuly e le diedi il mio regalo di compleanno: una conchiglia blu, presa dalla nostra spiaggia, che avevamo cercato insieme e poi colorato. Credevo l’avessimo persa invece la ritrovai sul fondo del cassetto del comodino mentre cercavo di preparare la valigia per le nove.
Mi abbracciò.
-Che ne dici se sta sera navighiamo un po’ nel tuo letto?- mi sussurrò, sfiorandomi l’orecchio con le labbra.
-Sta sera parto, non so per dove. Starò fuori due mesi, forse anche di più. Sai che tua zia è imprevedibile?-
Si staccò dall’abbraccio e mi guardò interrogandomi.
-Non ci vediamo da tre mesi e tu oggi te ne vai? Perché non me l’hai detto prima! Avrei trascorso più tempo con te in questa settimana…-
-L’ho saputo oggi, donna. E poi non vedo come passare del tempo insieme sia così importate ora; tanto ogni volta che ci vediamo finiamo nudi nella mia camera e quando hai finito te ne vai e mi lasci lì, senza raccontarmi qualcosa, dirmi “ciao”, niente. Sei taciturna come…come il silenzio nell’universo. Sei vuota.-
-Cosa dovrei dirti?! Che ti amo e vorrei passare ogni minuto della mia esistenza con te? Un’adolescente con i brufoli sul pene?!-
-Hey, io non ho brufoli da nessuna parte, sono liscio come una pesca!-
Scoppiò a ridere e mi baciò distrattamente, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
-Prima mi parlavi delle tue giornate, di tutte quelle stronze delle tue amiche, tu non sei un tipo taciturno. Che hai?-
-Prima voglio salutarti a modo mio. Mi mancherai. E non è vero che non parliamo mai! Io ti so leggere la luce degli occhi-
-Si,si, fata turchina. Che dici? Il tuo principe rossastro può salvarti la serata?-
-Hai il tuo nobile destriero?-
-Ho una bici.-

Ci congedammo dagli altri con la scusa che io dovevo partire e lei doveva aiutarmi a fare le valigie ma non servì a molto: erano tutti strafatti di birra e ci ignorarono completamente. Presi una bottiglia dal tavolo e la misi nel cestino della mia “fuoristrada” e aiutai la mia dama a salire.
Non presi la strada per andare a casa ma quella che portava al campo abbandonato dei fratelli Mores.
Ci addentrammo nel bosco delle erbacce, dove corremmo come cagnolini avidi di libertà e adrenalina.
Poi ci catapultammo sull’erba dove stappai la bittiglia di birra con i denti, la portai alla bocca ma poi ci ripensai e vuotai il contenuto su Giuly che mi osservava maliziosa.
Mi assalì come una belva sblaterando che le avevo insozzato il vestito e che ora puzava d’alcool ma io la zittii con un bacio trattenendo le sue mani dal conciarmi male.
Dopo quello che mi parve un secondo meraviglioso si staccò e mi guardò, divertita dalla mia espressione affamata . Ne volevo altri.
-Mi hai sporcato la camicia nuova, quindi ora sono arrabiata.-
-Ok, ma in questo momento non frega al nessuno della tua camicetta nuova! Te ne ricompro un’altra, ti prego baciami.-
Mi sporsi ma lei mi bloccò con una mano e con l’altra iniziò a sbottonarsi i jeans.
-Giuly non c’è tempo…-
-Zitto, metti questo-
-Perché hai un preservativo nei pantaloni?-
-Per le emergenze, no?-
-La domanda è: perché continuate a chiamarmi “puttanella”?
Rise e aprì la zip dei miei pantaloni, infilò la mano in quel buco nero, cercando quello di cui aveva bisogno. Infagottò il mio amico d’infanzia in quel budello di plastica, lasciando a me il compito di toglierle i pantaloni.
Era frenetica, cambiata. Non mi teneva più sulle spine, non assaporava quei piccoli momenti come prima, non mi sentivo più al sicuro nel mio letto d’alghe, ero scoperto e come lei, avevo fame anche io del suo contatto. La sua fretta mi aveva contagiato.
 --------------/
Alle nove tornammo a casa dove trovammo mia madre che caricava la macchina con la mia zavorra in pelle.
Durante il viaggio Giuly da dietro mi aveva accerezzato i capelli sossurrandomi tutto ciò che dovevo sapere, che mi aveva tenuto nascosto per due anni, dicendo “scusa, scusa” mentre mi baciava il collo.
Fu un bene allontanarmi un po’ da quella casa che mi stava opprimendo.
Credo anche che mia madre sapesse tutto e che organizzò il viaggio solo per quello.
Forse sapeva quel che faceva.
Forse era solamente una grande donna con un grande fiuto oppure il suo istinto materno.

Non la ringrazierò mai per questo.
  
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