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Autore: dichiarandoguerre    15/01/2014    2 recensioni
Abbiamo visto l'alba perso la calma, fatto di un errore in dramma, dell'amore un'arma, la puntavi su di me piangevi, ero la cosa più bella che avevi.
Genere: Commedia, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 2.


Sono le sette e tu sei ancora là dentro, erano passate due ore da quando ero arrivata e tu eri dentro da cinque ore. Cinque.
Non volevo i dettagli, volevo solo sapere se eri ancora lì con me, se non mi avevi lasciato in mezzo a tutto questo, lo sai non sono forte come sembra.
“Pronto?”
“Dove sei?” Chiedeva mia madre.
Ero esattamente nel posto più brutto del mondo, nel momento sbagliato, con le persone sbagliate.
“In ospedale, è successo che Francesco...Poi ti spiego.”
Appoggiai il dito sul tasto rosso della fine chiamata. Non sarei riuscita a spiegare tutto a mia madre, forse lo sapeva già e voleva solo una conferma da me.
Chiusi gli occhi e mandai giù tutta la tristezza che avevo dentro. Ora eri lì, vicino a me e mi tenevi la mano. Eravamo in un posto qualsiasi, ma eravamo assieme. E tu mi guardavi. Come fai sempre. Parlavi ma non ti sentivo. Ogni tanto ti portavi la sigaretta alla bocca e mi sorridevi. Eri bello, quanto tempo era passato? Due giorni forse e già mi mancavi e chissà quanto tempo avrei passato ancora da sola, senza di te.
Tua madre si alzò, sentii l'aria cambiare. Aprii gli occhi, speravo di trovarti davanti a me attaccato all'asta della flebo, quella dei film, che camminavi verso di me e dicevi che andava tutto bene. Invece solo un dottore, un fottuto dottore che mi chiamava verso di lui. Parlava con lei, e io non ascoltavo nulla, non volevo. Mi avvicinai.
“Non mi ha lasciato vero? Lui è forte sa.”
Parlavo, forse urlavo, mi appoggiò una mano sulla spalla, con la stessa faccia degli altri.
Non ero pazza.
“Venga con me.”
Mi dava del lei, come se parlasse con una signora di mezza età che stava perdendo il proprio figlio.
“Ho sedici anni, mi dia del tu.”
Sorrise, un sorriso morto. Rimasi immobile a guardare quella piccola piega che avevano preso le sue labbra, a chiedermi come ne avesse la forza. Era il suo lavoro e chissà quanti casi così avesse visto.
Lo seguii, con il cuore che mi premeva dentro il petto, lo sentivo. Come se volesse sprofondare dentro, in mezzo al resto. Tremavo.
Non ero sicura di quello che stavo facendo, camminavo a fatica, senza forza. Non ero pronta.
Chiusi gli occhi, di nuovo, ed eri lì. “Dammi la forza.” Ti pregavo, da lontano, troppo lontano.
Questa volta eri davvero davanti a me, non sorridevi, non fumavi nessuna sigaretta, non andava tutto bene. Piansi. Piansi tanto. Mi persi, per una frazione di secondo. Non sapevo se ero davvero lì, oppure sognavo. Uno di quegli incubi che sembravo reali.
Eri steso su un cazzo di letto di ospedale, con due macchine attorno, un tubo alla bocca, la flebo al braccio. Ti avevano rasato a zero i capelli. Avevi settanta punti in testa. Che cosa mi avevi combinato questa volta? Smisi di guardarti, non ce la facevo più. Non me ne andai nemmeno, non ce la feci.
Ci lasciarono soli, io da una parte, tua madre dall'altra parte a tenerti le mani. Le tue mani. Ho sempre avuto la strana ossessione di innamorarmi delle mani, e le tue sono belle. Lo erano anche quel giorno. Lo eri anche tu.
Succede spesso alle persone di immaginare la morte di una persona cara, di se stesso, e provare a capirne la vita senza di esse. Senza trovare una soluzione alla loro assenza.
Io ho l'ho immaginato molte volte, e questa volta c'ero dentro. Volevo morire io. Volevi morire tu. 
  
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