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Autore: DewPrincess    16/01/2014    0 recensioni
"Ed è anche così che ho passato la vita. A fare le cose in modi che non mi piacevano, senza poterle fare altrimenti, per ragioni che, a posteriori, dallo specchietto retrovisore della limousine della morte, vi assicuro non hanno peso alcuno. Sono tutte bugie che mi sono raccontata e che, con tutta probabilità, vi state raccontando anche voi. Tanti auguri, a tal proposito."
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Taci, appartati e nascondi
I tuoi sentimenti e i tuoi sogni,
E lascia che nella profonda anima
Essi si alzino e tramontino
Silenziosamente, come stelle nella notte.
Contemplali e taci.

Come potrebbe il cuore esprimersi del tutto?
E un altro come potrebbe capirti?
O comprendere il senso della tua vita?
Il pensiero espresso è menzogna;
Scavando, intorpidisci le fontane!
Bevi a queste fontane, e taci!...

Sappi vivere solo di te stesso;
C’è nella tua anima un mondo intero
Di pensieri incantati e misteriosi;
L’esterno rumore li stordisce,
I raggi del giorno li disperdono,
Ascolta il loro canto e taci!

 
È Fjodor Tjutĉev.
Voleva dire, forse, che quel che c'è di vero, il sostrato di ciò che siamo non è noto neppure a noi stessi. Sono le tracce di noi. Il modo in cui ci tocchiamo il viso o lo muoviamo secondo una certa angolazione, gli archi complicati che le nostre mani gesticolanti disegnano nell'aria. Qualcosa che scorre al di sotto di tutto il resto, sullo sfondo, una scritta in sovrimpressione, della quale non facciamo in tempo a cogliere nulla, mai. Ma è quel che siamo. La sostanza di noi si esprime in particolari così minuscoli che il resto del mondo li inghiotte e non possiamo fare altro che sentirceli scivolare attorno e cercare di non disperarci all'idea che tanto, comunque, non li troveremo mai. Non verranno a bussare alla nostra porta. Non verranno a ricordarci chi siamo. Gli atomi. L'aria. I suoni. Ecco cosa siamo.  E allora scrivo. Scrivo perché sono egoista e voi leggete per lo stesso motivo. Scrivo perché, ora che muoio, devo dirgli tante cose. Scrivo perché ho vissuto una di quelle vite in cui si aspetta la fine per fare il passo fondamentale. Su una sedia in fondo alla platea, nell’angolo. Tra le quinte del sipario. Una di quelle persone che stanno dietro lo spettacolo e alla fine non vengono mai nominate, perché sono troppe.
Siamo in tanti. Quelli che fanno la cosa giusta per i motivi sbagliati. Quelli che attraversano solo territori conosciuti. Siamo l’esercito della mediocrità nel suo significato originale. Siamo quelli normali. Era l’unica fine che non volevo fare e invece, a quanto pare, è tutto quello che mi rimane da pensare di me stessa.
 
Spero nella vita vi sia capitato di visitare uno di quei paesi dove le colline sono morbide e sembra che il prato qualcuno ce l’abbia rovesciato a secchiate gioiose di colore e il grano dei campi lanciato come riso agli sposi. Io mi accorsi tardi che vivevo già in un posto simile. Fino a che non ho dovuto correre spesso in auto nelle campagne il mio mondo è stato una striscia grigia di asfalto da percorrere in fretta, perché i miei piedi erano il mio unico mezzo di trasporto. Mi ricordo ancora il primo giorno in cui, da dietro le lenti degli occhiali da sole, scoprii dei colori che non avevo mai notato e dei disegni nascosti. Per una volta, non mi sono sforzata di interpretarli. Per il resto del tempo, non ho fatto altro. Ogni frammento di rapporto col mondo è stato scandagliato fino a che non era più possibile riconoscervi nulla che avesse senso: le mie tante ricerche instancabili che non hanno mai portato ad altro che a confusione e malintesi. Qualcosa però mi hanno insegnato: lo stupore della naturalezza. Quando è capitato che qualcosa succedesse senza intoppi, che eventi o incontri o coincidenze combaciassero ho sempre provato una soddisfazione profonda. Come se avessi trovato una specie di falla nel disordine dell’universo. Quando l’ho conosciuto è stato così, ho scoperto il piacere di quando le cose semplicemente accadono e fluiscono, senza bisogno delle coordinate canoniche. Per questo fatico a raccontare i fatti. Una storia necessita di tempi, spazi, descrizioni, informazioni dettagliate che diano un qualche appiglio. È ragionevole, ma il mio è un messaggio di profonda disperazione, che non può cominciare con minuzie ovvie o banali, con scenografie, luci e colonne sonore. È troppo reale, perché io possa pensare a come si può immaginare meglio.

A pensarci bene, non credete che ogni momento fondamentale della vostra vita sia stato contraddistinto da una certa percentuale di nulla? Quando avete abbandonato qualche paura, camminato dietro un carro funebre, percorso l’altare, assistito a spettacoli sublimi o agghiaccianti, quando avete provato pena e angoscia e gioia accecante… non sono questi tutti momenti in cui tenere il conto è stato impossibile e una forte dose di bianco ha riempito i vostri occhi, il vostro cuore e i vostri pensieri? Nel dolore e nella serenità c’è un’ebbrezza, un’insensibilità in cui forse il nostro corpo ci avvolge per proteggerci oppure uno stordimento che è sintomo dell’incapacità umana. Sono gli stessi momenti in cui di fronte a tanto, tutto assieme, abbiamo potuto ben poco. Molto poco.

È opportuno vi informi che ho raggiunto la veneranda età di 84 anni e non è questo un buon momento per temporeggiare o azzardare opinioni sul come delle cose. La mia pelle è diventata una sorta di scudo cadente, perito sotto i colpi ricevuti e sfinito da quelli schivati. I miei occhi sono chiari e vedono ancora abbastanza bene, ma hanno smesso di frugare il campo visivo, sono concentrati su altro. I miei capelli erano così lunghi che avrei potuto sedermici sopra, ma li ho tagliati quando ho capito che la testa su cui erano spuntati era cambiata. Non erano più emissari della mia mente, ma letti vuoti di fiumi prosciugati. A parte la malattia che mi sta uccidendo, non ho gravi problemi di salute. Mai avuti, sempre solo fastidi e acciacchi utili a rallentare i miei ritmi e a raddoppiare i miei sforzi. Ironico, come tante altre cose. Mi è rimasta solo l’amarezza. Oltre alla mia casa, dove si muovono solo i miei gatti antipatici, i miei rimpianti solenni e la donna minuta che si occupa di me. È giovane e non capisce niente della vita. Crede che i suoi sogni si avvereranno, che il suo impegno la porterà lontano e che la sua vita, per merito di qualche forza misteriosa non meglio specificata, migliorerà così tanto da sembrare incredibile. Provo ogni giorno a dirle che l’autodeterminazione non esiste e che farebbe meglio a cercarsi un lavoro vero. Provo a dirle che sto morendo, che non sono in grado di reggere i suoi sorrisi o le sue speranze, ma non vuole arrendersi e non posso mandarla via. Nel caso a morire ci mettessi troppo, voglio proprio vedere che fine farà. Si chiama Viola, è nata quando tutte le femmine le hanno chiamate Viola, perché la gente è tendenzialmente testarda e poco originale.

Odiare la gente non mi viene naturale, è una gran fatica. Ogni giorno ho sperato che l’umanità smentisse le mie prime impressioni su di lei ed ogni giorno sono rimasta delusa. Ecco perché sono cinica ed ecco perché sto morendo con tutta calma e da vecchia: noi mediocri finiamo così, siamo i più fortunati. Quelli che restano quando se ne vanno i migliori. Siamo talmente insulsi che la morte ci lascia in fila col numeretto per una vita intera, senza preoccuparsi di complicarcela. Ci sfiora, ma non ci tocca. Almeno la morte è definitiva, brutale, crudele. Noi non siamo neppure quello. Siamo vuoti e inutili come le scatole degli stivali.
   
 
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