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Autore: Anime fanatic    16/01/2014    0 recensioni
A chi di voi non è mai capitato di fare un incontro, destinato ad essere il più significativo? basta poco, come l'amore per le parole... essere vicini senza essersi mai toccati..
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Erano passati cinque giorni da quando avevo “imbucato” la mia parte di poesia, e ancora non avevo ricevuto alcuna risposta. Questi cinque giorni furono colpiti a raffica da una miriade di emozioni: ansia, paura, felicità, imbarazzo, terrore, tradimento, angoscia. Una costante era il cuore in agitazione, lo sentivo continuamente, tanto che avevo paura che persino chi mi stesse accanto potesse sentirlo. Poi, io non sono mai stato un chiacchierone, soprattutto con i miei, ma con questa storia che mi atrofizzava l’anima, persi qualsiasi capacità di parlare, o anche solo d’apparire spontaneo. E ovviamente si notò, a casa. Li sentì la sera del sesto giorno, parlare di me, mentre mia mamma lavava i piatti, e mio papà dava un ultimo sguardo al giornale. Pensavano fossi andato nella mia stanza, ma rimasi dietro la porta:
“Secondo te che ha?” cominciò lei, con un filo di voce.
“Ma non saprei… Perché?”
“non so, mi sembra strano in questi giorni.. a te no?”
“no, non direi. Perché strano?”
“In ansia. Non ha detto tre parole in più di un’ora…”
“In ansia, dici? Non so… forse qualcosa a scuola lo preoccupa, cose da ragazzi”
“Forse ha litigato con qualcuno, o ha preso un brutto voto e non ce lo vuole dire…”
“cose da ragazzi, non c’è motivo di preoccuparsi”
“…magari qualcuno lo sta infastidendo, lo perseguita…”
“ non esagerare, Teresa. Cose da ragazzi! Se ci fossero problemi seri ce lo direbbe,  non è stupido”
“si, però… mah, forse hai ragione tu”.
Tornò il silenzio, e capì di dover tornare in camera mia. Mi rimproverai ferocemente: sono sempre stato attentissimo a non far capire cosa penso a nessuno, e mi vado a tradire così?? Dall’ansia? Questo perché detesto quando indovinano il mio carattere, il mio stato d’animo, quando non me l’aspetto. Mi sento indifeso. Qualcuno si è permesso di varcare il mio muro ed è entrato nella mia testa. Lo odio. E odio quando succede con persone che in realtà so essere le più distanti dalla mia lunghezza d’onda, in questo caso i miei genitori: li adoro, non fatevi ingannare, ma rimangono sempre a una certa distanza, e non impazzisco per nulla che li riguardi. Non li considero nemmeno stupidi, mi piace la passione che ha mio padre per il cinema, e quella di mia madre per la lettura, ma non sono affine a nessuno di loro. Anche se forse la verità è che non sono affine a un bel niente.
Eppure ci ho provato ad essere vicino a qualcun altro, al mio corrispondente, al mio compagno epistolare, che per tutta risposta mi ignorava. Calcolai un centinaio di possibilità:
  • Aveva letto il biglietto, ma non aveva apprezzato la mia risposta e non gliene fregava assolutamente niente.
  • Non aveva letto il biglietto perché si era trasferito a Roma per vocazione religiosa.
  • Aveva letto il biglietto, ma aveva riconosciuto la mia calligrafia e siccome gli faccio antipatia, aveva deciso di non rispondere.
  • Non aveva letto il biglietto perché gli alieni avevano rapito il corpo di Pablo Neruda e lui stava struggendosi per la perdita.
  • Aveva letto il biglietto, e stava architettando un piano per sputtanarmi allegramente.
  • Non aveva letto il biglietto perché diventato cieco in seguito a un incidente aereo.
  • Aveva letto il biglietto, ma non voleva rispondermi, perché non sicuro del suo piano d’azione.
  • Non aveva letto il biglietto perché gli avevano tagliato via la mano, poco prima che aprisse il contenitore del sapone.
In pratica, ero abbastanza sicuro che avesse letto il biglietto e questo mi rendeva ancora più ansioso. Ma la cosa peggiore, che teneva a braccetto la mia ansia, era l’idea di fare la figura dell’idiota. Non tanto perché temessi che la mia identità venisse rivelata, quanto di essermi messo in gioco, in qualcosa di astratto, che per il mio destinatario non era niente, se non motivo di noia o imbarazzo. Infondo, perché avrei dovuto rispondere, che motivo ne avevo, cosa avrei dimostrato? Magari, il biglietto era stato messo li, e la sua funzione stava in sé, racchiudeva un piccolo segreto che chi lo aveva scritto avrebbe tenuto per i suoi ricordi da liceale, e non era diretto a nessuno; o forse era diretto a qualcuno, ma a un amore non corrisposto, in forma di sfogo. Le possibili ragioni per cui il biglietto era stato scritto e nascosto erano infinite, e coi dati che avevo a disposizione non potevo arrivare a comprendere l’esatta intenzione dell’autore. Ma volevo una risposta, un cenno, un minimo segno. Così, era come essersi aperto a qualcosa che in realtà non mi riteneva degno di essere preso in considerazione.
Ero arrabbiato, perché l’unica volta che nella mia vita avevo cercato un dialogo con qualcuno, ero stato rifiutato. Potrebbe apparire patetico, poiché non si tratta di un vero dialogo, ma solo di uno scambio di bigliettini, senza alcun obbligo di rispondere da nessuna delle due parti. Ma per me quello era  eccome un dialogo, uno dei più importanti della mia vita. Nel momento in cui avevo aperto il bigliettino, ero entrato nel cuore e nella mente di una persona, l’avevo presa per mano ed eravamo saliti di un gradino sopra gli altri, in un piano dove c‘eravamo solamente noi due, anche se non ne conoscevo il volto. E io, rispondendo con altri versi, avevo automaticamente attivato un meccanismo, un discorso in cui una risposta mi avrebbe confermato il legame che credevo di essere riuscito raggiungere. “Se lui non mi risponde” avevo decretato, “sono un coglione che si fa film mentali da oscar”.
 
“Posso andare in bagno?”
“Si, vai…”
Mi alzai lentamente, per evitare il rumore dello stridio della sedia vecchia sul pavimento, e silenziosamente mi diressi in bagno. Era l’ultima ora. Andavo a controllare sempre a quell’ora, perché le menti geniali che preferivano starsene li durante il giorno non rimanevano più di quattro ore a scuola, e alla sesta ero sicuro di trovare il vuoto.
E come immaginavo, non c’era nessuno. Mi avvicinai al lavandino, aprì il contenitore e presi il biglietto. Era il mio. Cavolo, neanche oggi. Mi chiesi cosa non andava nel mio biglietto, da non meritare una risposta. Così crudelmente abbandonato nel contenitore, a morire mangiucchiato dagli insetti che albergavano in quello schifo. Ero seccato. Ripresi il biglietto e lo me lo misi in tasca. Vediamo se almeno questo innesca qualcosa. Tornai in classe furibondo, e cercai di non darlo a vedere. Ma si vide lo stesso, perché la professoressa mi chiamò, mi interrogò e mi andò pure male, un 4 che mi fece imbestialire. Mai stata una cima a scuola, ma prendere un 4 perché mi ero fatto prendere dall’ira fu una cosa che non riuscì ad accettare. Anche perché avevo studiato per quel giorno.
 
Tornando a casa riflettei su come quel biglietto trovato in bagno mi stesse facendo crollare. ‘Perché lo sto caricando di così tanta importanza? Non ho proprio nient’altro a cui pensare?’, ma la verità era che no, non c’era nient’altro che mi aveva attratto come il mistero di quel ritaglio di poesia nascosto agli occhi degli indiscreti, che giaceva li da chissà quanto tempo.
Un fulmine.
 Da quanto tempo stava li dentro il biglietto?
Lo uscì dal portafogli, e cercai qualche elemento che mi dicesse qualcosa di più. Effettivamente era un po’ rovinato, dalle piegature, dalla sporcizia all’interno del contenitore. Per quanto ne sapessi, i bidelli del mio liceo non si azzardavano a cambiare il contenitore del sapone da non so quanto tempo, e colui che aveva scritto il biglietto poteva aver già finito il liceo, ed essersene dimenticato completamente. Infondo, mi ero accorto per caso del foglio, ma non era detto che fosse li da poco. Insomma, la mia attesa rischiava di protrarsi in eterno.
In questo caso, non avevo niente da fare, se non farmi una risata interiore, per una sciocchezza che avevo inseguito, e ritornare al mio nulla abituale. Decisi di chiudere quella storia, perché molto probabilmente non avrei ottenuto risposta. Ripiegai il foglio e lo rimisi nel portafoglio. Tutto sommato volevo conservarlo. Mi era veramente piaciuta quella poesia, mi aveva colpito, come mai mi era capitato di venir colpito. Tenerla, mi avrebbe ricordato che anche io potevo venir sconvolto, di tanto in tanto.
 
Non ho mai trovato qualcosa che mi entusiasmasse particolarmente. Ho sempre guardato film perché mio padre li aveva a casa, ho letto tanti libri perché era un passatempo che mi permetteva di starmene tranquillo (a mia madre piace che io legga e da sempre, se mi vede con un libro in mano, fa di tutto per eliminare qualsiasi fonte sospetta di rumore), ascoltavo tanta musica diversa al liceo,  perché mi veniva consigliata dai compagni di classe ed era un modo per adeguarmi a loro. Ma non ho ne un libro ne un film preferito, ne c’è un gruppo o un cantante in particolare che mi facciano venir la pelle d’oca. Quelle cose che di solito si fanno per svagarsi, perché piacciono, per l’anima, io le ho sempre fatte per inerzia. Sono un apatico di prim’ordine in questo genere di cose.
Ma non perché odi qualcuno o qualcosa. Semplicemente sono molto sincero con me stesso, e questo mi permette di sapere benissimo cosa mi piace e cosa odio.
Mi piace Marquez, odio la Austen.
Mi piace “Quattro matrimoni e un funerale”, odio Woody Allen che ripete sempre il personaggio dello sfigato nevrotico.
Mi piace Moby, odio i Nickelback.
Mi piace il caffè, odio lo zucchero che ci mettono dentro senza chiedermelo.
Mi piace l’odore dei fiori di mia madre, odio quando passa l’aspirapolvere.
Mi piace toccare la carta del giornale di mio padre, odio quando mi propone di guardare Sorrentino.
Mi piacciono le ragazze, odio quando parlano troppo.
Semplice.
Ero sicuro che in questo modo, sapendo perfettamente cosa mi piacesse e cosa no, niente avrebbe potuto sorprendermi, e non mi dispiaceva. Anzi l’ho sempre preferito, perché il controllo di tutto mi rendeva più facile distribuirmi tra le cose, gestire gli impegni e la mia testa, mentre le cose inaspettate mi hanno sempre innervosito. Raramente mi sono fatto trasportare dall’impeto. E poi, dopo la storia del biglietto poetico, ero ancor più restio a lasciarmi andare a qualsiasi cosa, che prima non avessi analizzato, dissezionato. Farlo avrebbe significato abbassare la guardia, e  già una volta avevo visto quali potevano essere gli effetti. Più di aver risposto al biglietto, non mi ero mai perdonato i cinque terribili giorni di ansia che erano seguiti, passati come un idiota, aspettando un biglietto come fosse stato d’oro. Ci avrei fatto più figura ad innamorarmi, almeno la mia ansia avrebbe portato a qualcosa. E invece mi ero lasciato terrorizzare da un biglietto puzzolente, chiuso in un contenitore portatore sano di malattie ancora non scoperte, per un poesia copiata da un poeta morto. Bella roba.
 
Passò più di un anno, e dimenticai quella storia. Il liceo era finito. In qualche modo ero stato promosso e stava finendo anche l’ultimo giorno di scuola. I miei compagni erano tutti depressi per la fine del liceo, in lacrime, straziati di  non potersi sbranare fra loro come cani per un 8 in latino. Un cane da combattimento in pensione dovrebbe sentirsi così. Ero nauseato da tutte queste lacrime per i meravigliosi anni da macello nel liceo, dove tra cornificazioni e ubriacatine varie, non so come, eravamo sopravvissuti, e ora si piangeva perché anziché vedere tutti i giorni le stesse facce brufolose, ci si sarebbe grattati la pancia in attesa di decidere cosa fare di noi.
Persino Carlo piangeva, e mi diceva che ero uno stronzo insensibile. Avrei veramente voluto dargli uno schiaffo. Ma decisi di allontanarmi e basta.
L’aula magna era strapiena di gente che si abbracciava, tra chi si dichiarava troppo ansioso per gli esami e chi diceva che non avrebbe più toccato libro. Il preside nel frattempo ci parlava delle prove dell’esame, e discorreva di tante sciocchezze riguardo all’età che avanza, noi che maturiamo blah blah blah. Io ero solo stordito e stavo pensando a come impiegare il mio tempo nel pomeriggio, sperando di trovare un minimo di volontà per studiare. Studiare a giugno. Per la maturità. Chiunque abbia inventato l’esame di maturità, avrebbe fatto meno fatica a entrare in una setta satanica.
 
Scappai nel corridoio, in cerca del mio amato silenzio. Perché riempirci la testa di tanta retorica inutile, quando possiamo semplicemente farle prendere respiro? Solo per far riempire di autostima un 60enne distrutto dal suo principio di calvizie e dall’impotenza? Ne faccio a meno. Andando per i corridoi, le aule vuote, con la porta aperta. Era bello. La luce delle finestre della classi toccava il pavimento del corridoio, creando un effetto di luce caldo, estivo, formando tanti archi di sole. Camminavo piano, assaporando il rumore dei miei passi e nient’altro, sorridendo al pensiero che per la prima volta, dopo cinque anni, avevo trovato un po’ di bellezza in quella scuola. Un po’ di bellezza. Poteva essere quella, la prima e unica volta? Mi ricordai del biglietto. Già, quello fu un momento magico. Avevo letto un poesia. Una cosa che non avevo mai fatto prima (non spontaneamente o con così tanto piacere, perlomeno), e che non ripetei mai più. Volevo che quell’episodio rimanesse unico, e non mi interessò documentarmi ne su Neruda, ne su altre poesie; sapevo che, anche se ci avessi provato, non avrei provato la stessa sensazione di scoperta della prima volta. Arrivai al bagno, un po’ per commemorare quella poesia. Anche li, regnava il silenzio.
Mi appoggiai alla parete, e contemplai il soffitto. Non sarei più stato li, non ci sarei più tornato. Lì mi prese, un po’ di nostalgia. Non mi era rimasto molto di quegli anni, ma la sentivo comunque. Il tempo era venuto ed era andato. Quanto avrebbe inciso sulla mia vita questo, cosa sarebbe cambiato? Respirai a pieni polmoni, l’odore di ammoniaca mi entrò dentro, lo presi come un souvenir, per ricordarmi delle ore passate li a far niente. Non avevo ricordi, ma solo odori e silenzi da tenere nella mente. E non sentivo il bisogno di ricercare altro, per ripensare con nostalgia al liceo.
 Per il resto, avrei dimenticato le litigate a cui avevo assistito, le discussioni, i pianti, le risate, e le orribili scritte alle pareti. Notai questo: per anni quelle scritte mi avevano disgustato, ma ora che ero arrivato alla fine, avevano perso qualsiasi effetto. Non mi nauseavano più. Alla stregua pittura rupestre, le guardavo come un antico nemico che non poteva più attaccarmi. Erano il passato.
Il mio sguardo si posò sul contenitore del sapone. L’aprì, più per vedere se fossi riuscito a staccarne la parte posteriore che per altro. Ma lì, ciò che non mi aspettavo…
 
Un altro biglietto.
 
“…Pianto di antiche bocche, sangue di antiche suppliche.
Amami, compagno. Non mi lasciare. Seguimi…”
 
  • Se sarà destino, sono certa che ci incontreremo di nuovo   -
 
Sorrisi come un cretino per tutto il giorno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ci ho provato, a continuare. Questa storia ha vita propria, non ho idea di che forma possa prendere. E’ un esperimento a tutti gli effetti. Mi sembra giusto dirlo, anche per giustificarne la totale mancanza di struttura. Mi scuso se ci sono errori. Se qualcuno volesse, mi piacerebbe leggere qualche commento, positivo o negativo, anche solo per sapere cosa va e cosa no. Buona serata dalla giglietta!
  
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