«Io
non vorrei dirvelo, ma siamo senza un centesimo», esordisco,
il portafoglio
vuoto fra le mani.
«Siamo
senza soldi perché dovevamo rimanere due settimane al
massimo e invece abbiamo
già prolungato di dieci giorni. Che cosa ci dice il
cervello?», chiede Frances.
«Il
cervello ci dice che siamo diventate delle assidue frequentatrici di
casa Leto
e giustamente tornare a casa e affrontare la vita fa schifo»,
risponde ovvia
Rain.
Mi
butto di peso sul letto. «Io non ci voglio tornare alla vita
reale»,
piagnucolo. Mi alzo sostenendomi con un gomito. «Non ci
voglio tornare».
«La
parola università vi fa accapponare la pelle come a me,
vedo», dice Frances.
«Sempre
detto che i corpi morti non erano una bella cosa da studiare».
«Deborah»,
mi apostrofa.
Mi
alzo su un gomito per guardarla in faccia. «Devi accettare il
fatto che prima o
poi vedrai dei cadaveri, e in quel momento, oh come mi penserai in quel
momento».
Fa
un grosso sospiro. «Possiamo tornare a pensare a questioni
più importanti, per
favore?». Mi stringo nelle spalle. «Dobbiamo
tornare a casa. Li abbiamo incontrati
infine, ci siamo riuscite».
«Io
ho ancora troppe cose da dire loro», dico, e mentre lo faccio
so che è vero. Ho
bisogno di sentirmi dire da Jared che un giorno riuscirò a
scriverlo, il romanzo
perfetto che ho in testa, ho bisogno di dirgli deve sposarsi e
procreare perché
non può lasciare che la perfezione dei suoi geni venga
sprecata in questo modo,
ho bisogno di far ridere Tomo per sentire ancora una volta la sua
bellissima
risata nelle orecchie, ho bisogno di dire a Shannon quanto sia brutto
il suo
pigiama a righe marroni, e continuare a prenderlo in giro e
punzecchiarlo.
«Siamo
Mars dipendenti», conclude Rain.
«Cristo»,
esclama Frances buttandosi affianco a me. «Cristo
sì».
«Facendo
due calcoli possiamo rimanere qui un’altra settimana e
riuscire a sistemarci
comunque prima dell’inizio delle lezioni»,
rifletto. «Non più di una settimana,
però. Poi dobbiamo andarcene. O cambiare il nostro futuro
rimanendo a Los
Angeles per sempre».
«A
fare che?», domanda Frances.
«Non
so. Le barbone, visto che siamo senza un soldo?»
«Possiamo
trovare un lavoro», dice Rain.
«E
stare a Los Angeles per sempre?». Davanti agli occhi prende
forma la mia vita:
io che la mattina mi sveglio, i piedi doloranti, mi faccio una doccia,
mangio
dei cereali che hanno preso aria e quindi sono diventati molli, mi
faccio
strada fra le cianfrusaglie che trovo sul pavimento, esco di casa e
vado al
lavoro; lavoro in un ristorante e anche Frances e Rain, ma loro hanno
il turno
diverso del mio, per cui sono a casa a dormire (ho cercato infatti di
fare meno
rumore possibile, per non svegliarle), lavo bicchieri, piatti, pentole,
le mani
mi diventano molle, servo i clienti in sala e la camicia bianca mi fa
stare
scomoda per ore. So quello che si prova perché ho
già fatto quel lavoro, lo
abbiamo tutte e tre già fatto, e sebbene guadagnare dei
soldi sia davvero
gratificante, so che non è quello che mi aspetto da me
stessa. Io voglio di
più. Io posso fare di più. Tutte noi possiamo.
Sospiro e scuoto la testa. «Io
la cameriera per il resto della mia vita non voglio farla. Ho sudato
per
entrare in quell’università», concludo.
«Come anche voi».
Rimaniamo
in silenzio per un po’, a pensare ognuno alla propria vita,
alle
responsabilità, ai sogni, alle scelte, alle
possibilità, al futuro. «Una
settimana possiamo ancora permettercela. Poi torniamo a
casa», conclude
Frances. «Ci state?»
Non
ho bisogno di pensare molto prima di dire «Ci sto. Anche
perché non ho ancora
raccontato a Jared perché l’assassino nel mio
libro sia il personaggio più
bello di sempre».
«Anche
perché Tomo non mi ha ancora detto qual è il
segreto per trovare l’amore della
mia vita», esclama Rain.
«Anche
perché il ginocchio di Shannon non è ancora
guarito e potrebbe aver bisogno di
me», dice Frances. «È
deciso allora». Io
e Rain annuiamo, ed è in quel momento che un telefono
comincia a suonare. La
suoneria è Night of the hunter, quindi deduco che sia il
mio. Di slancio mi
alzo dal letto e seguo il suono con le orecchie per cercare di
indovinare la
posizione esatta del telefono, che trovo dopo qualche squillo sotto una
pila
infinita di vestiti. Mi dimentico di guardare lo schermo, e rispondo.
«Pronto?»
«Deborah,
is that you?». Stacco il telefono dall’orecchio e
il nome Tomo è impresso sullo
schermo.
«Yes, it’s
me. Are you okay? It’s
everything okay?».
«Shannon
stamattina deve andare a fare quegli esami per il ginocchio, e vuole
che
Frances vada con lui perché dice che ne capisce di
più di tutti noi messi
insieme, ma lei continua a non rispondergli al
telef…». Sento del trambusto
dall’altra parte della cornetta e mi corruccio.
«È stata rapita dagli alieni?
Le hanno di nuovo rubato il cellulare?».
«Shannon?»,
riconosco la voce. «Che cosa diavolo stai
blaterando?». Metto il vivavoce in
modo che anche Rain e Frances, che si stringono attorno al telefono,
possano
sentire.
Lo
sento sospirare. «Per favore, per
favore»,
abbassa la voce, «potete venire qui?»
«Quando?»
«Adesso.
E con delle ciambelle».
«Ciambelle?».
Sono sempre più confusa.
«Devono
far placare l’ira di Jared».
«Perché
Jared è arrabbiato?»
Sento
il suo respiro che si strozza, come se da un momento
all’altro stesse per
scoppiare a ridere (o morire, ma l’opzione rantolo di morte
la escludo visto
che fino a un secondo fa mi stava parlando in modo abbastanza lucido)
«È
arrabbiato con me».
«Shannon,
che hai combinato?», chiede Frances.
«Gli
ho fatto notare che aveva un capello bianco. Aveva un capello bianco,
gliel’ho
detto e lui si è messo ad urlare come un ossesso dicendomi
che era impossibile,
che lui non è
vecchio».
«Dov’è
adesso?». Modulo la frase cercando di trattenere una risata.
Credo di essere
rossa in faccia per lo sforzo.
«In
camera sua. Immagino sia davanti allo specchio a controllarsi capello
per
capello, ho provato a bussare ma non risponde, e a Tomo ha detto di
andarsene
al diavolo, lui possessore di un così bel colore di
capelli».
«Arriviamo
tra massimo mezz’ora con le ciambelle», dico, e
attacco senza aspettare una
risposta perché non ce la faccio più: scoppio a
ridere così tanto che dopo
alcuni minuti comincia a farmi male la pancia, seguita a ruota da
Francis e
Rain. Quando finalmente riusciamo a calmarci, a smettere di lacrimare e
emettere strani rumori da trichechi in soffocamento, mi alzo dal letto.
«Che la
missione Benjamin Button abbia inizio: destinazione Il Mondo della
ciambella».
Rain
allunga una mano e bussa alla porta. «Il primo capello bianco
di Jared: mi
sento quasi onorata di
assistere
ad un tale avvenimento. Per quanto possiamo andare avanti a sfotterlo,
secondo
voi?»
«Basta
per tutta una vita», ridacchia Francis.
Tomo
apre la porta e con una mano, da bravo gentiluomo, prende il vassoio
con le
ciambelle che reggevo io. «Grazie al cielo. Non potete
capire, sembra sia
scoppiata la terza guerra mondiale qui dentro. Avete presente quando
due stati
sono alleati, ma poi inizia la guerra e uno va contro l’altro
lo stesso? Ecco. Qui
c’è una faida tra fratelli e io non so come
risolverla».
«Non
sono ancora ricorsi alle armi, vero?», mi accerto. Quel
discorso sulla guerra
mi ha fatto un po’ preoccupare.
«Per
ora c’è stata una specie di lotta con i cuscini,
finita con la rovinosa caduta
di Shannon sul divano, dato che li ginocchio non regge ancora bene
tutto il suo
peso», spiega lui.
«Dov’è
adesso?», chiede Rain guardandosi intorno.
«Sappiamo che la diva è chiusa in
camera e non fa entrare nessuno».
Tomo
scuote la testa. «Nemmeno me, ci credete? Comunque Shannon
è seduto fuori
camera di lui, non so bene a fare cosa. L’ultima volta che ho
controllato stava
sbattendo la testa contro il muro chiedendosi che cosa avesse fatto di
male a
meritarsi un fratello del genere».
Guardo
le mie amiche, prendo possesso di nuovo delle ciambelle e a passo
spedito
comincio a salire le scale. Troviamo Shannon che al nostro arrivo si
illumina. Fa
per parlare ma lo zittisco, poi busso
alla porta di Jared. «Jared, sono Deborah, mi puoi per favore
aprire? Ho una
sorpresa per te. Abbiamo una sorpresa per te, con me ci sono anche Rain
e
Francis». Ci provo: se è un bambino bisogna
trattarlo come tale e come fare se
non ricattarlo con un regalo?
Niente,
nessuna risposta. Ci riprovo. «Stai veramente lasciando
queste povere ciambelle
finire nella pancia del tuo perfido fratello? Perché
è la fine che faranno se
non aprirai questa dannata porta». Tratteniamo il respiro
mentre i secondi
passano, ed è proprio quando sto per cedere la parola a una
delle mie amiche
che si sentono dei rumori provenire dal’interno della stanza:
un tonfo, un
lamento, una sedia trascinata. Poi si sente la serratura della porta
schioccare
e Jared mette fuori la testa.
«Ciao
Jared, come stai?», chiede Rain, prudente.
Lui
ci squadra. Si sta chiedendo se si può fidare di noi, si sta
chiedendo da che
parte stiamo. Da che parte stiamo? Non lo so nemmeno io, in questo
momento. Certo,
stiamo facendo questa assurda scenetta per Shannon, ma posso capire il
dramma
di Jared: il primo capello bianco è la porta al primo
pannolone, al primo dente
caduto, alle prime rughe intono agli occhi… rabbrividisco.
Povera piccola diva.
«È la verità, vero?», chiede
lui, un tono che si contiene ma che ha tutto del
lamentoso.
«Che
cosa?», domanda Francis cauta.
«Ho
i capelli bianchi».
«Shannon
ha detto che ne avevi solo uno, non facciamo di tutta l’erba
un fascio», dico
io.
Errore.
Mi fissa, gli occhi più o meno iniettati di sangue.
«È Shannon che vi ha mandato
qui? Dite pure a quel nano malefico che io con lui non ci
parlo».
Sbuffo,
spazientita. «Siete due bambini. Tieni, queste sono ciambelle
per te, mangiale,
ingrassa come tutti i comuni mortali e poi esci da quella maledetta
stanza. Quando
ti sarai deciso a fare l’uomo – ebbene
sì, Jared, hai quarantadue anni, ti
avvicini ai quarantatre, è una cosa normale, è
una cosa che si chiama vita –
noi saremmo giù in cucina ad aspettarti con un sorriso
rassicurandoti che sei
ancora un figo da paura, anche se un capello bianco ha osato spuntarti
in testa»,
dico tutto d’un fiato, concludendo la scenetta ficcandogli la
scatola di
ciambelle in mano e voltandomi per scendere le scale.
«Aspettate!»,
esclama, costringendoci a voltarci. «Quindi pensate ancora
che io sia molto
bello?», domanda lui.
Alzo
gli occhi al cielo. Da quando ha bisogno di una dose di autostima?
«Bellissimo»,
confermo.
«Anche
se sto invecchiando e potrei avere i capelli bianchi molto
presto», appare
dubbioso.
«Esistono
le tinte per capelli. Guarda Deborah, ce li ha fucsia, io ce li ho
rossi,
Francis biondo platino. Siamo tutte tinte, puoi farle anche tu, in caso
ti
servisse», lo rassicura Rain.
«Jared»,
dice Francis, faccendoni voltare tutti dalla sua parte. «Lo
so che questo è un
duro colpo per te – dopo aver interpretato Rayon poi, sei
diventato una specie
di checca isterica, devi ammetterlo, quella donna ti ha un
po’ divorato il
cervello, in senso buono, io la amo – ma se ti rassicura, e
parlo a nome di
loro due», indica me e Rain, «e di tutte le echelon
del mondo, ho ancora voglia
di scoparti sopra ogni superficie piana e non di questa casa».
Jared
sfoggia un sorriso luminoso. «Ogni superficie?».
«Ogni
superficie», rispondiamo in coro.
Lui
scoppia in una risata cristallina e comincia a scartare le ciambelle,
per poi
bloccarsi quando sente la voce di Shannon dire: «Quindi sono
perdonato?»
Lo
fissa per qualche istante e poi mette su un sorrisino. «Tu
sei più vecchio di
me».
«Quale
scoperta».
«Quindi
i capelli bianchi ce li avrai presto anche tu e io sarò
così gentile da fartelo
notare ogni giorno fino a che non te li strapperai uno a
uno», dice, il tono
che sembra una minaccia.
Shannon
alza le mani in segno di resa. «Come vuoi fratello. Ora dammi
una ciambella».
«Deborah
ha detto che sono per me».
«Sii
generoso».
«Sono
una egoista bastardo, ricordi?»
«Una
sola, quella più piccola e con meno glassa», dice
Shannon, il tono lamentoso e
il labbro inferiore che quasi sporge.
Non
ce la posso fare, davvero. Guardo Rain e Francis e le trovo allibite
quanto me.
«Cari miei, voi avete qualche serio problema. In questo
momento provo molta
pena per Tomo, colui che si merita quelle ciambelle per riuscire a
sopportarvi
tutti i santi giorni», dice la bionda, strappando la scatola
con i dolciumi
dalle mani di Jared e correndo giù dalle scale a suon di
«Tomo, Tomo dove sei?»
«Le
mie ciambelle», esala Jared, le braccia ancora in avanti, il
peso del furto
appena subito stampato in faccia. Si volta verso il fratello, la cui
espressione è specchio della sua.
«Vi
ha appena risparmiato di diventare grassi, oltre che vecchio, dovreste
esserne
felici», ridacchia Rain dandogli dei colpetti sulla spalla.
Rido anche io e
scendo le scale per addentare una meritata parte di paradiso con la
glassa al cioccolato
sopra, ma, quando siamo a metà della prima rampa, capiamo
che dobbiamo darcela
a gambe prima di essere uccise, perché sentiamo urlare
«Io non sono vecchio!» e
rabbrividisco, perché ad urlarlo non è stato solo
Jared, ma anche Shannon.
Vedo
Tomo davanti a me, la focaccina sospesa a mezz’aria e il
terrore in volto. «Avete
appena creato un arma di distruzione di massa, due fratelli uniti nello
stesso
fronte».
«To the left, to the
right…», canticchia con
la voce malferma Francis.
Tomo annuisce. «This
is war. E ora come
ora non so chi ne uscirà vivo».
Non ho mai
scritto una cosa più
demenziale di questa in vita mia, me per qualche strana ragione la
pazzia e la
ilarità si sono prese possesso di me da sabato mattino.
Sospetto a causa delle
due verifiche di matematica che dovrò affrontare la
settimana prossima e la
simulazione di terza prova che incombe su di me in meno di un mese. E
poi, sul
serio, quanti premi sta vincendo Jared? Io non sapevo nemmeno
esistessero tutti
quei premi prima che lui li vincesse tutti. Sto passando le notte
sveglie per
guardarmi in streaming red carpet di tutti i tipi, e ho più
occhiaie io di un
morto, ma ne vale la pena.
Ah, ho voluto
inserire Rayon in questo
capitolo perché, come spero abbiate capito, la storia
è ambientata nel futuro,
nell’estate 2014, più o meno ad agosto.
Probabilmente non si saranno ancora
fermati con il tour, ma quando ho iniziato a scrivere questa storia
pensavo l’avessero
finito da un pezzo, e invece continuano a inserire nuove date. Essendo
che
Dallas Buyers Club è già uscito – dieci
esatti giorni da oggi e lo vedrò al
cinema, non sto più nella pelle – mi sembrava
carino inserirlo nel capitolo per
sostenere la mia tesi che Jared non è altro che una diva.
Non che in realtà ce
ne sia bisogno.
Detto questo,
grazie a tutte quelle che
leggono, recensiscono, preferiscono, mi mandano messaggi eccetera,
siete
adorabili. Un abbraccio, Deb.