A Mitchie
Presentimento.
Paura [pa-ù-ra] s.f.
1. Sensazione che si prova in presenza o al pensiero di un pericolo vero o immaginato
2. (estens.) Timore, preoccupazione; presentimento
Non saprei dire se quella che provo io è una paura reale o un presentimento.
Sento che succederà qualcosa di brutto, ma non so cosa.
Non sono in pericolo, o almeno, non sembra.
So di essere tenuta prigioniera, so che qualcuno mi controlla, ma non mi è mai stato fatto del male.
La mia non è una paura fondata, è solo un presentimento.
Colpo grosso.
Questa mattina ho sentito Marvin parlare con qualcuno.
«Oggi si fa il colpo grosso.» ha detto.
Nessuno ha risposto.
Nessuno, ad eccezione di sua madre, che è scoppiata in lacrime.
Non so cosa sia questo "colpo grosso", ma credo sia qualcosa di non poco pericoloso.
Ho paura per Marvin e per sua madre.
Loro mi hanno aiutata, non voglio che finiscano nei guai, o peggio, ma non posso fare niente per aiutarli.
Un piano.
«La liberiamo e fuggiamo. Facile, no?»
Marvin.
«Sarebbe facile, se questo posto non fosse pieno di Bianchi.»
Un ragazzo, una voce che non conosco.
«Per questo attenderemo il tramonto, quando si ritirano per i loro... riti.»
Sento una punta di disprezzo nel suo tono quando pronuncia quell'ultima parola.
Di cosa sta parlando? Chi sono questi "Bianchi"?
Le persone che mi tengono prigioniera, suppongo.
«Ragiona, Marvin. Secondo te perché la tengono in una cella lontana dalla nostra? Ci saranno delle guardie davanti alla sua porta anche durante i riti.»
Di nuovo il ragazzo di prima. Sembra teso, ma anche arrabbiato.
«Non ci sono. Sono stato da lei un paio di volte.»
Quindi è di me che stanno parlando.
«E se lo avessero fatto apposta?»
«Senti, Max, se non vuoi venire dillo. Andremo io e Chris.»
«Non è questo il punto. Il fatto è che non capisco perché hai aspettato lei per decidere di fuggire.»
«L'hai detto tu, no? È diversa.»
Fallimento.
Da quell'ultima frase, le voci si sono interrotte.
Sono passate ore senza che le sentissi, ma adesso sono tornate.
Sono bisbigli, nient'altro che bisbigli. Pezzi di frasi, frammenti di conversazioni e niente di più.
«È ora.», «Fai attenzione.», «Ti voglio bene.»
Sembra quasi che si stiano preparando per una missione suicida.
Veloci come sono arrivate, le voci scompaiono, e nel buio della cella cala il silenzio più assoluto.
Inizio a tamburellare con le dita sul macchinario vicino al letto, tenendo il conto come se fossero secondi.
Sono arrivata a 1434 quando qualcuno apre violentemente la porta della mia cella.
Marvin, penso, ma subito mi rendo conto che non può essere lui.
È una donna.
Mi afferra per un braccio e mi trascina nel corridoio, incurante del dolore che le sue dita provocano a contatto con la mia pelle.
Cerco di divincolarmi, di scappare, ma la sua presa è troppo forte.
Arriviamo davanti ad un'altra cella e, in qualche secondo, mi ci ritrovo dentro.
Questa volta, però, non sono sola.
Marvin, sua madre e altri tre ragazzi sono lì, i polsi incatenati alle pareti, qualcuno sporco di sangue, altri privi di sensi.
«Att-Attenta.» sussurra Marvin con voce flebile.
Non faccio in tempo a capire a cosa si riferisca che qualcosa mi colpisce, e io mi ritrovo a terra.
In qualche istante, il buio torna a farmi visita.