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Autore: Rinalamisteriosa    20/01/2014    1 recensioni
[La famiglia italiana]
- Minilong AU | Presenza di Fem!Nord Italia | Accennini SeboMona -
“Davvero? Possiamo sapere come mai?” domandò perplessa Flavia, guardandola confusa.
Romano invece sgranò gli occhi, certo di aver capito male. Niente lavoro per lui… Possibile?
Assunta annuì. “Avrete tutta la mattina per prepararvi: alle undici in punto dovrete essere all'aeroporto di Roma Ciampino. Mentre dormivate, ha telefonato Giulio e ha chiesto espressamente che andiate ad accogliere vostro cugino Diego. È tutto chiaro?” s’interruppe, per accertarsi che la notizia fosse stata recepita a dovere dai figli.
Assistette a due reazioni completamente opposte.

(...)
“Non potrei desiderare di meglio. In famiglia siamo delle brave persone e ci vogliamo tanto bene!”.
“Tu la metti sempre su un piano troppo sdolcinato per i miei gusti”

**Dedicata a SunliteGirl**
Genere: Commedia, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Antica Roma, Nord Italia/Feliciano Vargas, Principato di Seborga, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
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Capitolo IV

 

 

 

 

 

Era snervante badare a quei due.

La sua limitata pazienza traboccava da un vaso già colmo, poiché non bastava il casino totale che occupava la sua mente di ipotesi, sospetti, impressioni e sensazioni, no, ci si mettevano pure loro.

La spensieratezza innata di Flavia, così amichevole con chiunque, non era affatto d’aiuto, lo faceva sentire ancora più incompreso.

E Diego, con sfacciata disinvoltura, gli aveva fatto presente che la prima impressione contava molto e che tenere il muso come lui avrebbe allontanato le fanciulle più timide.

Possibile che non sapesse pensare ad altro che alle donne?!

“Ma che me ne frega, ho altro per la testa!” si sfogò, la giacca sottobraccio e i pugni ficcati nelle tasche dei pantaloni chiari. “E non credere che non ci sappia fare con loro: le clienti del negozio in cui lavoro non si sono mai lamentate del mio comportamento”.

Detto questo, avevano proseguito in strade tutto sommato meno affollate rispetto ad altri periodi stagionali in cui l’afflusso spropositato dei turisti impediva di camminare liberamente. Non c’era rischio di urtare i passanti sul marciapiede e questo lo consolava in parte. Dovevano solamente prestare attenzione, attraversando da un lato all’altro, alle automobili, ai motorini e alle biciclette che avanzavano nella carreggiata.

Non mancavano però quelli che chiedevano informazioni spontaneamente, o che venivano fermati dalla dolce Flavia, perché lei, vedendoli in difficoltà nel consultare mappe pieghevoli, si fermava per indicare con le dita e gesticolando allegra la via giusta per non perdersi.

Inoltre, per quattro volte in quindici, venti minuti, qualche negozio aveva attirato la loro attenzione, obbligando Romano a tornare sui suoi passi. L’ultimo era pieno di souvenir.

“Insomma, cosa avete visto di interessante adesso?” chiese, guardando esasperato verso l’interno dell’ordinaria esposizione di oggetti fatti a mano, che ricordavano la bella città.

“Diego potrebbe comprare qualcosa per sua madre. Aspettaci qui, per favore!” lo pregò, trascinando dentro il cugino senza aspettare la replica disinteressata del fratellone.

E sfortunatamente l’emicrania di Romano saliva: si portò tre dita sulla fronte e strizzò gli occhi.

Cosa diavolo aveva fatto di male?

Erano state forse le divergenze con Assunta ad averlo condotto a quello? Per caso lei aveva pensato sadicamente di fargli scontare tutto in una sola giornata, che tra l’altro si prospettava ancora lunga e noiosa?

E lo zio? A che gioco stava giocando? Perché doveva essere così… dannatamente stravagante e imprevedibile? Perché cavolo non era atterrato insieme a suo figlio, invece di costringerli a cercarlo per Roma?

E se spendevano tutti i soldi che si erano portati dietro, come avrebbero fatto in serata, per il ritorno a casa?

 

 

Flavia uscì dal negozio ben assortito soddisfatta e felice di aver aiutato Diego a scegliere un regalo che sarebbe sicuramente piaciuto alla zia.

Era una sfera di vetro piena d’acqua e appoggiata sopra il gesso, con un Colosseo in miniatura circondato da questa bolla trasparente.

Era molto semplice, ma in genere i souvenir facevano sempre piacere a chi li riceveva.

Era un modo per dire “sai, l’ho comprato pensando a te” e nessuno aveva cuore di rifiutare un tale simbolo di considerazione.

“Scusa, fratellone, dove siamo diretti esattamente?” s’informò, dal momento che non ne avevano ancora parlato. Diego ripose con cautela il pacchetto infiocchettato nello zaino, per poi appoggiarlo su una spalla sola e fare l’occhiolino a una passante.

“Questa è Via Francesco Crispi. Se non facciamo più soste, possiamo proseguire in Via Sistina fino ad arrivare alla Scalinata di Trinità dei Monti”, le spiegò, sospirando quando lei aveva finalmente intuito le intenzioni del fratello con un “Aaaah, sì!” riferito battendo le mani, lieta di esserci arrivata. “Lui vuole passare da Piazza di Spagna, dove vedremo un’altra fontana…” informò il cugino senza giri di parole.

 

 

*

 

 

[Sarà un cielo chiaro.

S’apriranno le strade

sul colle di pini e di pietra.

Il tumulto delle strade

non muterà quell’aria ferma.

I fiori spruzzati

di colori alle fontane

occhieggeranno come donne

divertite. Le scale

le terrazze le rondini

canteranno nel sole.

S’aprirà quella strada,

le pietre canteranno,

il cuore batterà sussultando

come l’acqua nelle fontane –

sarà questa la voce

che salirà le tue scale.

Le finestre sapranno

l’odore della pietra e dell’aria

mattutina. S’aprirà una porta.

Il tumulto delle strade

sarà il tumulto del cuore

nella luce smarrita.

 

Sarai tu – ferma e chiara.]

 

 

 

Scendere dai gradini della monumentale scalinata significava ripescare ricordi d’infanzia che credeva ormai lontani e irraggiungibili. Due frammenti vaghi, per l’esattezza.

Si rivedeva come un bambino scapestrato, che strappava qualche fiore – tanto ce n’erano tantissimi – fino a formare un mazzolino colorato, raggiungere saltellando una bambina dolcissima e lasciandolo nelle sue piccole mani. Ovviamente si trattava della sorellina, che ricambiava il gesto fraterno scoccandogli un bacino sulla guancia morbida quando lui ormai aveva distolto lo sguardo altrove. Allora lui sgranava gli occhi perché non se l’aspettava e subito borbottava su quanto gli facessero schifo quelle cose, però poi non riusciva a evitare di arrossire.

Nel secondo ricordo era un po’ più grandicello, sedeva nella pittoresca piazza che stavano per raggiungere e stavolta accanto a lui non c’era Flavia. Aveva seguito sua madre e lui si annoiava a morte: a pochi metri di distanza lo zio stava conversando con un esimio collega, mentre Romano si era ritrovato vicino a un ragazzo alto e curioso. Anche se non si conoscevano e non parlavano nemmeno la stessa lingua, gli aveva offerto spontaneamente un cono gelato e aveva insistito, senza mai perdere quell’ebete e incoraggiante sorriso, affinché lo accettasse.

Solo qualche anno dopo aveva intuito di che nazionalità fosse, ma tanto non l’avrebbe più incontrato, perché probabilmente era stato a Roma solo di passaggio.

Lui sbuffò senza rendersene conto, richiamando l’attenzione di Flavia, intenta a illustrare in modo chiaro ed elementare l’architettura del circondario lungo il ripido pendio.

“A cosa pensi?” domandò, fermandosi a metà strada, ma Romano non le avrebbe detto nulla, tanto che importava?

Si era trattato di un incontro casuale che non capiterà mai più. Era sua abitudine tenere il broncio anche allora, quindi di sicuro quello spagnolo aveva ritenuto un passatempo cercare di farlo sorridere, addolcendolo con la fresca bontà di un gelato al pistacchio.

Avvertì all’improvviso un gorgoglio nello stomaco e si stupì: possibile che ricordare certe cose gli avesse messo appetito?

“Penso di avere fame…” si giustificò, e lei ci credette.

“Anch’io!” si aggiunse il cugino annuendo. “Vediamo di scendere, mostratemi ciò che volete e poi andiamo subito in un ristorante. Ce ne saranno nelle vicinanze, no?” propose.

“Che bello, mangeremo pasta fino a scoppiare e una volta sazi riprenderemo la nostra ricerca!” affermò Flavia illuminandosi per la contentezza e scendendo i gradini a due a due, mentre entrambi la seguivano con relativa calma, persino Romano si sentiva più leggero all’idea di un buon pranzo, seduti all’ombra di un locale accogliente.

 

 

“Ha una forma strana… Cosa rappresenta?” commentò perplesso Diego, girando intorno alla vasca ovale.

“In effetti è particolare, veh. So che per alcuni si trattava del relitto di una barca trascinato dal Tevere in piena, ma secondo la versione più accreditata il Bernini si era ispirato proprio alla ‘barcaccia’, un tipo di imbarcazione in uso nell’Antica Roma per trasportare botti di vino”.

“Diciamo che è semplicemente una barca semisommersa e facciamo prima”, si limitò a dire Romano, fissando uno dei due soli con volto umano, ideato per gettare l’acqua in conche che raggiungevano l’interno della piccola imbarcazione. “Questi fori circolari invece sembrano bocche di cannone”, continuò assottigliando lo sguardo e indicandone due a Diego.

“Forte! Ora che ho capito, credo sia degna di essere immortalata in una foto, proprio come quella di Trevi!” dichiarò quest’ultimo in tono lievemente solenne, inginocchiandosi per ripescare la macchina fotografica.

“Se ci pensavi prima, potevi farne una anche al bellissimo panorama che si vedeva in cima alla scalinata”, gli suggerì candidamente Flavia a discapito della ritrovata tranquillità del fratello, che guardò male entrambi.

“Certo che siete proprio fissati… Se volete stancarvi non coinvolgetemi, perché io 135 gradini in salita non li faccio manco morto!” brontolò, voltandosi e tirando un calcio verso una delle tante colombe che talvolta zampettavano in cerca di briciole. Non la prese, ma la osservò mentre volava fino al lato opposto, dove c’erano altri suoi simili.

E quell’istintiva diffidenza verso la gente un po’ la capiva, in un certo senso.

 

 

 

 

 

Dopo aver occupato un tavolo rustico, piccolo e già apparecchiato per quattro persone, lei fece scivolare la borsa dal braccio alla sedia vuota e si appropriò del menù, dando un’occhiata a tutte le portate e le specialità del ristorante romano. Prima di prenderlo però si era sfilata la giacca e l’aveva sistemata sullo schienale, coprendolo, e lo stesso aveva fatto anche il fratello. Il cugino no, dal momento che lui indossava una maglia verde a maniche lunghe sopra una camicia grigia. Fremeva all’idea di essere servito dalla cameriera che aveva adocchiato all’entrata del locale in cui si erano potuti fermare – gli altri lungo la strada erano pieni di prenotazioni.

“Avete deciso? Possiamo ordinare?” incalzò.

Romano levò gli occhi dal suo orologio e fece un cenno con la testa verso Flavia.

“Sta leggendo, non vedi?”.

Forse avrebbe dovuto informarla che mancavano dieci minuti alle due del pomeriggio e che quindi prima ordinavano, prima potevano riempirsi lo stomaco, pagare il conto e riprendere il giro, ma l’idea di indispettire il cuginetto lo allettava.

“Flavia? Hai finito?” s’interessò Diego, richiamandola da quello che per lei costituiva un momento sacro: quando si trattava di pasta, infatti, lei era intransigente e non ammetteva di mangiare la stessa ricetta che aveva già gustato durante la settimana. Romano sapeva in anticipo che amava variare, che stava ragionando e perciò non si sorprese più di tanto. E per una volta che potevano mangiare fuori dalla loro cucina, era anche un bisogno logico.

“Ci sono quasi…” rispose in un sussurro la ragazza. E senza che l’altro potesse anticiparla facendo venire chi diceva lui, Flavia sorrise, si alzò portando con sé il menù e richiedendo il servizio di un giovane cameriere che stava passando in quel momento.

L’espressione contrariata di Diego era impagabile, pensò lui con quello che voleva sembrasse un ghigno vittorioso.

Per una volta gli era andata male.

Lei tornò a sedersi e fu la prima a dettare tranquillamente le sue precise ordinazioni, riguardo al primo piatto e al secondo, che vennero appuntate in un semplice taccuino. Poi parlò Romano e infine Diego.

“Da bere?” s’informò l’uomo in divisa, dopo aver segnato tutto rapidamente.

“Solo acqua naturale, loro non possono bere”, tagliò corto il più grande.

“Ma fratellone, io veramente…” stava per replicare che lei non era più minorenne come Diego e che in realtà poteva benissimo decidere se bere un goccetto o meno, però Romano negò categoricamente, facendole capire con lo sguardo di stare zitta.

“Bene… Gradite qualche antipasto?”.

Romano prese il menù e gli mostrò le bruschette miste sulla prima pagina. “Queste”.

“Allora, ricapitolando…” riassunse il cordiale cameriere, assolvendo uno dei compiti per il quale veniva pagato, “Acqua naturale, bruschette miste, un piatto di penne all’arrabbiata, due piatti di tagliatelle con gamberetti e panna, un’insalata di mare e una bistecca alla fiorentina”.

Quando ebbero riconfermato tutto, si allontanò spedito verso le cucine.

“Grazie mille!” affermò gioiosamente Flavia, che già immaginava il piatto fumante davanti a sé, per poi rivolgersi alla sua destra.

“Sai che la pasta ha origini etrusche? Ma non era certo variegata come quella che si prepara e si mangia ai giorni nostri, no, no”.

“Dubito che al momento gli interessi”, intervenne Romano dispiegando il tovagliolo di stoffa.

“Eh? Davvero?”.

“No, non ascoltarlo, cara cugina”, la rassicurò, facendosi indietro con la sedia. “O forse Romi ha capito che avevo intenzione di andare un attimo alla toilette. Torno subito, così potrai continuare”.

“Sì, certo, adesso sono diventato un veggente…” considerò con blanda ironia, mentre l’altro si allontanava senza averlo sentito.

“Hai detto qualcosa?” chiese Flavia, confusa dal comportamento strano di entrambi.

Sospirò.

“Niente, parlavo tra me. Guarda, ci stanno portando la brocca dell’acqua, vuol dire che presto arriveranno le mie bruschette al pomodoro”, le rispose spiccio, infatti si stava avvicinando lo stesso cameriere di prima.

Gli antipasti vennero serviti loro in contemporanea al ritorno di Diego a tavola.

 

 

Continua…

 

 

 

 

 

***

Note: Ecco che pubblico anche il quarto capitolo. Siamo ormai a metà storia, poi per vostra gioia (?) cambierò ambientazione e personaggi xD

Qui vi rimando alla pagina di Wikipedia che parla di Piazza di Spagna e qui per la Fontana della Barcaccia di Pietro Bernini, padre del più celebre Gian Lorenzo Bernini.

Mi sono fatta ispirare soltanto dalle informazioni che mi interessavano, come avevo fatto per lo scorso capitolo.

La poesia tra parentesi è “Passerò per Piazza di Spagna” di Cesare Pavese, che è stata persino riportata integralmente in una targa vicino alla sala da tè Babington’s. Rende sicuramente meglio di me l’atmosfera senza tempo che si respira attraversando quei luoghi incantevoli… aww ** quanto vorrei tornare a Roma!

Era d’obbligo inserire un riferimento piccolino al caro Antonio, più avanti si scoprirà che… no, vero, non posso svelare nulla x’D mi spiace.

Comunque se c’è qualcosa che non va, non fatevi problemi a dirlo: essendo uscita da una specie di blocco dello scrittore durato due anni, so di averne risentito nello stile e di non essere perfetta ^^’

Ringrazio di cuore chi legge, chi segue, chi commenta e vi do appuntamento alla prossima! ^_^

 

Baci,

Rina

 

 

 

 

 

  
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