Capitolo
IV
Era
snervante badare a quei due.
La
sua limitata pazienza traboccava da un vaso già colmo, poiché non bastava il
casino totale che occupava la sua mente di ipotesi, sospetti, impressioni e
sensazioni, no, ci si mettevano pure loro.
La
spensieratezza innata di Flavia, così amichevole con chiunque, non era affatto
d’aiuto, lo faceva sentire ancora più incompreso.
E
Diego, con sfacciata disinvoltura, gli aveva fatto presente che la prima
impressione contava molto e che tenere il muso come lui avrebbe allontanato le
fanciulle più timide.
Possibile
che non sapesse pensare ad altro che alle donne?!
“Ma
che me ne frega, ho altro per la testa!” si sfogò, la giacca sottobraccio e i
pugni ficcati nelle tasche dei pantaloni chiari. “E non credere che non ci
sappia fare con loro: le clienti del negozio in cui lavoro non si sono mai
lamentate del mio comportamento”.
Detto
questo, avevano proseguito in strade tutto sommato meno affollate rispetto ad
altri periodi stagionali in cui l’afflusso spropositato dei turisti impediva di
camminare liberamente. Non c’era rischio di urtare i passanti sul marciapiede e
questo lo consolava in parte. Dovevano solamente prestare attenzione,
attraversando da un lato all’altro, alle automobili, ai motorini e alle
biciclette che avanzavano nella carreggiata.
Non
mancavano però quelli che chiedevano informazioni spontaneamente, o che venivano
fermati dalla dolce Flavia, perché lei, vedendoli in difficoltà nel consultare
mappe pieghevoli, si fermava per indicare con le dita e gesticolando allegra la
via giusta per non perdersi.
Inoltre,
per quattro volte in quindici, venti minuti, qualche negozio aveva attirato la
loro attenzione, obbligando Romano a tornare sui suoi passi. L’ultimo era pieno
di souvenir.
“Insomma,
cosa avete visto di interessante adesso?” chiese, guardando esasperato verso
l’interno dell’ordinaria esposizione di oggetti fatti a mano, che ricordavano la
bella città.
“Diego
potrebbe comprare qualcosa per sua madre. Aspettaci qui, per favore!” lo pregò,
trascinando dentro il cugino senza aspettare la replica disinteressata del
fratellone.
E
sfortunatamente l’emicrania di Romano saliva: si portò tre dita sulla fronte e
strizzò gli occhi.
Cosa
diavolo aveva fatto di male?
Erano
state forse le divergenze con Assunta ad averlo condotto a quello? Per caso lei
aveva pensato sadicamente di fargli scontare tutto in una sola giornata, che tra
l’altro si prospettava ancora lunga e noiosa?
E
lo zio? A che gioco stava giocando? Perché doveva essere così… dannatamente
stravagante e imprevedibile? Perché cavolo non era atterrato insieme a suo
figlio, invece di costringerli a cercarlo per Roma?
E
se spendevano tutti i soldi che si erano portati dietro, come avrebbero fatto in
serata, per il ritorno a casa?
Flavia
uscì dal negozio ben assortito soddisfatta e felice di aver aiutato Diego a
scegliere un regalo che sarebbe sicuramente piaciuto alla
zia.
Era
una sfera di vetro piena d’acqua e appoggiata sopra il gesso, con un Colosseo in
miniatura circondato da questa bolla trasparente.
Era
molto semplice, ma in genere i souvenir facevano sempre piacere a chi li
riceveva.
Era
un modo per dire “sai, l’ho comprato
pensando a te” e nessuno aveva cuore di rifiutare un tale simbolo di
considerazione.
“Scusa,
fratellone, dove siamo diretti esattamente?” s’informò, dal momento che non ne
avevano ancora parlato. Diego ripose con cautela il pacchetto infiocchettato
nello zaino, per poi appoggiarlo su una spalla sola e fare l’occhiolino a una
passante.
“Questa
è Via Francesco Crispi. Se non facciamo più soste, possiamo proseguire in Via
Sistina fino ad arrivare alla Scalinata di Trinità dei Monti”, le spiegò,
sospirando quando lei aveva finalmente intuito le intenzioni del fratello con un
“Aaaah, sì!” riferito battendo le
mani, lieta di esserci arrivata. “Lui vuole passare da Piazza di Spagna, dove
vedremo un’altra fontana…” informò il cugino senza giri di
parole.
*
[Sarà
un cielo chiaro.
S’apriranno
le strade
sul
colle di pini e di pietra.
Il
tumulto delle strade
non
muterà quell’aria ferma.
I
fiori spruzzati
di
colori alle fontane
occhieggeranno
come donne
divertite.
Le scale
le
terrazze le rondini
canteranno
nel sole.
S’aprirà
quella strada,
le
pietre canteranno,
il
cuore batterà sussultando
come
l’acqua nelle fontane –
sarà
questa la voce
che
salirà le tue scale.
Le
finestre sapranno
l’odore
della pietra e dell’aria
mattutina.
S’aprirà una porta.
Il
tumulto delle strade
sarà
il tumulto del cuore
nella
luce smarrita.
Sarai
tu – ferma e chiara.]
Scendere
dai gradini della monumentale scalinata significava ripescare ricordi d’infanzia
che credeva ormai lontani e irraggiungibili. Due frammenti vaghi, per
l’esattezza.
Si
rivedeva come un bambino scapestrato, che strappava qualche fiore – tanto ce n’erano tantissimi – fino a
formare un mazzolino colorato, raggiungere saltellando una bambina dolcissima e
lasciandolo nelle sue piccole mani. Ovviamente si trattava della sorellina, che
ricambiava il gesto fraterno scoccandogli un bacino sulla guancia morbida quando
lui ormai aveva distolto lo sguardo altrove. Allora lui sgranava gli occhi
perché non se l’aspettava e subito borbottava su quanto gli facessero schifo
quelle cose, però poi non riusciva a evitare di arrossire.
Nel
secondo ricordo era un po’ più grandicello, sedeva nella pittoresca piazza che
stavano per raggiungere e stavolta accanto a lui non c’era Flavia. Aveva seguito
sua madre e lui si annoiava a morte: a pochi metri di distanza lo zio stava
conversando con un esimio collega, mentre Romano si era ritrovato vicino a un
ragazzo alto e curioso. Anche se non si conoscevano e non parlavano nemmeno la
stessa lingua, gli aveva offerto spontaneamente un cono gelato e aveva
insistito, senza mai perdere quell’ebete e incoraggiante sorriso, affinché lo
accettasse.
Solo
qualche anno dopo aveva intuito di che nazionalità fosse, ma tanto non l’avrebbe
più incontrato, perché probabilmente era stato a Roma solo di
passaggio.
Lui
sbuffò senza rendersene conto, richiamando l’attenzione di Flavia, intenta a
illustrare in modo chiaro ed elementare l’architettura del circondario lungo il
ripido pendio.
“A
cosa pensi?” domandò, fermandosi a metà strada, ma Romano non le avrebbe detto
nulla, tanto che importava?
Si
era trattato di un incontro casuale che non capiterà mai più. Era sua abitudine
tenere il broncio anche allora, quindi di sicuro quello spagnolo aveva ritenuto
un passatempo cercare di farlo sorridere, addolcendolo con la fresca bontà di un
gelato al pistacchio.
Avvertì
all’improvviso un gorgoglio nello stomaco e si stupì: possibile che ricordare
certe cose gli avesse messo appetito?
“Penso
di avere fame…” si giustificò, e lei ci credette.
“Anch’io!”
si aggiunse il cugino annuendo. “Vediamo di scendere, mostratemi ciò che volete
e poi andiamo subito in un ristorante. Ce ne saranno nelle vicinanze, no?”
propose.
“Che
bello, mangeremo pasta fino a scoppiare e una volta sazi riprenderemo la nostra
ricerca!” affermò Flavia illuminandosi per la contentezza e scendendo i gradini
a due a due, mentre entrambi la seguivano con relativa calma, persino Romano si
sentiva più leggero all’idea di un buon pranzo, seduti all’ombra di un locale
accogliente.
“Ha
una forma strana… Cosa rappresenta?” commentò perplesso Diego, girando intorno
alla vasca ovale.
“In
effetti è particolare, veh. So che per alcuni si trattava del relitto di una
barca trascinato dal Tevere in piena, ma secondo la versione più accreditata il
Bernini si era ispirato proprio alla ‘barcaccia’, un tipo di imbarcazione in
uso nell’Antica Roma per trasportare botti di vino”.
“Diciamo
che è semplicemente una barca semisommersa e facciamo prima”, si limitò a dire
Romano, fissando uno dei due soli con volto umano, ideato per gettare l’acqua in
conche che raggiungevano l’interno della piccola imbarcazione. “Questi fori
circolari invece sembrano bocche di cannone”, continuò assottigliando lo sguardo
e indicandone due a Diego.
“Forte!
Ora che ho capito, credo sia degna di essere immortalata in una foto, proprio
come quella di Trevi!” dichiarò quest’ultimo in tono lievemente solenne,
inginocchiandosi per ripescare la macchina fotografica.
“Se
ci pensavi prima, potevi farne una anche al bellissimo panorama che si vedeva in
cima alla scalinata”, gli suggerì candidamente Flavia a discapito della
ritrovata tranquillità del fratello, che guardò male
entrambi.
“Certo
che siete proprio fissati… Se volete stancarvi non coinvolgetemi, perché io 135
gradini in salita non li faccio manco morto!” brontolò, voltandosi e tirando un
calcio verso una delle tante colombe che talvolta zampettavano in cerca di
briciole. Non la prese, ma la osservò mentre volava fino al lato opposto, dove
c’erano altri suoi simili.
E
quell’istintiva diffidenza verso la gente un po’ la capiva, in un certo
senso.
Dopo
aver occupato un tavolo rustico, piccolo e già apparecchiato per quattro
persone, lei fece scivolare la borsa dal braccio alla sedia vuota e si appropriò
del menù, dando un’occhiata a tutte le portate e le specialità del ristorante
romano. Prima di prenderlo però si era sfilata la giacca e l’aveva sistemata sullo schienale,
coprendolo, e lo stesso aveva fatto anche il fratello. Il cugino no, dal momento
che lui indossava una maglia verde a maniche lunghe sopra una camicia grigia.
Fremeva all’idea di essere servito dalla cameriera che aveva adocchiato
all’entrata del locale in cui si erano potuti fermare – gli altri lungo la
strada erano pieni di prenotazioni.
“Avete
deciso? Possiamo ordinare?” incalzò.
Romano
levò gli occhi dal suo orologio e fece un cenno con la testa verso
Flavia.
“Sta
leggendo, non vedi?”.
Forse
avrebbe dovuto informarla che mancavano dieci minuti alle due del pomeriggio e
che quindi prima ordinavano, prima potevano riempirsi lo stomaco, pagare il
conto e riprendere il giro, ma l’idea di indispettire il cuginetto lo
allettava.
“Flavia?
Hai finito?” s’interessò Diego, richiamandola da quello che per lei costituiva
un momento sacro: quando si trattava di pasta, infatti, lei era intransigente e
non ammetteva di mangiare la stessa ricetta che aveva già gustato durante la
settimana. Romano sapeva in anticipo che amava variare, che stava ragionando e
perciò non si sorprese più di tanto. E per una volta che potevano mangiare fuori
dalla loro cucina, era anche un bisogno logico.
“Ci
sono quasi…” rispose in un sussurro la ragazza. E senza che l’altro potesse
anticiparla facendo venire chi diceva lui, Flavia sorrise, si alzò portando con
sé il menù e richiedendo il servizio di un giovane cameriere che stava passando
in quel momento.
L’espressione
contrariata di Diego era impagabile, pensò lui con quello che voleva sembrasse
un ghigno vittorioso.
Per
una volta gli era andata male.
Lei
tornò a sedersi e fu la prima a dettare tranquillamente le sue precise
ordinazioni, riguardo al primo piatto e al secondo, che vennero appuntate in un
semplice taccuino. Poi parlò
Romano e infine Diego.
“Da
bere?” s’informò l’uomo in divisa, dopo aver segnato tutto
rapidamente.
“Solo
acqua naturale, loro non possono bere”, tagliò corto il più
grande.
“Ma
fratellone, io veramente…” stava per replicare che lei non era più minorenne
come Diego e che in realtà poteva benissimo decidere se bere un goccetto o meno,
però Romano negò categoricamente, facendole capire con lo sguardo di stare
zitta.
“Bene…
Gradite qualche antipasto?”.
Romano
prese il menù e gli mostrò le bruschette miste sulla prima
pagina. “Queste”.
“Allora,
ricapitolando…” riassunse il cordiale cameriere, assolvendo uno dei compiti per il
quale veniva pagato, “Acqua naturale, bruschette miste, un piatto di penne
all’arrabbiata, due piatti di tagliatelle con gamberetti e panna,
un’insalata di mare e una bistecca alla fiorentina”.
Quando
ebbero riconfermato tutto, si allontanò spedito verso le
cucine.
“Grazie
mille!” affermò gioiosamente Flavia, che già immaginava il piatto fumante
davanti a sé, per poi rivolgersi alla sua destra.
“Sai
che la pasta ha origini etrusche? Ma non era certo variegata come quella che si
prepara e si mangia ai giorni nostri, no, no”.
“Dubito
che al momento gli interessi”, intervenne Romano dispiegando il tovagliolo di
stoffa.
“Eh?
Davvero?”.
“No,
non ascoltarlo, cara cugina”, la rassicurò, facendosi indietro con la sedia. “O
forse Romi ha capito che avevo intenzione di andare un attimo alla toilette.
Torno subito, così potrai continuare”.
“Sì,
certo, adesso sono diventato un veggente…” considerò con blanda ironia, mentre
l’altro si allontanava senza averlo sentito.
“Hai
detto qualcosa?” chiese Flavia, confusa dal comportamento strano di
entrambi.
Sospirò.
“Niente,
parlavo tra me. Guarda, ci stanno portando la brocca dell’acqua, vuol dire che
presto arriveranno le mie bruschette al pomodoro”, le rispose spiccio, infatti
si stava avvicinando lo stesso cameriere di prima.
Gli
antipasti vennero serviti loro in contemporanea al ritorno di Diego a
tavola.
Continua…
***
Note: Ecco che
pubblico anche il quarto capitolo. Siamo ormai a metà storia, poi per vostra
gioia (?) cambierò ambientazione e personaggi xD
Qui vi rimando alla
pagina di Wikipedia che parla di Piazza di Spagna e qui per la
Fontana della Barcaccia di Pietro Bernini, padre del più celebre Gian Lorenzo
Bernini.
Mi sono fatta
ispirare soltanto dalle informazioni che mi interessavano, come avevo fatto per
lo scorso capitolo.
La poesia tra
parentesi è “Passerò per Piazza di Spagna” di Cesare Pavese, che è stata persino
riportata integralmente in una targa vicino alla sala da tè Babington’s. Rende
sicuramente meglio di me l’atmosfera senza tempo che si respira attraversando
quei luoghi incantevoli… aww ** quanto vorrei tornare a
Roma!
Era d’obbligo
inserire un riferimento piccolino al caro Antonio, più avanti si scoprirà che…
no, vero, non posso svelare nulla x’D mi spiace.
Comunque se c’è
qualcosa che non va, non fatevi problemi a dirlo: essendo uscita da una specie
di blocco dello scrittore durato due anni, so di averne risentito nello stile e
di non essere perfetta ^^’
Ringrazio di
cuore chi legge, chi segue, chi commenta e vi do appuntamento alla prossima!
^_^
Baci,
Rina