Capitolo
Sedici: l’orfano
Il
sole era infagottato in un
banco di nubi, e l’aria era più fredda del
previsto.
La
giornata ideale per
un’esecuzione.
Kiku,
che a quel tempo aveva
tredici anni, lottò inutilmente contro le corde grezze che
gli stringevano i
polsi. Prese un profondo respiro e stese la schiena contro il palo cui
era
stato legato. Non aveva davvero intenzione di liberarsi, ma
l’istinto di
sopravvivenza era difficile da sopprimere.
Stava
facendo la cosa giusta, lo
sapeva.
Chiuse
le palpebre sugli occhi
di pece, immaginando come gli Shinigami
avrebbero potuto giudicarlo, una volta attraversato lo Stige.
Era
stato abbandonato, quando
era piccolo. Forse proveniva da una famiglia troppo povera, che non
poteva
permettersi una nuova bocca da sfamare, oppure era un figlio
indesiderato,
magari nato da una relazione clandestina. Non lo aveva mai saputo: non
avevano lasciato
niente su di lui, a parte uno straccio raffazzonato.
Era
stato accolto
dall’orfanotrofio della zona, che aveva fatto in modo che i
ricordi più vividi
della sua infanzia fossero il lavoro nei campi e nelle risaie. Non
c’erano
molti altri impieghi, per i bambini non desiderati. Molti di loro
morivano,
sfiancati dalla fatica o dalla malnutrizione, e non c’era
nessuno che sprecasse
una lacrima in loro ricordo: i figli scordati dai genitori perdevano il
loro
diritto di essere persone e diventavano oggetti da sfruttare
finché non
andavano in pezzi.
Non
si era mai lamentato delle
lunghe giornate passate a raccogliere riso e zappare la terra: alcuni
di loro
erano stati venduti alle miniere, dove erano richiesti dei
“piccoli animali da
sguinzagliare nei cunicoli più stretti”. Aveva
sentito delle storie da brivido
sugli spettri dei bambini morti in quegli anfratti, e ogni sera
ringraziava gli
dei per averlo assegnato ai campi.
Tuttavia,
nemmeno la vita dei
piccoli agricoltori era facile: dovevano svegliarsi quando il sole
ancora
dormiva per recarsi nei poderi, trascinandosi dietro gli attrezzi
più grandi di
loro. Seguiva una giornata all’insegna del sudore e della
fame, perché le
razioni del pasto erano molto scarse: il raccolto veniva venduto al
mercato dai
loro tutori, che non avevano alcuna intenzione di spendere una moneta
di troppo
per la loro nutrizione. In fondo, in pochi anni il lavoro massacrante
li
avrebbe condotti alla fossa comune, e sarebbe stato uno spreco farli
ingrassare
nel frattempo.
Non
si era mai lamentato, nemmeno
una volta, non aveva mai pianto, anche se avrebbe avuto tanti motivi
quante
erano le stelle in cielo; sperava che il suo spirito di sopportazione
avrebbe
avuto qualche valore, agli occhi degli dei.
Aveva
trovato modo di svagarsi,
perfino all’orfanotrofio. Gli bastava trovare un ramoscello
nel giardino e
poteva immaginare di avere in mano una katana
raffinata e di essere uno dei soldati imperiali; muoveva
quell’arma
improvvisata come se volesse tagliare l’aria in piccoli
coriandoli,
guadagnandosi le lodi dei suoi più sgraziati compagni.
Heracles
era quello che lo
incoraggiava più di tutti, affascinato dai suoi movimenti.
Quel
bambino era stato abbandonato
perché frutto di uno stupro. Gli occhi olivastri e i capelli
castani erano
troppo simili a quelli dell’uomo che la madre cercava di
dimenticare, e il
piccolo era stato abbandonato insieme alle memorie sgradevoli.
Kiku
era stato attirato dalla
sua aria serena, che spiccava tra le espressioni infossate degli altri
bambini
come un diamante in mezzo al carbone. Avevano stretto amicizia quando
il gatto
randagio con cui Heracles giocava era schizzato improvvisamente in
braccio a
Kiku, che si era quasi rovesciato per la sorpresa.
Heracles
trovava incantevole la
fierezza di Kiku, che a sua volta pensava che la calma
dell’amico fosse
rincuorante. Andavano d’accordo, anche se ogni tanto Heracles
faceva battute
piuttosto strane su quanto Kiku dovesse essere bello senza vestiti;
l’amico
aveva sempre fatto finta di non sentire, oppure aveva negato con
decisione.
Avevano
passato anni a
rincorrere i gatti randagi, a fingere che i bastoncelli striminziti
trovati in
giardino fossero spade aristocratiche e ad aiutare l’altro a
rialzarsi in
piedi, quando il lavoro fiaccava loro le ginocchia.
Era
crollato tutto quando il
proprietario dell’orfanotrofio aveva cercato di spegnere il
suo unico raggio di
sole. Erano in giardino quando l’uomo li aveva raggiunti,
infuriato come non
mai: il gatto di Heracles era entrato nei magazzini, e aveva rovinato
un’intera
partita di verdure.
Il
bambino aveva provato a dire
qualcosa in sua difesa, ma lo schiaffo che lo aveva raggiunto sulle
labbra lo aveva
zittito all’istante. Gli occhi di Kiku si erano sbarrati di
fronte alla
violenza del proprietario di quel posto: al primo schiaffo ne era
seguito un
secondo, e un altro, e un altro ancora. Heracles aveva cercato di
proteggersi
con le braccia, e quella sua resistenza aveva infiammato ulteriormente
l’uomo:
i calci avevano arginato lo scudo degli avambracci, e avevano raggiunto
il
piccolo al ventre. Kiku scoprì di essere caduto quando
toccò l’erba con le
mani: quello spettacolo gli aveva mozzato fiato e ginocchia.
«Così
lo ammazza!» aveva gridato
un bambino.
Quell’urlo
aveva fatto scattare
qualcosa, dentro di lui: aveva sentito una marea rossa risalire dalle
viscere
fino a stendere un velo carminio sulla realtà.
La
sua mano si era stretta attorno
a una pietra, e le gambe erano scattate in un balzo. Aveva calato quel
ciottolo
mille volte, senza sentire i rantoli dell’uomo e nemmeno gli
strilli dei
bambini, finché non era più riuscito a tenere il
sasso in mano: il sangue lo
aveva reso troppo scivoloso per essere trattenuto.
Tutto
era diventato rosso.
Le
guardie erano arrivate poco
dopo, e lui aveva dichiarato immediatamente la sua colpevolezza: non
voleva che
i suoi amici rimanessero coinvolti in quell’omicidio. La sua
confessione fu
superflua, anche se altruista: le macchie di sangue che chiazzavano i
suoi
vestiti e il suo viso erano sufficienti ad accusarlo.
E
ora attendeva di essere
giustiziato sulla pubblica piazza.
Kiku
si adagiò contro il palo,
inclinando la testa di lato. Quell’incidente aveva portato
alla luce la triste
realtà degli orfanotrofi, troppo spesso ignorata: le guardie
e i funzionari non
potevano eludere le denunce di maltrattamenti e sevizie dei bambini,
né
potevano dissimulare i lividi e i chiari segni di malattie sui loro
corpi
denutriti.
Non
aveva la presunzione di
diventare un eroe nazionale: ci sarebbero stati sicuramente altri
orfanotrofi
con le loro stesse condizioni, se non peggiori. Ma, almeno per i suoi
amici, le
cose sarebbero cambiate: aveva visto molte persone accalcarsi per
scrutare quei
fantasmi di bambini. Magari alcuni di loro sarebbero stati adottati;
magari
Heracles avrebbe trovato una famiglia.
«Ho
avuto una fine onorevole,
almeno» stimò in un bisbiglio, quando la porta
della capanna in cui era recluso
si aprì.
Faticò
a mettere a fuoco la
figura che si stagliò nel rettangolo della porta: la luce
improvvisa gli ferì
gli occhi, abituati all’oscurità di quel posto. Ma
anche quando le sue pupille
si adattarono, non riuscì a riconoscere immediatamente il
ragazzo che lo
scrutava dalla soglia. Il suo fisico e il suo volto erano disegnati con
tratti
estremamente delicati e, finché non aprì bocca,
non avrebbe saputo dire se
fosse un maschio androgino o una femmina mascolina.
«Sei
tu ad aver ucciso il
proprietario dell’orfanotrofio?» domandò
una voce cristallina.
Kiku
annuì, lievemente turbato
dal tono del giovane: doveva avere all’incirca la sua
età, ma il mondo stesso pareva
inchinarsi al suo volere, quasi fosse una creatura divina.
«Perché
lo hai fatto?» lo
sconosciuto chiuse la porta e si avvicinò a lui. Kiku lo
fissò guardingo, non
riuscendo a capire l’obiettivo di quel ragazzo.
«L’ho
fatto. Alle autorità
interessa solo questo» proclamò, e distolse lo
sguardo da quegli occhi scuri
che lo trapassavano, come se la sua pelle fosse un foglio di carta di
riso.
Le
labbra fini del giovane si
arcuarono in un sorriso cortese, e una delle sue mani si protese per
toccargli
lo sterno.
Kiku
trasalì ma non poté
sfuggire a quelle dita: le corde che lo legavano erano troppo strette.
Lo
sconosciuto chiuse gli occhi,
e alzò il mento come se stesse ascoltando una melodia
lontana. Increspò le
labbra e le sopracciglia un paio di volte prima di mormorare:
«Capisco…»
Si
rialzò fluidamente e lo
osservò dall’alto mentre lo giudicava:
«Hai
ucciso un tiranno perché
stava ammazzando un tuo amico. E ti sei dichiarato colpevole per
evitare che i
tuoi compagni subissero il tuo stesso destino. Se avessi detto queste
cose alle
guardie, la tua pena sarebbe stata più lieve.»
«La
voce di un orfano non conta
quanto il sangue di un adulto» notò Kiku, senza
alcuna particolare sfumatura. «Nessuno
mi avrebbe creduto.»
L’altro
fece un lieve cenno con
il capo, riconoscendo la veridicità del suo discorso.
«Comunque,
è davvero incredibile
che tu sia riuscito a sopraffare un adulto» valutò
il giovane, portando dietro le
spalle la lunga coda mogano che gli ricadeva sul petto. «Il
tuo tutore era più
robusto di te, e meglio nutrito. Eppure, tu sei stato abbastanza forte
da
abbatterlo.»
«Si
fanno molte cose, quando si
è disperati» replicò neutro Kiku.
«E
parli piuttosto bene, per
essere analfabeta» lo elogiò l’altro.
«Non
so leggere, ma so
ascoltare. E ascolto molto.»
«Ascolti
bene. E memorizzi
ancora meglio.»
Kiku
lanciò uno sguardo carico
di sospetto sull’altro giovane: non riusciva a capire
perché un signorino di
buona famiglia fosse venuto in quel tugurio per parlare con un
assassino. La
sua origine nobile era visibile nel vestiario curato e nella perfetta
salute di
pelle e capelli, ed era ancor più nitida nel suo portamento
impeccabile e nel
suo modo di parlare come se un gradino lo distanziasse dal resto del
mondo.
«Dove
hai imparato a combattere?»
«Non
so combattere.»
«Devo
dedurne che hai un grande
istinto. Hai colpito quell’uomo solo in punti
vitali.»
«Tutti
sanno che un sasso
diretto alla testa può uccidere.»
«Ma
non tutti sanno colpire lo
stesso punto ripetutamente, specie se attaccano in uno scatto di
rabbia» il
giovane lo sondò con gli occhi e con le parole:
«Sei sicuro di non aver mai
combattuto?»
Kiku
scosse la testa in cenno di
diniego.
«No.
Ogni tanto fingevo di
essere un soldato, insieme ai miei amici. Ma nessuno ci ha mai
insegnato.»
L’orfano
lanciò uno sguardo
obliquo, affilato dalla provocazione.
«Dovresti
temermi. Sono un
mostro che è riuscito a massacrare un adulto.»
Lo
sconosciuto ricambiò con
un’occhiata colma di saggezza e sfida.
«Se
i nostri antenati avessero
temuto le piene del Fiume Drago, il limo non avrebbe mai potuto
depositarsi
sulle valli e fertilizzarle, e le società arcaiche non
avrebbero prosperato.
Tuttavia, se non fossero stati in grado di creare una canalizzazione
adeguata
per i campi, le piene avrebbero sommerso anche i villaggi. Non temo la
forza,
ma ritengo che debba essere controllata e condotta sulla giusta
via» il ragazzo
si inginocchiò di fronte a lui: «Vorresti avere la
possibilità di domare il tuo
potere?»
«Non
vedo come. Sto per morire»
ribatté ovvio Kiku.
«Non
è ciò che ti ho chiesto»
gli ricordò serafico l’altro.
L’orfano
si morse le labbra
prima di ammettere:
«Sì.
La vorrei.»
«Allora
la morte dovrà
aspettare.»
Quando
il ragazzo allentò lo
scollo e il sole di fuoco baluginò dai bordi slacciati, Kiku
temette di essere
impazzito completamente: la sua mente, terrorizzata all’idea
della morte
imminente, doveva essersi inventata un’assurda storia in cui
il Figlio del
Cielo si era scomodato per venire a salvarlo.
«Quelle
corde sembrano scomode»
a Yao bastò schioccare le dita perché le funi che
grattavano i polsi del
giovane bruciassero senza scottare la pelle del ragazzo. Kiku quasi non
badò a
quel prodigio, troppo stupito dalla presenza del sovrano in quel
bugigattolo.
«Perché
siete venuto qui?»
domandò, incapace di alzarsi.
«Non
sono venuto appositamente
per salvarti» ammise Yao. «Sei stato fortunato,
Kiku: stavo visitando questo
villaggio quando ho sentito parlare del tuo caso, e mi sono
incuriosito» il
regnante gli porse una mano con eleganza: «Le vie del fato
sono misteriose,
anche per me.»
L’orfano
rifiutò con garbo
quella mano troppo preziosa per essere toccata dalla sua, e si
rialzò in piedi
appoggiandosi al palo.
«Non
riesco a credere che
vogliate un assassino… nella vostra corte» le
parole tremarono appena: Kiku era
troppo orgoglioso per balbettare apertamente.
«Ho
anche un mago nero, nella
mia corte» elencò a mezza voce il Figlio del
Cielo. Usò un tono stentoreo nel
ricordargli: «La mia decisione non cancella la tua colpa. Ti
viene data una
seconda possibilità, ma non la redenzione incondizionata.
Dovrai guadagnarti il
perdono diventando un soldato capace e, soprattutto, fedele.»
«Non
è il duro lavoro a
spaventarmi» asserì deciso Kiku. «Ma, se
permettete, temo che voi siate troppo
avventato.»
Il
sorriso parve accarezzare le
labbra ben disegnate del giovane, e una punta di dolcezza gli
illuminò gli
occhi a mandorla.
«Una
persona a me molto cara mi
ha mosso questa stessa accusa, circa un anno fa»
ricordò. «Come dissi allora:
se tu dovessi rivoltarti contro di me, ti incenerirei come ho fatto con
le tue
corde.»
Il
sovrano non smise di
sorridere, ma un fuoco terribile fece scintillare le iridi scure quando
consigliò, mellifluo:
«Non
darmi modo di ripensare
alla mia scelta, Kiku.»
***
Yao
e Arthur si voltarono di
colpo, quando l’immenso gong del Palazzo Imperiale fece
vibrare l’aria.
«Che
succede?» chiese il Mago
dell’Ovest, irritato per lo spavento.
«Stanno
per fare una comunicazione
ufficiale» il fiato del Figlio del Cielo si troncò
di colpo quando il Samurai
comparve sulla balconata del castello.
Il
bianco della tunica si
fondeva con il candore della pelle, e contrastava con la tinta
d’ebano di occhi
e capelli. Il rubino incastonato sull’elsa della katana e le
insegne militari
scarlatte ricordavano la sua fedeltà al sovrano.
Yao
infilò le mani nelle
maniche, e artigliò gli avambracci. Kiku non era cambiato
per nulla, come se
quell’anno non fosse mai trascorso.
Il
guerriero attese un istante,
con la sua espressione impossibile da scalfire ben saldata sul volto.
La sua
impassibilità era leggendaria.
Tuttavia,
perfino a quella
distanza, Yao poté immaginare con estrema chiarezza il lieve
tremore del
sopracciglio sinistro e il singolo battito di palpebre, che
contraddistinguevano gli stati di ansietà di quel giovane.
Conosceva bene quel
ragazzo, troppo bene.
«Il
Figlio del Cielo» annunciò,
scandendo ogni parola. «Non ha ancora vinto la sua lotta con
il coma. Le
condizioni del Portavoce del Sole restano immutate. Preghiamo gli dei
di
restituirli a queste terre il prima possibile» e scomparve
all’interno, prima
che una lacrima potesse affacciarsi dai suoi occhi.
Arthur
sentì il suo cuore
mancare un colpo. Il Figlio del Cielo in coma? Che assurdo trucco
avevano
inventato per mantenere quella bugia per un anno intero?
«Ma
cosa…» cercò di chiedere, ma
richiuse la bocca subito dopo.
Il
colorito terreo delle gote di
Yao era un chiaro segnale del suo stato d’animo. Era
angosciato fino all’ultima
fibra del suo essere: per il suo amico, le cui condizioni non erano
state
specificate, per il suo regno. E per il Samurai.
Arthur
osservò l’acciottolato
meditando un intervento intelligente. Tutto ciò che
riuscì a dire fu:
«Sembrava
sinceramente
preoccupato.»
«Lo
so» ghigliottinò il Figlio
del Cielo.
Kiku
non lo aveva mai tradito. Era
colpa del demone, di quel maledetto demone.
«Dobbiamo
trovare un modo di
entrare nel Palazzo il prima possibile» sentenziò
Yao.
Doveva
sapere cosa era successo
a Young Soo. E doveva cercare di salvare Kiku. Anche se ciò
avrebbe implicato uccidere
quel bambino che aveva salvato tanti anni prima, e che era vissuto fino
ad
allora solo per servirlo.
Scusate
il
ritardo dell’aggiornamento ç_ç
Ho
avuto una
brutta influenza, e non sono riuscita ad aggiornare prima di oggi .-.
E, sempre per via dell'influenza, il capitolo è venuto
più corto del previsto ç_ç MI
rifarò con il prossimo<3
Per
impegni che
sono sorti negli ultimi tempi, d’ora in poi
l’aggiornamento sarà bisettimanale.
Mi dispiace moltissimo ç_ç Quando sarò
più libera, gli aggiornamenti torneranno
settimanali<3
Come
sempre,
grazie per aver letto fin qui e per seguire questa storia<3
Nel
prossimo
capitolo saranno svelate altre cose sul Samurai :)
Ci
vediamo tra
due settimane, sempre di lunedì<3
A
presto<3
Red