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Autore: Albezack    21/01/2014    2 recensioni
Un' improvvisa sparizione del celebre scacchista Volkov. Un albergo e due amici curiosi ai confini di Chernobyl. Quanta differenza esiste tra incubo e realtà?
Genere: Horror, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La mattina seguente fui svegliato dal ticchettio delle dita di Jody sulla tastiera del computer, in camera mia. Stiracchiandomi mi guardai attorno, fuori era ancora buio. Mi girai verso la sveglia, le cinque.
Mattiniera, la ragazza, come al solito.
Rimasi qualche istante ad osservarla, mentre picchiettava velocemente i tasti senza guardarli, come un pianista esperto suona tranquillamente tenendo fisso lo sguardo unicamente sullo spartito. Era davvero bellissima, anche spettinata e con quei vestiti fuori misura comodi per la notte.
“Scusami, non riuscivo più a dormire,” mormorò senza distogliere lo sguardo dallo schermo, “anzi, a dire il vero non ho praticamente chiuso occhio, sono troppo agitata.”
“Non me ne stupisco,” ribattei indicando la tazza di caffè fumante al lato del pc.
“Caffè, ottimo contro l’insonnia,” scherzai, alzandomi ed avvicinandomi.
Non appena le fui alle spalle, vidi su cosa si stava informando. Non stava cercando ulteriori notizie dell’albergo o che dir si voglia, né guardando itinerari per la giornata. Stava leggendo la storia di Pryp’Jat, vedendo foto, spulciando vecchi articoli dimenticati da tutti.
“E’ incredibile,” disse in un sussurro, “guarda qui.”
Case abbandonate, muri scrostati, recinzioni arrugginite e malandate. Stanze lasciate improvvisamente, con i residui della vita che si svolgeva. Che si stava svolgendo, in quegli attimi, quando l’evacuazione forzata obbligò tutti a pensare solo alla propria vita, a lasciare tutto così com’era. In realtà non fu esattamente forzata, ma molti scapparono così in fretta da non sentire nemmeno la fine dell’annuncio, contrariamente alla richiesta di restare calmi e ordinati. Nessuno resterebbe calmo e ordinato, trovandocisi in mezzo, nessuno.
Tavole apparecchiate, giocattoli per terra, rasoi elettrici ancora inseriti nella presa di corrente del bagno. Quelle foto trasudavano morte, e non erano nulla al confronto di quello stesso spettacolo in prima persona. Non ero mai veramente entrato nella città, ma l’avevo a lungo osservata dall’esterno, dove era possibile senza controlli o permessi. E già da lì metteva i brividi.
“Conosco esattamente quello che pensi,” le bisbigliai, “tutti la chiamano La Città Fantasma, io la chiamo La Città Sospesa. Il tempo si è fermato, lì, come in una fotografia.”
Sospesa è senza dubbio il termine che rende meglio la sensazione che provoca quel posto. Quando sei lì, che la guardi da dietro la recinzione, senti che manca qualcosa. Senti che sta per succedere qualcosa. Ti aspetti che le macchine riprendano a circolare, che le luci si accendano, che le insegne riprendano a brillare. Ma tutto ciò non accade, il paesaggio rimane stolidamente fermo, morto. Nessuno guiderà più quelle macchine, nessuno abiterà più quegli edifici, le insegne di legno marciranno e cadranno, le finestre continueranno a sbattere ad ogni alito di vento. Il tempo provvederà a distruggere quell’amaro e triste ricordo. Ma per ora rimane lì, orrendo e sublime allo stesso tempo. Avevo letto una poesia di William Blake, in gioventù, La Tigre. Parlava di paura e bellezza, amore e odio, sentimenti contrastanti fusi in un unico concetto più completo ma ineffabile. Questo è quello che mi provoca quel posto, ogni volta che ci penso.
Jody abbassò lo schermo del computer, lentamente, pensierosa.
“Quanto è alto il livello di radiazioni ancora presenti?” domandò, guardandomi negli occhi.
“Non lo so, non altissimo, ma nemmeno troppo al di sotto del livello minimo per essere letale,” spiegai.
“Servono permessi per entrare,” continuai, “ e permessi per uscire, il tempo di permanenza deve essere breve ed alcune aree sono completamente tabù. Non è decisamente il posto per fare un pic-nic, diciamo.”
“Ti confesso che non mi dispiacerebbe visitarla,” disse a voce bassa, per saggiare le mia reazione, “poco tempo, giusto per vedere com’è, dal vivo.”
“Non c’è niente di bello, dal vivo…so quel che dico,” replicai, impassibile, la voce grave e completamente piatta.
“E non credo di voler mettere piede in quel posto, sinceramente,” aggiunsi, “non siamo qui per questo, dopo tutto. Ti sei già dimenticata di Volkov, l’albergo ed il resto? Limitiamoci al programma per adesso, non saprei nemmeno a chi chiedere i permessi, ad ogni modo.”
Lei annuì, seria. Sapevo che quel gesto poco significava: quando si metteva in testa un’idea, quell’idea diventava un morbo. Poteva debellarla una volta, ma c’era sempre una ricaduta. Su questo ci avrei potuto scommettere.
Ma per il momento mi bastava quella breve resa, magari stavolta le sarebbe passata subito. C’era il pericolo, in ballo, non sempre la curiosità è talmente forte da spingerti a rischiare un tumore, soprattutto quando si è giovani.
Giovani e belli, riflettei, guardando il suo viso delicato.
Caricammo i nostri zaini con gli attrezzi radunati sul tavolo di cucina la sera prima, ci coprimmo bene (faceva già molto freddo) ed uscimmo nella gelida aria autunnale di Kiev. A volte la mia vecchia Mustang faceva qualche bizza, a causa del freddo, ma quel giorno il motore rombò al primo colpo. Quanto amavo quella macchina. Un gioiello. Era stato un colpo di fulmine, quando l’avevo vista per la prima volta in America. Quel tipo di macchine, potenti e che cucciavano litri di benzina per una sgasata, erano molto più comuni là che non qui in Europa, ma io me ne ero innamorato. Ed avevo fatto di tutto per averla. Me l’ero fatta arrivare appositamente dallo Zio Sam, sganciando un extra al concessionario Ford a cui ero ricorso.
Ingranai la marcia e partii, la strada non era difficile: sempre dritto, a nord.
Il difficile sarebbe stato trovare l’albergo, non avendo la minima informazione a riguardo. Ma quel giornalista pareva alquanto sicuro delle sue indicazioni, non potevamo sbagliare a suo avviso.
Speriamo.
*
Ovviamente non trovammo un fico secco, nemmeno una bettola da quattro soldi. Guidai fino al confine di Pryp’Jat senza vedere neanche una cuccia per cani. Sostai davanti agli sbarramenti, oltre non ci era consentito procedere. Incerto sul da farsi, interpellai la mia amica.
“E ora?” dissi seccato, guardandola.
Lei non rispose, stava fissando la struttura delle sentinelle di guardia e la recinzione tutt’attorno alla città fantasma. Era incantata, non riusciva a distogliere lo sguardo, non mi stava ascoltando.
“Aspettami qui,” borbottai uscendo, “chiedo alle guardie.”
Mi avvicinai a quella specie di casupola e rimasi un attimo incerto, davanti alla porta chiusa.
Bussai.
Nessuna risposta.
Nemmeno i tentativi successivi furono di maggior successo. Intanto Jody era uscita dalla Mustang e stava camminando verso di me, con aria interrogativa.
“Merda, non c’è nessuno,” esclamai, infastidito.
“Mai nessuno quando ti serve.”
Lei continuava a rimanere in silenzio, guardando me e la sbarra che impediva di proseguire il passaggio. Capii al volo quello che stava pensando.
“No, te lo scordi.”
Ma lei in pochi secondi aveva già scavalcato, come se nemmeno mi avesse sentito. Sorrideva, come sempre quando otteneva qualcosa che voleva fortemente. Eccola, la ricaduta.
Sbuffando, spostai la macchina dalla strada per affiancarla alla recinzione e sgombrare la carreggiata. Scesi e inserii l’allarme. La raggiunsi scavalcando la sbarra e la afferrai per le spalle.
“Dieci minuti, ok?” le sussurrai.
Stava già guardando in direzione della città, rapita. La scossi per riportarla alla realtà.
“Ok??” insistetti.
“Va bene…promesso.”
La presi per mano e ci avviammo per la strada, a passo sostenuto. Un breve giro e via, di nuovo in macchina, niente di più. Già mi pentivo della cazzata che stavamo facendo, ma quando te la chiede la persona che segretamente ami, non ce la fai a dire di no.
Camminavamo spediti, ero io a condurre. Non so esattamente per quale motivo, ma c’era un posto che più di ogni altro volevo mostrare alla mia amica. Soprattutto volevo mostrarlo a me stesso, in realtà,  dato che era la prima immagine che mi si stampasse in testa al solo sentire la parola Pryp’Jat. Ad ogni passo che facevo il cuore accelerava di un battito, la mia mano stringeva sempre di più quella di Jody.
“Ehi, tutto bene?” mi domandò infatti, essendosene accorta.
“Si…sono solo…”
Ma le parole mi morirono in bocca quando la vidi, in lontananza, al di là del tetto di un edificio ormai ridotto ad un rudere. Quella ruota panoramica, in quello che doveva essere il parco giochi della città fantasma. I minuti scorrevano veloci, ma la totale immobilità del paesaggio pareva rallentare persino il tempo. Mentre ci avvicinavamo, iniziai involontariamente a trattenere il fiato, fino a quando fui al centro dello spiazzo.
Quella ruota dominava la vista, il giallo dei sedili conferiva al tutto una leggera sfumatura dissacrante. Un colore caldo, pieno di vita, nella desolazione assoluta dominata dal grigio, dal nero e dal verde della muffa.
Per un istante mi parve quasi di sentire le risa giocose dei bambini che correvano, o che si spingevano sull’altalena. Mi parve addirittura di vederlo, un bambino, fare capolino da dietro uno dei pilastri rugginosi di quel dinosauro di metallo, col cappellino rosso fuoco e una sciarpa dello stesso colore, ma avvicinandomi vidi che era stato solo uno scherzo della mia fervida immaginazione. Non c’era nessuno lì, a parte noi due, nemmeno un animale. Silenzio ed immobilità assoluta, uno spettacolo più unico che raro.
Jody non osava proferire parola, anche lei era esterrefatta dalle sensazioni che quel posto suscitava, e si limitava a guardare a bocca aperta quel desolante spettacolo che ci si parava davanti agli occhi.
Restammo così, tenendoci per mano, per diversi minuti, fino a che uno strattone mi fece tornare coi piedi per terra.
La mia amica stava guardando il suo Swatch da polso, preoccupata.
“Sono già quasi quindici minuti che siamo dentro, Ed, forse è il caso che ce ne andiamo…”
“Certo…” mormorai, distogliendo gli occhi da quei sedili così vivi in un ambiente così morto. Qualunque foto non renderebbe nemmeno un terzo di ciò che stavo osservando in quel momento. Qualunque posto può essere tramutato in fotografia, ma il contrario avrei detto che fosse impossibile. Fino a quel giorno. Noi ci trovavamo dentro ad una foto, tridimensionale e dettagliata.
Impressionante.
Dopo aver appagato la nostra curiosità, voltammo le spalle e tornammo sui nostri passi, senza parlare. Ringraziai mentalmente il fatto di non essere solo, di avere una mano da stringere, di avere la sua mano da stringere.
Sulla via del ritorno ripensai a mio padre, che era venuto a mancare da poco. Un paio d’anni, forse di più…incredibile come la memoria offuschi in fretta tutto ciò che ci fa male. Era lui ad avermi portato lì la prima volta, ovviamente non all’interno, ma fuori dalla recinzione. Dovevo vedere quello che era successo, diceva, fa parte della nostra storia.
Non tutti erano come mio padre, molti volevano dimenticare e basta. Quindi non erano mai nemmeno voluti andare ad osservare quel triste spettacolo, anche se solo da lontano. Ma mio padre no, lui ci teneva, ed io ero troppo curioso per negargli di portarmici. Ero rimasto davanti alla transenna di sbarramento fermo come una statua, mentre il mio vecchio parlava del più e del meno con le guardie di turno. Sforzavo gli occhi per vedere più avanti, volevo la ruota panoramica, quella delle foto. MI incuteva una paura fottuta, quella ruota. Quel giorno con Jody l’avevo vista. Eppure, davanti a quell’ammasso di metallo vecchio, mi sembrò che il tempo non fosse passato affatto, avevo undici anni e me la facevo addosso dalla fifa. Molti dicono fifa blu, ma io penso che sia tutto sbagliato.
 La fifa è verde muffa, la fifa ha il colore della ruggine.
  
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