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Autore: duepescinellaboccia    21/01/2014    3 recensioni
In questo AU Harry si trova in grossi guai e sarà un Sirius non deceduto (sì, arriverà il giorno in cui supererò questo trauma e riuscirò ad andare avanti con la mia vita come ogni persona normale: "ma non è questo il giorno!") a doverlo soccorrere. Ma ci riuscirà davvero? Harry glielo lascerà fare?
Titolo e intro provvisori.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Albus Silente, Famiglia Dursley, Harry Potter, Remus Lupin, Sirius Black
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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“Zia, cos’è successo al tuo occhio?”
 
Petunia Dursley continuò a risciacquare le stoviglie insaponate nel lavandino, senza rispondere.
 
“Zia…”
 
“Ho avuto un piccolo incidente”.
 
Harry sospirò. La scusa più vecchia del mondo.
 
“Ah sì?”
 
“Sì, ho sbattuto contro un’anta dell’armadio”.
 
Lui la prese delicatamente per un braccio, voltandola verso di sé per guardarla negli occhi.
 
“Ragazzo, tieni giù le mani! E comunque, non sono affari tuoi, non fare domande”.
 
Non fare domande.
 
Cercò di sopprimere il moto di rabbia che lo prese, ripensando a quante volte se l’era sentito dire quando, da piccolo, aveva cercato risposte sulla vita o sulla morte dei genitori.
Harry lasciò la presa sull’avambraccio della zia, ma non aveva nessuna intenzione di rispettare il secondo ordine.
 
“È stato Vernon?”
 
“Ma come ti permetti, razza di…”
 
“Zia, non prendiamoci in giro. L’ho visto ieri. Ho visto la spesa”.
 
La donna si zittì di colpo e lo guardò come se fosse stato una macchia disgustosa su un tappeto.
 
“Avanti, non puoi continuare così. Passa i giorni sul divano a ubriacarsi e quando è stufo di scolarsi i vostri risparmi…”
 
Lo schiaffo gli voltò il viso, mozzandogli la frase a metà.
 
Petunia Dursley era fuori di sé dalla rabbia; bianca come un cencio, le labbra livide di sdegno, tremava, con la mano ancora a mezz’aria.
 
“Non ti permettere, piccolo, schifoso ingrato. Quell’uomo, quello che stai insultando con quella tua sudicia bocca, ti ha mantenuto per tutta la tua vita di inutile scherzo della natura”.
 
Il ragazzo si teneva la guancia; il colpo non era stato particolarmente forte o, almeno, la rabbia gli bruciava dentro ben più del viso schiaffeggiato.
 
“Sì, Vernon può avere avuto una battuta d’arresto”, continuò lei, sputando le parole come fossero acido, “ma ha bisogno di tempo e di cure per riprendersi, non certo della tua lingua villana”.
 
Così dicendo, stappò lo scarico del lavello, girò sui tacchi e lasciò la stanza e il ragazzo, ancora impietrito dalla sorpresa e dall’odio.
 
Harry rimase solo, dunque, a guardare l’acqua sporca dei piatti scivolare veloce giù per lo scarico, assieme al suo appetito e a tutto il suo buonumore.
 
 
Più tardi, nella sua stanza, il Ragazzo Sopravvissuto non riusciva a stare fermo. Era furioso.
 
Dà una mano a zia, Harry, chiedile chi le ha fatto l’occhio nero, Harry, continuava a ripetersi, mentre girava senza sosta nella camera già arroventata dal sole di luglio, Non farti gli affari tuoi, mi raccomando, cerca di farla ragionare: lo sforzo vale bene uno schiaffo, no? Dopotutto ti ha sempre trattato come un figlio! Uh, sai cosa puoi fare, ora? Perché non vai da Vernon e cerchi di aiutare anche a lui? Magari mentre ti apre il suo cuore puoi fargli le treccine!
 
In un picco di rabbia accecante, diede un calcio al baule che spuntava da sotto il letto. Se ne pentì immediatamente: il dolore, tuttavia, oltre a costringerlo finalmente a sedere sul vecchio materasso, lo calmò… dopo qualche parolaccia, ovviamente.
 
La verità era che Harry Potter aveva sedici anni, ma era tutto fuorché uno stupido adolescente. Sì, anche lui aveva avuto qualche “battuta d’arresto”, per usare le parole di Petunia Dursley: l’anno precedente, ad esempio, aveva portato con sé sei compagni di scuola in una missione suicida (e inutile) al Ministero della Magia; in generale, poi, aveva l’abitudine di fare il diavolo a quattro quando scopriva di essere trattato come un ragazzo della sua età; e, proprio come un ragazzo della sua età, pretendeva di avere ragione un po’ più spesso di quanto fosse ragionevole. Ma Harry Potter non era uno stupido. Soprattutto, a differenza di molti suoi coetanei, non era un egoista.
Non gli ci volle molto per riprendere a ragionare da buon Grifondoro, né per giungere alla spiacevole conclusione che, se un ubriaco Vernon Dursley effettivamente si permetteva di alzare le mani sulla moglie, era Petunia la vittima della situazione. A prescindere da quanto odiosa potesse essere con lui.
In ogni caso, aveva bisogno di svelare qualche incognita per riuscire a capire: da quanto si andava avanti? Com’era iniziata e quanto spesso capitava? Infine, Dudley che parte aveva in tutto ciò?
 
L’unica soluzione era chiedere proprio al cugino.
 
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Dudley Dursley era steso a pancia in su sul tappeto verde che copriva il parquet scuro della sua camera da letto.
L’enorme stanza godeva di ben tre finestre che permettevano alla luce di inondare le pareti, il cui pallido argento era interrotto da grandi poster raffiguranti i vecchi pugili preferiti del ragazzo: tra le due finestre dirimpetto la porta d’entrata, un Cassius Clay formato cartaceo sfidava un incazzato George Foreman, appeso sopra l’enorme letto a due piazze del giovane Dursley.
I giochi infantili erano spariti dalle mensole, che ospitavano ora fotografie di amici, consunti (nonostante lo scarso utilizzo) libri scolastici, alcuni aggeggi tecnologici (che data la sua età non potevano essere chiamati giocattoli), e dei modellini di motociclette d’epoca, passione naufragata con il regime di ristrettezze economiche adottato dalla famiglia mesi prima.
Sul lato sinistro della camera faceva invece bella mostra di sé una grande scrivania in legno, troppo pregiata per appartenere a un adolescente: sotto i quaderni - rigorosamente chiusi -, l’astuccio –sguarnito, fatta eccezione per una penna tramutata in cerbottana più le sue cartucce di gomma mangiucchiata-, e qualche foglio sparso, il piano era solcato da graffi e rovinato da stupidi motti accumulatisi negli anni grazie ad inchiostro indelebile.
Sulla parete opposta a quella della scrivania, torreggiava l’imponente armadio di legno scuro che, oltre ai vestiti del giovane, conservava i suoi i guantoni da boxe: il sacco di sabbia in argentea finta pelle era appoggiato a lato del guardaroba.
 
Dudley aveva iniziato i suoi esercizi mattutini meno di un’ora prima: dopo il riscaldamento con la corda, che ora giaceva ai piedi del letto, era passato agli allungamenti e dunque agli addominali, che aveva però abbandonato a metà della seconda serie, rimanendo steso. Troppi pensieri. E nemmeno alla sua versione smagrita e più seria piaceva averne così tanti.
 
L’occhio pesto della madre. Suo padre. Suo cugino.
 
Tanti problemi, nessuna soluzione.
 
Harry Potter doveva avere il dono di comparire in qualche maniera quando richiamato col pensiero, perché quando Dudley aprì la porta vedere chi avesse appena bussato togliendolo ai suoi crucci, si trovò davanti proprio l’occhialuto cugino.
“Mi fai entrare?”, gli chiese quello: solo così Dudley si riscosse dalla sorpresa, richiuse la mascella che gli era crollata aperta e gli consentì, spostandosi di lato, di attraversare la soglia.
In quel momento suo cugino era nella sua camera, probabilmente per la prima volta nella storia. Lo osservò mentre si guardava intorno, chiedendosi a che stesse pensando.
 
“Bella camera”, commentò Harry, dopo averla passata in rassegna.
 
“Uh, grazie”.
 
Erano in piedi, l’uno di fronte all’altro, senza sapere cosa dire. Sarebbe dovuto essere facile, d’altra parte erano due ragazzi della stessa età, due cugini che avevano condiviso la stessa casa per anni: erano cresciuti assieme, ma allo stesso tempo distanti, divisi da odio, gelosia e, negli ultimi anni, anche un po’ d’invidia. Perché se per tutta l’infanzia il giovane Dursley non aveva fatto che pensare a quanto sarebbe stata migliore la sua esistenza senza quell’imbarazzante sgorbio in famiglia, da quando aveva scoperto che era un mago… beh, checché ne dicessero i suoi genitori (e lui stesso, almeno ufficialmente), sotto, sotto avrebbe dato qualsiasi cosa per avere dei poteri. Qualsiasi cosa a parte il computer,ovviamente.
 
“A che stai pensando, Big D?”
 
“A niente”
 
Harry si fece sfuggire una smorfia: lo stava prendendo in giro o semplicemente non credeva alla sua risposta?
 
“Sto pensando che è strano”, si corresse, “Che tu sia qui, intendo”.
 
“Già, beh, è la prima volta. Sai, avevo da fare tutte le volte che mi hai invitato ai tuoi pigiama party”.
 
Se non fosse stato per l’incidente coi Qualcosa-tori dell’anno prima, Dudley avrebbe preso la frase del cugino per quel che era, cioè una battuta. Invece lo assalì quella sensazione strana, spiacevole, che da allora lo aveva accompagnato: senso di colpa?
Avrebbe voluto ribattere qualcosa, ma non gli venne in mente nulla che fosse a tono.
 
“Che vuoi, Harry?”.
 
“Risposte”.
 
“A che domande?”.
 
“Come se non lo sapessi”.
 
Sbuffò. Lo sgorbio non era mai stato stupido. Debole, imbarazzante, fastidioso, ma non stupido. Lui e la sua cricca non erano mai stati capaci di dargli una seria lezione: nonostante fosse solo e smilzo, era sempre riuscito a cavarsela. E a prenderli sonoramente in giro. Ovvio che ci avrebbe messo poco per capire quanto fosse strana l’aria che tirava a casa sua… a casa loro.
 
“No, lo sai che sono uno scimmione senza cervello. Sorprendimi”.
 
Questa volta Harry strabuzzò un po’ gli occhi, prima di assumere un’espressione quasi divertita.
 
“Bene Diddino. Per cominciare, che è successo a tuo padre? Come ha fatto a perdere il lavoro? Era una specie di capo, no?”
 
Dudley si trattenne dallo sbuffare nuovamente, si diresse alla scrivania e si lasciò crollare sulla sedia girevole. Prima di rispondere, fece cenno al cugino di sedersi sul letto. Chiaramente disorientato, quello obbedì.
 
“Sì, beh, mio padre era il capo, il direttore della Grunnings. Diciamo che… ha fatto qualche errore. A quanto pare dei soldi sono scomparsi, senza che nessuno sappia spiegarsi niente”.
 
Harry fischiò, impressionato.
 
“Già. Sembrerebbe essersi trattato di piccole somme, sottratte per tanto, tanto tempo. Finché il buco non è diventato grosso e qualcuno se n’è accorto. A quel punto, il consiglio d’amministrazione ha dato a mio padre due possibilità: finire dentro o rifondere il danno”.
 
“E…?”
 
 “Penso ci possa arrivare da solo, no? Lui è giù che si scola mezza produzione alcolica di Londra, mentre noi non abbiamo più la macchina, non siamo andati in vacanza, non ci compriamo un vestito nuovo da mesi…”.
 
Questa me la potevo risparmiare, si disse guardando la vecchia, scolorita t-shirt oversize indossata dal cugino.
 
“…e io non vado più a Snobkin”.
 
Gli occhi di Harry sembravano sul punto di uscirgli dalle orbite.
 
“Stai scherzando”.
 
“No”.
 
“Non possono averti ritirato da scuola”.
 
Dudley afferrò un fascicolo dalla scrivania e lo lanciò all’altro.
 
“Sei alla Cardinal?!” si trattava di una delle scuole statali peggiori di Londra, “Ma è pessima!”.
 
“Mh, non è che me ne freghi molto, lo sai. Mi spiace solo che non abbiano una palestra decente per allenarmi coi guantoni”.
 
Tacquero entrambi per qualche istante.
 
“Mi dispiace, Dud”.
 
Alzò le spalle, come se non gliene importasse.
 
“Altro?”.
 
“Sì…”.
 
“Beh?”
 
Harry sembrò dover raccogliere il coraggio prima di parlare ancora. Non perché avesse paura: non vuole mettermi ancora più in imbarazzo, decise Dusley.
 
“Tua madre. Stamattina. L’occhio”.
 
Non sapeva cosa dire.
 
“Dud… le ho chiesto cosa fosse successo”.
 
“Ah. E che ti ha risposto?”
 
“Che ha avuto un incidente”.
 
Si guardò i piedi.
 
“Tipico”, esalò, laconico.
 
“Ma tipico cosa, Big D? è stato tuo padre?”.
 
“No, Harry. Ha sbattuto contro una porta. Il mese scorso, invece, è inciampata sul tappeto del bagno e si è ferita un labbro. Poi, se non sbaglio,qualche tempo fa si è fatta male al braccio scivolando sull’ultimo gradino delle scale. Sempre di notte, sempre quando io non c’ero. Ah, ma tranquillo: in giornata arriverà un mazzo di fiori”.
 
Di nuovo una pausa, gelida.
 
“Scusa, ma tu non fai nulla?”
 
“E cosa dovrei fare? Pensi mi stia divertendo? Pensi non abbia cercato di parlarci? Pensi che a me mia madre dica la verità?”
 
“Dudley, la verità non mi sembra un gran mistero”.
 
Il giovane Dursley si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, frustrato. Suo cugino la faceva facile, ma cosa voleva? Non era là, non era a casa mentre tutto andava a rotoli, era nella sua cazzo di scuola di Magia. Non poteva capire.
 
“È mio padre, capisci? Mio padre!”
 
“E lei è tua madre”.
 
“Ma cosa ne vuoi sapere…”. Merda. Altro colpo basso.
 
“Vero. Non ne posso sapere niente”.
 
Harry, teso come se dovesse scattare a momenti, sembrava arrabbiato e triste allo stesso tempo.
 
Benvenuto nel club.
 
“Senti… non è facile. Vorrei intervenire, ma non so come. Se solo mi chiedesse aiuto, se solo parlasse… invece così sono impotente. Le voglio bene e odio quel che sta succedendo. Ma voglio bene anche a lui. Non è facile”.
 
Il ragazzo si alzò dal letto, sempre scuro in volto.
 
“Non so cos’altro dirti”.
 
Dudley sospirò: “Nemmeno io”.
 
Il mago stava per avviarsi verso la porta, quando sembrò ricordarsi qualcosa.
 
“Un’ultima cosa: anche tu sei cambiato. Al di là di quel che sta succedendo qua dentro. Sei cambiato… con me, nei miei confronti”.
 
“Uh”.
 
“Perché?”
 
“Mi hai salvato la vita un anno fa”, si limitò a fargli notare, imbarazzato.
 
“Già, più o meno. Puoi togliermi una curiosità?”
 
“Spara”.
 
“Cos’hai provato quando quel Dissennatore ti ha afferrato?”
 
Dudley  rabbrividì, come sempre al ricordo.
 
“Ah è così che si chiamano… sono mesi che cerco di ricordarmelo”.
 
Harry non rispose, rimanendo in attesa.
 
Avanti, diglielo. Una volta per tutte.
 
“Mi sono sentito… Ho sentito freddo. Freddo dentro. Tutto qua”.
 
Il cugino lo fissò per qualche momento: sembrava insoddisfatto, sembrava sapesse che non era tutto là. Ciononostante, si limitò a sospirare e a fargli un cenno con la mano prima di uscire dalla sua stanza.
 
Ho visto… ho provato per la prima volta nella mia vita cosa significasse essere te. Senza mamma e papà, solo, insignificante, non amato. Senza aver fatto nulla per meritarselo.
 
Ecco cosa gli avrebbe dovuto confessare. Eccolo il motivo per cui aveva smesso di comportarsi con lui come aveva fatto per tutta la vita: come un aguzzino, un perfetto stronzo. Ma no, probabilmente non gliel’avrebbe mai detto: era troppo doloroso. E imbarazzante.
 
Dudley si scosse di dosso il gelo che l’aveva investito nonostante quelli che sembravano essere i cinquanta gradi di quella mattina di luglio. Si volse dalla porta che aveva continuato a fissare dopo che il cugino se n’era andato e tornò al suo allenamento.
 
TBWLTBWLTBWLTBWLTBWLTBWLTBWLTBWLTBWLTBWLTBWLTBWLTBWLTBWLTBWLTBWLTBWLT
 
Era l’alba della sua terza giornata in casa Dursley: ne mancavano ancora ventisei alla libertà.
 
Dopo l’illuminante chiacchierata con il cugino, il giorno precedente era trascorso in una bruma di preoccupazione e disgusto; non era sceso a pranzo, limitandosi a prepararsi un panino un paio d’ore dopo il pasto degli altri: non aveva voglia di vederli, non sopportava l’idea di guardarli mentre fingevano che andasse tutto bene. E ne ebbe ancora meno a cena, dopo che nel pomeriggio, come aveva previsto Dudley, un fattorino alquanto imbarazzato aveva consegnato un mazzo di girasoli a una Petunia ancora visibilmente ammaccata: la donna, al settimo cielo, aveva ringraziato il marito tutta zuccherosa; l’uomo, dal canto suo, aveva gonfiato il petto, orgoglioso, prima di agguantare una birra e riempire nuovamente il calco delle sue chiappe sui cuscini del divano.
Ecco come se ne andavano i soldi dell’assegno di disoccupazione in quella famiglia: in alcol, botte e mazzi di fiori.
Di nuovo, Harry si era accontentato di una cena frugale una volta che la famiglia del Mulino Bianco se n’era tornata a letto.
 
Quel mattino, tuttavia, iniziava molto, molto bene: al suo risveglio aveva trovato Leotordo ed Errol, entrambi con una lettera a testa e il secondo con un grosso pacco, contenente una torta della signora Weasley. Era un gran dolce, il suo preferito: zuppa inglese gelato, stregata in maniera tale che non si sciogliesse.
Ad onor del vero, la sua gioia era un po’ scemata durante la lettura della lettera di Sirius: era chiaro, insomma, che come l’anno scorso aveva un gruppo di baby-sitter a lui specialmente dedicato. Gli avrebbe dato meno fastidio se i suoi guardiani fossero almeno usciti dall’ombra per fare quattro chiacchiere, ma evidentemente non faceva parte del piano. Inoltre, l’ultimo post-scriptum del padrino lo aveva angosciato: di cosa si stava scusando?
 
Mentre si serviva la seconda, generosa fetta di deliziosa torta (Molly Weasley doveva essersi proprio impegnata!), scartò il secondo messaggio, aspettandosi aggiornamenti sulla vita alla Tana.
 
Potter,
 
Alt. Quella non era la grafia di nessuno dei suoi amici. Piuttosto… Scorse fino in fondo al testo per controllare la firma, con un pessimo presentimento: S.P. Aveva poche speranze che si trattasse di Stan Picchetto.
 
Ti scrivo per comunicarti le ultime direttive. Spero non ci sia bisogno di spiegartene per filo e per segno la provenienza.
 
Harry corrugò la fronte: dall’Ordine della Fenice, immaginava… o da Silente stesso? Sbuffò, infastidito dal suo Professore di Pozioni, capace di essere sgarbato anche via posta: un vero talento.
 
Dopo l’ultimo incontro…
 
Ok, doveva essere l’Ordine, allora.
 
… è stato deciso di chiederti di non lasciare per alcun motivo il perimetro della tua residenza Babbana.
 
Fermo un attimo. Cosa intendeva dire?
 
Intendo dire che sarebbe cosa gradita se evitassi di oltrepassare il confine delimitato dal cancello esterno del giardino dei tuoi zii. Ovviamente, tutto ciò  riguarda la tua sicurezza,…
 
La sua sicurezza? Ma stavano scherzando? Si sapeva benissimo difendere da solo, non c’era bisogno che rimanesse prigioniero al numero 4 di Privet Drive!
 
…ma non solo. Per proteggere la tua sacrissima persona, infatti, ogni giorno maghi e streghe stanno impegnando e mettendo a rischio la propria persona. Saperti al sicuro in una casa Protetta, permetterebbe di alleggerire la guardia, aumentando in questa maniera sia la sicurezza di noi tutti, sia la possibilità di muoversi su più fronti.
 
Prima ancora che tu solo pensi di rispondere che non hai bisogno di controllo…
 
Esattamente!
 
…vorrei cercare di farti capire, sebbene nutra poche speranze nella possibilità che l’evento si verifichi, che nulla di quel che dirai avrà facoltà di cambiare lo stato delle cose.
Credimi, Potter, addolora me quanto tutti –anche se non per i medesimi motivi- che il Mondo Magico ti creda la sua unica salvezza, ma non c’è modo di impedirlo: così come non c’è modo di impedire che uomini, donne e ragazzi siano pronti in ogni momento, che tu lo desideri o meno, a pararsi tra te e la bacchetta di qualche Mangiamorte… o del Signore Oscuro stesso. Che, per inciso, è probabile sia al corrente della tua permanenza a Little Whining, Surrey.Per quanto l’inchiostro con cui vengono vergati gli indirizzi della Posta via Gufo sia integralmente leggibile solo per mittente e destinatario, infatti, il Ministero della Magia nell’ultimo anno ha avuto ruolo decisivo nel ridurre all’osso la tua sicurezza nei mesi che spendi lontano da Hogwarts.
 
A cosa si stava riferendo?
 
Mi sto riferendo, ovviamente, allo scorso attacco dei Dissennatori: l’ordine di Dolores Umbridge, che non conosceva la tua esatta ubicazione, ha svelato la zona in cui ti trovi.
 
E dunque…
 
Dunque, ma mi auguro che tu sia abbastanza intelligente da esserci arrivato da solo a questo punto (o il Mondo Magico, se davvero punta tutto su di te, è perduto), il tuo allontanarti da un’abitazione magicamente invisibile per le Forze Oscure significherebbe rischiare di farti scoprire. E, di nuovo,di mettere in pericolo i tuoi fans.
 
Ora, pur non credendoci, spero vivamente che tu sia abbastanza adulto da accettare questa richiesta senza lamentarti, magari evitando di infastidire chi si sta adoperando per contrastare Colui Che Non Deve Essere Nominato. O  chi sta cercando in tutti i modi di salvare –di nuovo- dal carcere il tuo stupido Padrino.
 
Se dovessi avere qualche domanda o qualche dubbio, puoi naturalmente rivolgerti a me: non vedo l’ora.
 
Saluti,
 
S.P.
 

Inspirò. Espirò. Inspirò nuovamente. Cominciò a contare. Quando arrivò a 30 si rese conto di essersi dimenticato di espirare.
 

Era… troppo. Rinchiuso in quella casa velenosa per un mese. Con che colpa? Essere il Prescelto. Cioè, non solo era destinato a uccidere Voldemort o (più probabilmente) a essere da lui ucciso, doveva anche pagare per questo. Era veramente troppo.
Stringeva tra le mani quel foglio, troppo arrabbiato, deluso, ferito per fare niente. Come potevano? Piton sicuramente non l’aveva sorpreso, ma i suoi amici? Come potevano aver lasciato che accadesse? Possibile che nessuno si fosse battuto per lui? L’avevano segregato nella casa in cui sapevano che veniva considerato meno di zero… Perché?
Perché non erano venuti a prenderlo e basta, se lasciarlo lì era così pericoloso?
Niente da fare, era impietrito. Non si era mai sentito così solo in vita sua. Anzi, sì, ma l’ultima volta risaliva a quando ancora non sapeva di essere un mago, quando ancora non sapeva che la sua vita non doveva essere per forza così misera. Cercò di calmare i pensieri auto commiserativi… non voleva, non era fatto così: lui non si piangeva addosso. E poi glielo ordinava anche il suo Professore di Pozioni nella lettera, no? Doveva comportarsi da adulto. Rendersi conto che la sua libertà non valeva la vita di persone a cui non aveva chiesto di mettersi in pericolo per lui. Era ora di accettare la realtà: i suoi amici, gli unici famigliari…
 
No. No, no, no. Sto diventando davvero patetico. Basta. È già tutto abbastanza umiliante senza che mi metta a frignare.
 
Si ributtò a letto, con il messaggio del professore accartocciato in mano, la fetta di torta lasciata a metà sul piattino appoggiato a terra: era ancora molto presto quel mattino, avrebbe cercato di dormire qualche ora prima di rispondere ai messaggi che aveva ricevuto.
 
 

Si svegliò che era quasi mezzogiorno. Aprì la mano destra per cercare di capire cosa stesse stringendo: alla vista della lettera del suo Professore di Pozioni, si ricordò come mai si sentisse così avvilito.
 
Era successo davvero: l’Ordine della Fenice gli aveva chiesto di rimanere prigioniero del numero 4 di Privet Drive.
 
Questa volta l’avrebbero pagata. Questa volta si sarebbe fatto sentire. Non subito: aveva intenzione di obbedire (solo un mese), ma quando fosse tornato a Grimmauld Place gliene avrebbe dette quattro.
Primo: non sarebbe tornato in quel posto mai più, dopo quell’ultima estate. Al diavolo la Profezia, la Protezione, il sangue e Voldemort.
Secondo: non avrebbe sopportato ancora la scorta. Non una squadra di guardiani invisibili che lo trattava come uno scemo, almeno.  
Terzo: avrebbe preteso informazioni e aggiornamenti, sempre e comunque, a prescindere dal mezzo. Non gli importava se era ad Hogwarts, non gli importava se per non rischiare che la posta venisse intercettata qualcuno doveva farsi il viaggio ogni volta: non aveva più intenzione di rimanere all’oscuro di niente.
Quarto:…
Beh, per il quarto ci avrebbe pensato: non gli sarebbe bastata una lista di soli tre punti per perdonarli.
 
Sospirò: non gli rimaneva che rispondere ai messaggi.
 
A Piton scrisse semplicemente Va bene sotto la stessa lettera che aveva ricevuto: non si meritava un maggiore impegno.
 
Per Sirius… si trovò in difficoltà. Nonostante gli fosse finalmente chiaro il significato dell’ultimo post-scriptum che chiudeva la precedente lettera del Padrino (Ho fatto quel che ho potuto, te lo giuro. Hanno vinto loro. Mi dispiace), era arrabbiato con l’uomo: il riferimento del Serpeverde alle difficoltà che stavano incontrando per tenerlo fuori di prigione non poteva che voler dire che il processo non stava andando poi tanto bene. E che, quindi, Felpato gli aveva mentito. Aveva voglia di sgridarlo in qualche maniera. E di raccontargli quel che stava succedendo dai Dursley. Ma come fare anche solo una delle due cose senza metterlo in allarme? Senza farlo catapultare lì in un momento in cui era chiaro che si doveva concentrare sui suoi di problemi?
Prese in considerazione l’idea di avvertire Lupin, ma sapeva che era soprattutto lui ad aiutare il suo Padrino nel processo. E poi non sarebbe andato a raccontare il tutto a Sirius?
Inoltre era stato gentilmente pregato di non disturbare. Di rimanere sepolto in camera sua senza procurare ulteriori problemi. Per quel che riguardava la sua vita Babbana, concluse, doveva cavarsela da solo.
 
Finì col buttare giù qualche riga di circostanza: inventò che gli zii il giorno del suo arrivo non avevano avuto nessuna voglia di andare a raccattarlo in stazione, che in casa l’aria non era poi tanto peggiore del solito e che quindi non aveva bisogno d’aiuto; gli chiese di ringraziare Molly per il dolce e di salutare gli altri, di non preoccuparsi, che aveva capito e non sarebbe uscito.
Una decina di righe fredde e false.
 
Dopo aver guardato Leo e Errol imboccare la finestra, si ributtò a letto, in attesa di poter scendere a mangiare qualcosa. 




Ciao!

E' un capitolo lunghissimo, me ne rendo conto, ma non mi andava di spezzarlo per poi doverne aggiungere un altro di pura "cornice": è arrivato il momento di mettere un po' d'azione in questa storia, o davvero ci addormentiamo tutti! 

E' stata dura scrivere tutta questa pappardella e mi stanno venendo mille dubbi... ma è anche vero che sono in piena sessione esami, che forse per un po' non pubblicherò e quindi per questa volta va così ;)

Ringrazio nuovamente tutte per le belle recensioni, mi date sempre una botta di coraggio! Anyway, sappiate che sono benvoluti anche consigli e critiche, non siate timide/i!

Alla prossima!

 
  
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