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Autore: Tods    21/01/2014    0 recensioni
"Giochiamo a tira e molla da quando avevamo sedici anni. Evidentemente a noi piace così. L'ho conosciuto al ballo della scuola: lui c'era andato con la sorella, io c'ero andata da sola. Non mi aveva invitata nessuno, un classico"
Jean ed Harry si amano tanto, ma non sanno tenersi. Per anni lottano contro fama, carriere opposte ed incongiungibili, interessi diversi, famiglie disastrate e caratteri apparentemente incompatibili. Sapranno andare oltre tutto ció, e riusciranno astare finalmente insieme?
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Harry Styles, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I-Attese snervanti che non portano da nessuna parte (Jean)

Lui è un casino. Un completo casino.
Sempre occupato, scontroso, irritabile. Preferisce stare solo, o con i suoi amici. Non chiama per giorni, mi evita spudoratamente, finge che io non esista. Sparisce per settimane intere, senza una parola, fino a fami credere che sia finita, per sempre stavolta, e poi ritorna, all’improvviso, insicuro e vulnerabile, frustrato. Torna e mi porta nel suo mondo, mi rende partecipe, mi fa sentire amata.
Sarebbe capace di darmi la luna, se solo gliela chiedessi. Arrivo quasi a pensare che sia cambiato, ci casco ogni volta, accidenti; ma ogni volta lui se ne va di nuovo. Ricomincia ad essere complicato e scostante, a far scoppiare discussioni inutili per ogni minima cosa, ed io aspetto. Aspetto e basta. Aspetto che torni da me, perché lui torna sempre.
Nonostante tutto credo che mi ami. Ne sono quasi certa.
In fondo siamo una coppia davvero ben assortita: siamo meravigliosi, quando stiamo insieme.
Sono tre mesi che Harry Styles non mi cerca, non è mai passato così tanto tempo.
Una vocina, piccola piccola, all’interno della mia testa, mi sussurra: “Jean, è andato”, ma non le do retta.
Io lo conosco. Tornerà. Mi chiamerà. Avremo i nostri due o tre mesi di felicità. Poi sparirà di nuovo, e ricomincerà tutto da capo.
Ha bisogno di me. Ha bisogno di me, accidenti.
Ed io ho bisogno di lui.
Alla radio parte “Little things”, è una melodia che conosco fin troppo bene. La spengo in fretta prima di sentire la sua voce. E sti cazzi.
Sono proprio curiosa di sapere a cosa pensa, ogni volta che la canta. Non gli ricorda proprio nulla? Ormai gli sarà venuta la nausea.
Io non la tollero più.
Maledico lui, la sua canzone, il suo gruppo e la sua fama, per l’ennesima volta.
Ormai m’è venuta la nausea pure di questo.
 
Giochiamo a tira e molla da quando avevamo sedici anni.
Evidentemente a noi piace così.
L’ho conosciuto al ballo della scuola: lui c’era andato con la sorella, io c’ero andata da sola.
Non m’aveva invitato nessuno, un classico.
Avevo passato la serata seduta ad un tavolino cosparso di petali rosa e bianchi, da sola, con il vuoto attorno manco avessi la peste, a guardare le coppiette felici scambiarsi saliva e mononucleosi, bevendo spumante scadente e sgranocchiando salatini gommosi.
E pensare che ci avevo messo ore per prepararmi, per scegliere il vestito…macché, tutto inutile. Invisibile ero, invisibile sarei rimasta. Che speravo?
Forse gli sarò sembrata diversa, trasgressiva. Ero solo seccata.
Mi si era avvicinato senza una parola, aveva preso il bicchiere di spumante che tenevo in mano e lo aveva mandato giù di getto.
-Un altro giro?-mi aveva chiesto. Non un sorriso, non un saluto. Aveva uno sguardo sfuggente: schizzava impazzito da una parte all’altra della sala. Era abbastanza strano e tormentato per avere solo sedici anni.
Decisi che poteva andare, valeva la mia attenzione.
O forse l’alcol decise per me, non saprei dirlo.
Avevo annuito, un po’ confusa, forse a causa dello spumante, o delle luci psichedeliche, o della musica vomitevole che quell’anno le Organizzatrici del Ballo ci avevano propinato.
Era tornato due minuti dopo, con due bicchieri di plastica rosa, ed un’altra bottiglia gocciolante.
Avevamo brindato alla faccia degli altri, tirati a lucido e impomatati, senza sentire nemmeno il bisogno di parlarci, né niente.
Osservavamo insieme il degrado della palestra, tutta festoni, coriandoli, rose e palloncini. E i nostri compagni, che si muovevano sgraziati a ritmo di musica, e i professori in abito da sera, più ridicoli che mai.
Il ballo all’ultimo anno delle superiori dovrebbe essere bandito: è una delle cose più inutili, tristi ed ipocrite dell’universo.
Attorno ad esso ruotano una miriade di illusioni, speranze, aspettative. E sembrano cascarci tutti.
Ma noi no, noi eravamo diversi già allora.
Già su quelle sedie di plastica, senza guardarci, a rifiutare il mondo e a rifiutarci l’un'altra.
È sempre stato così, da che ricordo. Lui parla, io ascolto. Io parlo, lui ascolta. Lui sta zitto? Taccio anche io. Non ci sono mai veri e propri dialoghi tra noi, solo tanto silenzio, interrotto ogni tanto.
È una relazione unidirezionale, secondo mia madre.
Detto in parole povere? Destinata, prima o poi, a finire.
 
Ricordo ancora quando mi aveva guardata, dicendo:-Andiamo via.-e quando ci eravamo ritrovati nel retro della scuola con una bottiglia vuota ed un risolino isterico.
Ricordo poco altro, a dire il vero. Il tempo e le bollicine dello spumante sono i nemici più accaniti della memoria.
Di una cosa sono certa: non ci eravamo baciati, né niente. Eravamo rimasti lì come dei dementi, a vomitare e a guardare le stelle, che sembravano pioverci addosso come la notte di San Lorenzo.
Credo sia stato amore a prima vista. Se di vista si può parlare, considerati la penombra della sala e il buio del parcheggio.
Ma quegli occhi, quello sguardo, sapevo non mi avrebbero abbandonata mai.
Impossibile negarlo: tutto di quel ragazzo mi affascinava.
Quando aveva cominciato ad albeggiare, saranno state forse le sei del mattino, gli avevo chiesto finalmente:-Come ti chiami?
Lui, con il capo posato sul mio grembo ancora fasciato nel vestito blu che, ne ero certa, non avrei mai più rimesso, mi aveva guardata a lungo senza dire nulla.
-Harry. Harry Styles.
L’avevo già sentito quel nome, solo che proprio non riuscivo a ricordarmi dove.
-Jean.-avevo detto, subito, senza che lui lo avesse chiesto.
Lo avevo sussurrato, come se fosse un segreto.
-Jean come?
-Jean Holden.
Di sicuro il mio nome non gli diceva niente di niente.
Si era alzato, senza aggiungere altro, senza nemmeno fare un cenno. Lo avevo guardato andare via, credendo che non lo avrei mai più rivisto.
Ubriaca fradicia com’ero, avevo sopportato le ramanzine epiche di mia madre, sommate al mal di testa più sconvolgente della mia vita, ancora con l’amaro in bocca per quel brusco saluto.
 
Quando la mia migliore amica Kelly mi aveva chiamata, non avevo risposto. Avevo ignorato le sue sei chiamate successive. Alla fine avevo risposto, ma più che altro per esasperazione.
-Jee?-sembrava su di giri. Kelly era sempre dannatamente felice per qualcosa. Qualsiasi cosa.
-Mm…sì?
-“Mm”? Come “mm”?!-Kelly detestava che le smorzassi l’entusiasmo.
Lei era andata al ballo con Max Sonoperfetto Parker, un bell’imbusto biondo con gli occhi azzurri, che più che ad un giocatore di calcio, somigliava ad un modello Calvin Klein. Quando dico che “sonoperfetto”, potrebbe essere il suo secondo nome, non sto esagerando. Max incarnava davvero l’ideale comune di perfezione. Sportivo, viso angelico, fisico scolpito, media altissima in ogni materia.
Suo padre era un medico, sua madre una psichiatra; viveva in una villa a tre piani, con tanto di domestica filippina. Max Parker era davvero stato baciato dalla fortuna.
Kelly gli moriva dietro da due anni, e quando lui le aveva chiesto di uscire la prima volta, quasi un mese prima, la perpetua felicità della mia amica, si era triplicata.
Era da sempre che mi sorbivo la dettagliata descrizione di quello che lei avrebbe fatto a lui e ai suoi vestiti, se solo ne avesse avuto l’occasione. Quale occasione migliore del ballo? Di sicuro la loro serata era stata molto più movimentata della mia.
E con “movimentata” mi riferisco alla Porche Cayenne di Parker che faceva su-e-giù nel parcheggio, per intenderci.
-Ho mal di testa.
-Lo abbiamo fatto!-la mia affermazione era stata schivata con abile maestria, e la sua esclamazione sembrava suggerirmi un sacco di domande da fare, alle quali però, avrei già saputo rispondere da sola.
Mentre frammenti della serata precedente-il vestito rosa di Kelly che sfilava fuori dalla palestra, la porta che sbatteva dietro di lei-mi martellavano contro le tempie, avevo registrato una serie di particolari.
Kelly non era affatto pentita.
Evidentemente Max non aveva fatto lo stronzo.
E, soprattutto, la sua prima volta in un’auto nel parcheggio della scuola, la sera del ballo, con un ragazzo con cui usciva da tre settimane, sembrava una notizia sconvolgentemente bella.
Così, avevo fatto finta di essere felice per lei, e mi aveva tenuta al telefono per secoli, snocciolandomi tutti i particolari più spinti e tutti i “fremiti della sua anima”, come per dire della sua-amica-proprio-laggiù.
Solo dopo due ore e ventisei minuti di cicaleccio incontrollato, aveva messo da parte la sua “Straordinaria Esperienza Sessuale” e mi aveva chiesto:-E tu?-e poi aveva aggiunto, quasi per giustificare il fatto di avermi completamente ignorata:-Non ti ho vista…
-Ho bevuto.-avevo detto. E mi ero sentita onnipotente a dirlo. E anche a farlo, onestamente.
-Tutta la sera?-sembrava confusa, e anche un po’…delusa.
Forse credeva che qualche cavaliere solitario si sarebbe fatto avanti con un “Ti va di ballare?” come nei film.
Avevo pensato ad Harry, e mi era venuto da ridere.
-Sì.-avevo sentito la gola seccarsi.-Con un tizio.
A Kelly erano sempre piaciute quel genere di cose.
Sapete, sì, le storie d’amore un po’ “fictional”, come quelle delle soap.
Infatti la reazione era stata quella sperata. Finalmente avevo la sua attenzione.
-COOOME? UN TIZIO? Chi? Come? Cosa? Perché? Quando? IL SUO NOMEEEEEEE!
Mi ero quasi compiaciuta, di essere riuscita a spostare il centro del nostro discorso su di me, ma il suo entusiasmo era svanito in un colpo secco, al solo sentirmi pronunciare:-Si chiama Harry Styles.
Avevo attorcigliato il filo del telefono attorno alla mano destra, mentre lei sbuffava, contrariata.
-Styles? Euh. Oh-Mio-Dio, Jee. Ma lo hai visto bene? Sarà alto quanto te, e largo il doppio! Dai, è uno sfigato, lo sanno tutti!
Avevo storto il naso, infastidita dai suoi commenti.
In realtà si era comportato un po’ da stronzo, ma mi era venuto spontaneo difenderlo.
-Non è uno sfigato. E non è nemmeno grasso, Kelly!-ero davvero così ubriaca da non essermene accorta? Ricordavo solo i suoi occhi, verdi come i miei.
-Jee, Harry Styles.-aveva fatto lei, con tono accondiscendente.-Andiaaaamo, può avere molto molto di meglio! Ti ricordi Abigail? Quella del corso di francese? È stata con lui, tipo un paio di mesi fa. Ha detto delle cose un po’…cioè, non mi piace giudicare le persone ma ehi! C’è stata insieme, lo conoscerà! Dice di non fidarsi e poi ANDIAAAAAAMO! Quanto hai bevuto, eh? Lo sanno pure i muri che è solo un ciccione strambo è basso. E poi è un cesso!-aveva continuato per mezz’ora buona, mentre io ero rimasta in silenzio, sforzandomi di ricomporre nella mia testa il puzzle di Harry Styles.
 
Ciccione. Strambo. Basso. Un cesso.
 
Credo che adesso Kelly non userebbe più quelle parole per definire Harry.
Adesso direbbe che è un palestrato, figo alto e sexy, ma non ne sono sicura.
Non parlo con Kelly da due anni, quasi. Da quando ha cominciato a non andarle più giù la mia storia con Harry. Raccogliere i miei cocci dopo ogni stupido litigio con lui rubava tempo prezioso alla sua vita perfetta con il ragazzo perfetto.
Forse si potrebbe scrivere una storia anche su di loro, ma probabilmente sarebbe di una noia morale e a forte sfondo sessuale.
Non le parlo da quando mi ha dato della masochista autolesionista. Che poi è lo stesso, ma presumo non lo sappia.
Fisso il telefono, sul tavolino basso del salotto. Forse però un po’ aveva ragione Kelly.
Potrei avere di meglio.
Harry non è stato l’unico ad attraversare la pubertà. Sono cambiata anche io. Sono diventata carina, e penso che se solo volessi trovarmi un ragazzo, non dovrei avere troppa difficoltà.
Se ripenso al compleanno di Hannah e alla mano di Patrick sul mio fianco, che mi attirava a sé, mi vengono quasi i brividi.
Pat è un bel ragazzo, davvero. Bruno, con gli occhi scuri, i lineamenti spigolosi che obbediscono ad una geometria perfetta, ed un lieve accenno di barba.
Pat è gentile. E divertente.
Pat non è Harry.
Il problema è proprio questo. Nessuno potrà mai essere al suo livello, per me.
E la penso così da molto prima della sua “trasformazione” o della sua “fama”.
Io amo solo lui, lui e il suo sadismo, lui e il suo menefreghismo, le sue paranoie. Lui.
 
Trasferirmi a Londra è stata una bella idea. Vado alla Brit. Ho preso teatro.
Calcherò qualche set importante, qualche migliaio di tappeti rossi, me lo sento: diventerò una delle più chiacchierate dello Star System.
Sono una brava attrice, chiedete in giro: lo pensano tutti. Nessuno finge meglio di me. Controllo perfettamente le mie emozioni: me l’ha insegnato Harry, e gliene sono grata, altrimenti non avrei saputo come sopravvivere a questi mesi. A questi anni.
Forse è giusto così. Lui per una botta di culo a farsi i soldi in giro per il mondo, ed io qui, rinchiusa nel mio mondo perfetto, a vivere dei soldi che mi ha lasciato la nonna. Che, per la cronaca, non sono neppure tanti.
Illusi, ecco cosa siamo.
Sai cosa sei, Harry? Sei disincanto.
Bussano alla porta. Dev’essere Leah, la mia coinquilina.
Lei fa danza, è una ballerina classica con la testa fra le nuvole. Un pugno d’ossa con le lentiggini e le occhiaie blu. Perde un mazzo di chiavi al mese. Ormai le chiavi del nostro appartamento ce le avrà mezza Londra.
Lascio i miei ricordi in camera da letto, e mi avvio stanca verso il salotto. È tardi.
Potremmo vivere benissimo in un bilocale, ma la nonna non avrebbe approvato. “Bilocale” per lei è sempre stato solo un’altra parola per “promiscuità” e “sifilide”.
Perciò abbiamo un piccolo angolo cottura, un salotto, un bagno e due camere da letto due metri per due. L’appartamento resta microscopico e davvero fuori mano, ma nei limiti della decenza.
Apro la porta sbadigliando, e tirandomi su gli occhiali.
-Leah, basta! Le chiavi te le ho duplicate due set…
Una risata mi blocca.
Leah non ride mai. Leah è la classica ballerina musona e fragile. È una delle migliori del suo corso. Peserà forse quaranta chili: soprattutto di nervi e determinazione.
-Non mi avevi mai scambiato per una donna, Jane.
Solo lui mi chiama Jane. Solo lui sa che lo odio.
Sono tre dannati mesi che non lo sento.
Gli salto al collo, facendolo traballare. Lui lascia cadere un borsone e mi avvolge stretto con le sue braccia. Mi lascia un piccolo bacio alla base del collo.
Succede tutto così in fretta che non ho nemmeno il tempo di capacitarmene.
-Sei un coglione, un coglione assoluto!- lo tempesto di piccoli pugni sulla testa.
Lui ridacchia, e non dice altro. Mi porta dentro casa con due falcate, e mi posa sul divano.
Indossa un jeans molto stretto, una maglia a righe e da sopra una camicia a quadri. Il giubbotto blu è lo stesso di sempre. Mi lascia senza fiato.
Lo guardo e non riesco a leggere nei suoi occhi. Non ci sono mai riuscita.
-Scusa.-mi scosta piano i capelli dal viso, come se avesse paura di sfiorarmi.-Sai com’è…
Faccio un’espressione strana:-No, onestamente non so com’è che stiamo insieme da tre anni a mesi alterni. Non so com’è, in effetti.
*
Spazio autrice (tadaaa)
Here I go again.
(Tonight we'll daaance, I'll be yours and you'll be miiiine)
Okay, basta, la smetto. Momento-serietà.
Il capitolo precedente era solo un assaggio, un prologo,
per l'appunto. 
La storia comincia così, in realtà. 
Una bella serata di dicembre, Jean riflette sulla
sua vita e BAM! Spunta lui, l'amore di una vita
che non si fa vivo da ben tre mesi e 
che io,personalmente, sarei pronta a schiaffeggiare
ripetutamente!
Ci ho impiegato molto tempo, e mi farebbe davvero
piacere sapere cosa ne pensate.
Una recensione non vi costa nulla, ma per me significa tanto.
Non voglio costringervi, ma altrimenti non proseguirò oltre:
la mia vita è già incasinata di suo!

Domande? Dubbi? Perplessità?
I'm here.
Alla prossima, spero.

Tod.

 
  
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