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Autore: Iryael    22/01/2014    0 recensioni
Ratchet racconta in prima persona l’esperienza della DreadZone: l'arrivo, la finta libertà dei gladiatori, le giornate scandite dai combattimenti, la fuga.
«All'inizio mi rifiutai di capire che quel che pensavo dei gladiatori, in realtà, era l'immagine che i mass-media vendevano agli spettatori. Ma il mio rifiuto non durò a lungo: bastarono pochi giorni a farmi aprire gli occhi.
Non esisteva paragone migliore del circo: noi gladiatori eravamo le fiere; mentre gli Sterminatori, le brillanti stelle dello spettacolo, erano domatori che si alternavano sulla pista dell'Arena.
Poi c'era lui, Gleeman Vox. Lui che aveva l'abito rosso del presentatore e coordinava la baracca, guadagnando sulla nostra pelle.
Fama, soldi e belle ragazze erano la nostra gabbia dorata. Quella vera, esplosiva, ce l'avevamo chiusa al collo.
Aprire gli occhi mi fece incazzare di brutto.
Nessun circo poteva permettersi di tenere un drago in gabbia. E loro - Vox e compagnia - l'avrebbero capito presto.»

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[Galassie Unite | Arco I | Schieramento]
[Personaggi: Big Al, Clank, Gleeman Vox, Nuovo Personaggio (Takami Kinomiya), Ratchet] [Probabile OOC]
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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[ 01 ]
Vengo accontentato
(ma forse era meglio di no)
 
Passato. 1 Ottobre 5401-PF
Incrociatore stellare USS Phoenix
 
Cominciò tutto nella maniera più banale dell’universo. Entrai sul ponte di comando, mi stravaccai sulla poltrona da capitano e cominciai la giornata attendendo che arrivasse qualche missione succulenta, giusto per rompere la noia. Negli ultimi tempi arrivavano solo missioni noiose, che consistevano nell’intercettare e impedire le malefatte dei Razziatori. Quelle preferivo passarle ai soldati e i ranger; io ambivo a qualcosa di più. Per me cercavo qualcosa di più eccitante di un attacco a sorpresa, qualcosa che mettesse alla prova ogni fibra del mio essere.
Insomma, avevo salvato le Galassie Unite tre volte, assieme a Clank, e non mi andava davvero di rimanere impantanato in qualche missione di terza categoria. Preferivo aspettare, e nell’attesa andare a smanettare su qualche navetta.
 
Quella mattina fu né più né meno come le altre. Un po’ più insipida, forse, perché non arrivarono missioni né notizie dalla gente che avevo spedito in giro. Così me ne andai nell’hangar beta, per rendermi utile: il grasso e l’odore del combustibile avevano sempre stuzzicato la mia creatività, e per rimettere a nuovo la biposto su cui stavo lavorando ne sarebbe servita davvero molta.
Dovevo ammettere che l’idea di sostituire Sasha come capitano della Phoenix si era rivelata piuttosto deludente. Durante la storia di Nefarious mi ero immaginato che dirigere un incrociatore stellare fosse una figata pazzesca, tutta azione e decisioni prese al volo; per questo, quando Sasha era stata eletta Sindaco di Kerwan, io mi ero proposto come sostituto. Però mi sono reso presto conto che le situazioni che mi aspettavo come odierne, in realtà, arrivavano una volta ogni diecimila.
Se Sasha mi avesse proposto di darle indietro il posto di capitano, glielo avrei reso al volo. La livrea viola comportava troppa burocrazia: ero un lombax d’azione, io, non un colletto bianco.
 
Arrivò il mezzogiorno, e con esso una chiamata di Sasha.
Ero appena rientrato dall’hangar beta, perché una capatina di tanto in tanto sulla plancia ce la dovevo fare, quando Clank m’informò della chiamata in arrivo. Diedi ordine di metterla sul monitor.
La prima immagine fu un bel primo piano che la prendeva dalla vita in su; in cui lei teneva le braccia incrociate. A giudicare dallo sfondo doveva essere nei giardini del Palazzo della Galassia, un posto carino per uno schianto di protagonista.
Misi il silenzio audio e cercai di figurare un discorso decente, ma Clank non mi concesse più di qualche secondo.
«Salve, capitano. Vedo che ti stai prendendo cura della mia vecchia nave.»
Sembrava entusiasta, chissà per quale motivo.
«Beh...l’ho sistemata un po’ e poi l’ho tenuta in funzione.» risposi carezzando la consolle. Clank e Al si scambiarono un’occhiata e scossero la testa.
Sasha rise nervosamente: «Naturalmente.»
Poi, scrollando la testa, mise su un’aria preoccupata che non mi piacque per nulla.
«Ad ogni modo...devo darti delle cattive notizie.»
Al ché mi accigliai anch’io: fui sul punto di invitarla a proseguire, ma fece da sola: «Come saprai, il Capitano Starshield è scomparso più di un mese fa. Mi hanno appena informata che è stato ucciso.»
«Occavoli...no!» mugolò Al, intrecciando le dita grassocce con autentico dispiacere.
Anch’io rimasi colpito dalla notizia. Conoscevo Starshield di fama e sapevo che lavorava per lo più nella Via Lattea. Avevo sentito dire che era scomparso in circostanze misteriose mentre la sua nave era attraccata all’astroporto di Twilion.
La mia coda spazzò l’aria, mentre chiedevo: «Ma...com’è successo?»
«A quanto pare è stato coinvolto in una specie di combattimento clandestino. Lo chiamano DreadZone.»
Disarmante. Ma le notizie più interessanti arrivarono dopo, quando disse: «Crediamo che sia stato organizzato da quest’uomo...» e fece comparire una foto sul monitor. Mostrava uno slademan che, già dall’immagine, prometteva di essere una vera tigna. «Gleeman Vox. È riuscito a mettere in piedi un vero impero mediatico nel Settore Ombra.»
Intervenne Clank, stupendomi con una pecca d’ignoranza non indifferente: «Il Settore Ombra?»
«È una zona che non ha leggi e si trova ai margini della galassia: molti altri eroi sono scomparsi lì ultimamente e temiamo che abbiano subito la stessa sorte.»
Al ché cominciai a pensare che fosse arrivato quello che attendevo da quasi un anno. Quell’occasione su diecimila, quella che mi avrebbe messo alla prova. Mi sentii elettrizzato.
«Ratchet, volevo solo avvertirti prima che - »
Il video si cancellò e l’intera plancia entrò nella situazione d’allarme rosso. Una nave sconosciuta si stava avvicinando e aveva agganciato le sue frequenze di teletrasporto sulle nostre.
«Oh-oh.» commentò Al, prima che la plancia venisse invasa da una serie di energumeni robotici armati. Facemmo giusto in tempo ad alzarci in piedi prima che quello più carino e coccoloso, grosso il doppio di Qwark, mi comparisse davanti e si chinasse su di me senza preamboli.
«Sei tu il lombax che chiamano Ratchet?»
«Ehm...» maledissi la pausa pranzo e il fatto che in plancia ci fossimo solo io, Al e Clank. «Non siete qua per sistemare il nostro motore interstellare, vero?»
Viste le armi che spianarono c’era da supporre una risposta negativa; ma se volevano giocare io ero pronto. Non pensai un solo istante: materializzai un RY3NO e feci fuoco prima ancora che Clank potesse obiettare qualcosa.
E tanti cari saluti alla paratia d’ingresso e agli ospiti inattesi.
L’esplosione ravvicinata ci sbalzò dietro la mia consolle, mostrandoci che i quattro che avevo appena disintegrato non erano arrivati da soli. Un aggeggio tipo taser mi centrò al petto, e tutto ciò che sentii in seguito furono una scossa elettrica e voci sfumate.
Persi conoscenza in troppo poco tempo per realizzare cosa mi fosse successo davvero.
* * * * * *
Momento ignoto
Luogo sconosciuto
 
Al momento in cui mi svegliai non avrei saputo pronunciare nemmeno il mio nome, figuriamoci articolare una frase intera. Seh!
Aprii gli occhi e mi trovai davanti due fanali marroni. Immensi, acquosi e decisamente troppo vicini.
Mi venne da urlare, ma il risultato fu infelice: io mi alzai di scatto, nell’agitazione, e fui assalito da un conato di vomito; mentre Occhi a Faro sgusciò come una scheggia sulla branda sopra la mia.
Dovetti svuotare lo stomaco sul pavimento prima di potermi concentrare di nuovo su chiunque fosse. Quando fui abbastanza abile da poter rialzare la testa la vidi sporta dalla branda, che mi guardava con aria spaventata. Dalla sponda non usciva più del necessario: la frangia, gli occhi e metà del naso.
«E tu chi diavolo sei?»
Rimase a fissarmi in silenzio. Inclinò un poco la testa, quel tanto che bastò per farmi scorgere un tatuaggio sotto l’occhio sinistro. TG. Dubitai che stesse per telegiornale.
Fossi stato dell’umore giusto magari avrei inclinato la testa anch’io, o magari avrei anche miagolato scodinzolando, ma in quel momento non mi passava nemmeno per l’anticamera del cervello.
La voce mi uscì più simile a un ringhio: «Non sono dell’umore per giocare.»
A quel punto si ritirò. Fu questione di secondi, poi uscì del tutto allo scoperto. Occhi a Faro era una bambina umana. Stavo troppo male per stupirmi o scandalizzarmi, ma di sicuro in un’altra occasione non avrei semplicemente pensato: ehi, qui mi prendono per il culo alla grande.
Al ché lei scese dalla branda come se stesse andando al patibolo e si esibì in un inchino profondo. Mentre era china mi mostrò il vambrace sul braccio sinistro, e da esso si generò un piccolo schermo olografico. Lettera dopo lettera, si formò una frase.
 
La prego, mi perdoni. Non volevo offenderla.
Mi...mi chiami come vuole.
 
Quando vidi quel sistema quasi mi venne da ridere. Pensai che doveva essere uno scherzo.
«Come vuoi, ti chiamerò TG.»
Decisi che avrei risolto la questione una volta rimesso, così passai oltre: «Ma non puoi parlarmi come tutti gli altri? Mica ti mangio.»
Lei incassò la testa fra le spalle e distolse lo sguardo.
La fissai per un paio di secondi netti, inebetito, poi intuii.
«Sei muta?»
Guardò un po’ altrove, e alla fine annuì.
Mi massaggiai le tempie con aria perplessa: ero in un posto che non conoscevo, avevo il fisico a pezzi ed ero in compagnia di una sconosciuta muta e senza nome. Niente male come inizio.
Sospirai. Magari ossigenare il cervello mi avrebbe fatto bene.
E in effetti fece bene al cervello, ma il mio stomaco entrò in un piena ribellione e mi fece sussultare. Portai una mano al ventre, mentre l’umana mi chiese con due gesti se riuscivo a camminare. Risposi che sì, ce l’avrei fatta se non fosse stata una maratona. Allora mi accompagnò in bagno, dove mi lasciò chino sul lavandino a imbrattarlo con quello che avevo nello stomaco. Lei uscì quasi subito con secchio e straccio in mano.
Quando alzai gli occhi sul piccolo specchio rettangolare, pensai che qualcuno mi avesse passato in centrifuga. Mi sentivo uno schifo; ero tutto indolenzito, con lo stomaco sottosopra e due borse infinite sotto gli occhi. Mal di testa no, grazie al cielo, almeno quello mi stava alla larga.
Vomitai un’altra volta e mi chiesi quanta roba avessi nello stomaco. Poi, con un gesto secco, aprii il rubinetto e feci scorrere dell’acqua per pulire alla bell’e meglio. La bambina ritornò poco dopo e mi allungò due compresse grigie. Fissai le pasticche come se potessero strozzarmi.
«No grazie.» dissi allontanando i farmaci. Lei li depose sul lavandino, mentre l’acqua ancora scorreva, poi fece comparire di nuovo lo schermo verdolino.
 
Ma le calmeranno il dolore...mi creda, se non le prende dopo sarà peggio.
 
«Non li voglio.»
La tentazione di infilarmele in gola, in realtà, era forte, ma per quel che ne sapevo potevano essere veleno. Di conseguenza volli andarci piano.
 
Non posso fare altro per aiutarla. Mi dispiace.
 
«Non è vero.»
Mi raddrizzai alla meglio e la guardai dritta negli occhi. «Dimmi dove sono.»
La scritta verdolina si resettò e, al suo posto, si compose un’altra frase.
 
Galassia Solana, Settore Ombra, Stazione spaziale DreadZone, Padiglione Sei, livello cinque, cella di contenimento 6-538.
 
Non ci capii niente, ma decisi di passare oltre anche a quello, per quieto vivere.
«Dove sono gli altri?» provai a chiedere. Lei si guardò intorno, agitata.
 
Era da solo, signore.
 
Mi venne un colpo.
Non ammisi quella risposta, anzi, mi portò sull’orlo di una crisi. Mi dissi: Sta scherzando! Ricordavo bene l’attacco. Con me c’erano anche Al e Clank: se non li avevano portati via, allora dovevano averli ammazzati e quella per me era un’alternativa impossibile. Solo immaginare quella possibilità mandò il mio cervello in tilt.
Afferrai la bambina per la tuta e le gridai che lei sapeva cos’era successo, che doveva sapere per forza. Le gridai anche un milione di altre cose, a dire il vero. Insulti, minacce e maledizioni per lo più.
Diedi letteralmente di matto, ma ottenni solo che il mio corpo impazzisse e lei scappasse di corsa, lasciandomi in preda a forti dolori lungo tutto il corpo.
Passarono diversi minuti in cui mi contorsi sul pavimento del bagno. Sentivo di avere un esercito distruttore dentro ogni fibra. Muoversi, anche solo per cercare una posizione che non provocasse dolore, era una tortura impossibile da evitare. Ci furono istanti in cui le fitte furono così intense che sperai nell’incoscienza.
Poi mi tornarono in mente le pillole sul lavandino. In quel momento mi sembrarono una salvezza. Mi insultai, finché non pensai che avrebbero potuto mandarmi direttamente alla fossa, e allora mi contorsi un altro po’ tra fitte lancinanti e indecisione.
Indecisione, che brutta bestia. Perché non mi fidai e basta? Forse perché avevo le vicende di Nefarious stampate nella memoria.
In ogni caso, riuscii a decidere di provare a prendere quelle dannate pillole. Al primo tentativo mi voltai e cercai di caricare il peso sulle braccia, ma ebbi uno spasmo e le braccia cedettero. Mi ritrovai punto e accapo.
Ci riprovai, e a quel tentativo riuscii a puntellare anche le ginocchia, prima di cedere. Battei con la fronte, ma se non altro non tornai disteso. Rimasi col culo all’aria e la coda che somigliava ad un fiore appassito.
Al terzo tentativo raggiunsi il lavandino, prima di essere stroncato dalle fitte e tornare di nuovo schiena a terra, a contorcermi tra crampi e spasmi. La nausea stava tornando alla carica: abbrancai il secchio giusto in tempo per non imbrattare il pavimento e vuotai lo stomaco.
Brutti momenti, decisamente brutti. Mi parvero infiniti.
Poi, finalmente, la buona stella si ricordò della mia esistenza. Mi accorsi della sagoma della bambina solo quando mi sovrastò. La vedevo leggermente sfuocata, ma riconobbi che si stava mordendo un labbro. Fu lei a prendere le pillole dal lavandino e ficcarmele direttamente in gola, così che non potessi sputarle. Poi percepii un sorso d’acqua fresca in bocca. Un sorso, non di più, ma fu sufficiente a stimolare un nuovo conato. Le pillole tornarono fuori praticamente integre, e allora la bambina se la risolse in un altro modo. Si rialzò, si allungò verso un pensile, e quando tornò inginocchiata reggeva in mano un hypospray.
Imparai che quella creatura non conosceva la delicatezza, visto che maneggiò la siringa come fosse un coltello. Tirò giù il colletto e PAM! Un colpo secco e poi il rumore dello stantuffo che iniettava il liquido.
E dal fuoco passai al ghiaccio: se prima avevo un esercito di soldati ubriachi che mi sconquassava le interiora, da quel momento nelle mie vene cominciò a scorrere azoto liquido. Freddo e caldo si alternarono, tremai come una foglia e cominciai a balbettare frasi sconnesse.
Infine, dopo aver sperimentato una mostruosa vertigine, caddi in una specie di mugolante dormiveglia.

 

   
 
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