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Autore: Judee    23/01/2014    2 recensioni
Vedo la curva del suo mento, i denti bianchi perfettamente allineati, le labbra sottili, pura ambrosia, esplosione di dolcezza, zucchero senza colpa, che ammaliano, e quando le guardi riesci solo a pensare a come deve essere baciarle, assaggiarle, sentirle su di te. Vedo la fessura tra di esse, il naso dritto, le guance morbide, le fossette. Due piccole incavature, che circondano il suo sorriso, aggiungendo nettare al miele. Sta sorridendo.
“Annie”
*******
Genere: Fantasy, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Finnick Odair, Johanna Mason, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO QUINTO
Gli intrighi del potere. Non puoi vincere, ma ci sono delle alternative al battersi - 

 
 
Continuo a rigirarmi nel letto, senza prendere sonno. Tamata, nella stanza accanto, fa lo stesso. Sento il letto che cigola sotto al peso del suo corpo che si muove, sento le sue dita attorcigliare nervosamente il pezzo di corda che le cinge il polso, mentre i polpacci sfregano contro le lenzuola ruvide. Il suo respiro è affannoso, ma so che sta cercando di tapparsi la bocca con il cuscino, perché nessun deve vedere, nessuno deve sentire. Vorrei alzarmi, andare di là, consolarla, stringerla a me e dirle che andrà tutto bene, come quando eravamo ancora bambine. Lentamente, sfilo una gamba e poi l’altra, appoggio i piedi sul pavimento, alzo la testa e lasci che il sangue defluisca poi, lentamente, cercando di non fare rumore, attraverso la mia stanza, esco sul corridoio e spingo la porta della camera di Tamata.
“Tamata? – sussurro – Tamata?”
“Annie” risponde lei, la voce impastata dalle lacrime che cerca di cancellare.
“Posso entrare?” chiedo, cercando di abbassare il tono di voce il più possibile. La luce della luna rischiare leggermente la penombra della casa, e vicino alla finestra si vedono granelli di polvere immobili, sospesi nell’aria.
Sento Tamata mettersi a sedere, poi la sua voce mi invita ad entrare. Apro del tutto la porta, e la luce della sua lampada ad olio mi colpisce gli occhi. Mi avvicino al suo letto, dove lei mi fa posto , e ci stendiamo una accanto all’altra. Non una parola. Solo sguardi. La sento tremare, ma alla fine il suo respiro si fa piano piano un po’ più calmo, fino a quando il suo petto non smette di sollevarsi affannosamente. Allora, con calma, comincio al accarezzarle i capelli, dalle radici fino alle punte, cullandola come una bambina. La sua mano si intreccia alla mia sotto al lenzuolo, mentre con il piede batte sul pavimento. Rimaniamo così, ferme, non so per quanto tempo, io che la cullo e lei che si aggrappa a me. Passa un’ora, forse due. Alla fine, a fatica, Tamata si riaddormenta, la testa appoggiata alla mia spalla, le nostre mani ancora strette. Le lacrime sul suo viso sono ora secche, e il cuscino non è più premuto sulla faccia per nascondere il terrore che le mangia l’anima. Addormentata, Tamata sembra una di quelle principesse che vivono nelle favole di piazza, quelle che i nonni amano raccontare ai propri nipotini, forse per allontanare un po’ dalla loro mente l’orrore che sarà il loro futuro. Cercando di non svegliarla, mi libero dalla sua stretta e mi avvicino alla finestra, perché improvvisamente mi è venuto un gran caldo. Spalanco i vetri, e la corrente solleva la delicata stoffa bianca della mia camicia da notte, che mi danza attorno alle caviglie. La luna, ora un po’ più bassa nel cielo, tra poco dovrà fare posto alla luce dirompente del sole, ma fino ad allora è lei l’unico faro nella notte, l’unico rifugio per i marinai dispersi come me. Con la mano sistemo una ciocca ribelle di capelli, per poi inspirare l’aria salata del mio mare, della mia casa. Mi volto a guardare Tamata: è tranquilla, ora. Agilmente, infilo il piede oltre la cerniera della finestra, appoggiandolo sul muretto sottostante. Mentre scavalco, tengo le mani ben ancorate al legno delle persiane, per rimanere in equilibrio. Quando sono in piedi, cammino in punta di piedi fino alla scala  di legno appoggiata al tetto spiovente, iniziando a scenderla cercando di non perdere l’equilibrio. Arrivata in fondo, appoggio i piedi sull’erba secca che colora il mio giardino, e mi ricordo solo ora delle ciabatte accuratamente allineate ai piedi del letto. Sbuffo, ma non ho assolutamente voglia di tornare indietro, e m’incammino verso la spiaggia. Oltrepasso il basso cancelletto di legno, percorro il vialetto che separa la mia casa dalla strada, cammino per una decina di metri, svolto a destra. Passo sotto al ponte della ferrovia, svolto all’angolo del Villaggio dei Vincitori. Mi fermi un momento, e vedo che la luce della casa di Finnick è accesa: forse anche lui non riesce a dormire, come me e Tamata. Tentenno, vorrei andare da lui, vorrei che mi stringesse tra le braccia, che mi dicesse che va tutto bene, che non possono sorteggiarmi, perché non possono, è assurdo che proprio io verrò scelta. E poi mi dicesse di stare tranquilla, perché  tanto i ragazzi del  Gymnasium smaniano sempre per offrirsi, e che l’autorità di mio padre non fa paura a nessuno, quindi se anche venissi scelta nessuno avrebbe timore ad offrirsi al mio posto. Vorrei tutto questo, e poi vorrei un bacio sui capelli, una carezza sulla fronte, un abbraccio infinito e mozzafiato, vorrei sdraiarmi accanto a lui, sentire le sue mani accarezzarmi i capelli, i suoi piedi giocare con il bordo dei miei vestiti. Vorrei, vorrei morire dentro ai suoi baci, soffocare nella stretta delle sue braccia, addormentarmi sul suono della sua voce. Sento che dentro qualcosa mi si spezza, come se la presenza di Finnick a soli dieci metri da me avesse fatto scaturire tutta la mia solitudine, tutta la mia infinita lontananza da un mondo che non capisco, che odio. Vorrei correre, spalancare la porta, sdraiarmi con lui e non pensare a niente, ma stasera non posso, non oggi, oggi devo stare da sola , questa notte non è fatta per stare in due. Devo farmi forza per andare avanti, oltrepassare il cancello semi aperto, allontanarmi da lui, per raggiungere la spiaggia. Le onde del mare mi bagnano i piedi e l’orlo della vesta bianca, mentre alcuni schizzi salati colpiscono la pelle chiara della mia faccia. In piedi, investita dalla luce della luna, sembro quasi eterea, come una fata. I flutti, lo sciabordio delle onde, è una canzone eterna che mi chiama, mi strega, e lentamente, un piede avanti all’altro, lascio che l’acqua mi bagni tutta, mi ricopra, fino a quando non solo altro che un corpo che galleggia, in balia delle onde del mare. A mezza voce comincio a canticchiare una vecchia canzoncina, così bassa che nemmeno io riesco a sentirmi. Protetta dal calore dell’acqua, sento l’angoscia impossessarsi sempre più di me, mentre i capelli e la camicia da notte fluttuano attorno al mio corpo come le ali di una farfalla. Guardo la luna, il mare che mi circonda, la spiaggia vicina, le alghe che navigano accanto a me. Agito le mani ed i piedi. Nuoto fino a toccare il fondo con i piedi, e torno indietro, galleggio, mi immergo. Non riesco a smettere di pensare. Neanche il mare riesce a cancellare quello che ho dentro. Vorrei sfogarmi, ma non so come. Picchio le mani contro l’acqua, ma l’elettricità che mi scorre nelle vene non svanisce. Nuoto, mi immergo, tocco il fondo, esco dall’acqua, corro, torno in acqua. Canto. Salto. Ma l’elettricità è sempre lì. Le mani mi fanno male, tanta è la forza con cui stringo i pugni. Ma non voglio pensare. Non devo pensare. Le lacrime non riescono nemmeno ad uscire, sono bloccate. Voglio urlare, ma sarebbero tutti attirati dalle mie urla. Corro, corro. Cado, la sabbia mi sporca le mani. Respiro affannosa. Poi crollo. Mi accascio a terra, senza rumore. Come una farfalla che muore. I singhiozzi ora scuotono le mie spalle, il mio lamento si leva alto nel cielo. perché mi sento così? È solo una Mietitura. Come tante. O forse no. Tamata non aveva mai pianto. Non aveva mai avuto paura. A lei i giochi piacevano, in un certo senso. A volte la sera li guardava. Sono sempre stata io la debole della famiglia. La vigliacca, la codarda. O forse no? Tamata è cambiata sotto ai miei occhi senza che io me ne accorgessi? Ha smesso i costumi della bambina per entrare in quelli della donna? Ha mentito davanti ai nostri genitori per tutto questo tempo? I suoi applausi erano solo una messa in scena? Ma sono così cieca, io? Non mi accorgo nemmeno se mia sorella sta male? No, non può essere. Piango, piango tanto. Mi odio. Come ho potuto non accorgermi che mia sorella era sola esattamente come me? Come? Sono così chiusa dentro alla prigione della mia mente, che non mi accorgo nemmeno della figura che si avvicina. Non sento che mi chiama. Non sento che mi sfiora la mano, che mi solleva delicatamente da terra. Quando sento che i miei piedi non toccano più terra, apro gli occhi. Il viso di Finnick è incredibilmente vicino al mio, teso per lo sforzo di portarmi in braccio. Le sue spalle si alzano e abbassano allo stesso ritmo delle mie. Le sue gambe battono contro le mie. Il suo corpo è premuto contro il mio. Caldo contro freddo. Forza contro debolezza. Sicurezza contro disperazione. Mi rannicchio, stringendomi a lui. Mentre cammina, guardo il mare che si allontana. Le onde. Le orme che ho lasciato sulla sabbia. La strada che ora stiamo percorrendo, verso il Villaggio dei Vincitori. Oltrepassiamo il cancello. Le luci nelle altre case sono spente. Finnick sale le scale di legno, apre la porta con il piede. Mi porta dentro alla sua casa, dove tutto trasuda solitudine. Con delicatezza, mi lascia cadere sul divano di velluto acquamarina, e si siede accanto a me. Stringe le mie mani, sussurra il mio nome come una preghiera. Mi guarda, fisso. L’azzurro delle iridi si perde nel nero delle pupille, come quel giorno al mare. Una tristezza assoluta li allaga. È colpa mia?
“Finnick?” lo chiamo.
“Annie” mi risponde. Sorrido. Mi piace come il mio nome suona sulle sue labbra.
“Che ore sono?”
“Le quattro e mezza”
“Ah”
Il silenzio cala, di nuovo. Finnick mi guarda, di nuovo. Io lo guardo, di nuovo. È bello, bellissimo. Con la mano accarezzo il suo viso, lo attiro a me e lo bacio. Sento le sue labbra premersi sulle mie. Quando ci stacchiamo, mi tiro su e mi siedo diritta sul divano, lui accanto a me.
“Come ci sei finita in mezzo al mare nel cuore della notte?” chiede, apprensivo.
Chiudo gli occhi, e, con mia sorpresa scopro di non saperlo affatto. O meglio, sì, ma è stato più un insieme di cause, che un motivo solo, a spingermi a fare quello che, alla fine, è stato un tentativo di affogarmi.
“Non lo so”
“Dai Annie. Nessuno si getta in mezzo al mare così perché gli va”
“È stato un insieme di cause, credo. Avevo raggiunto un punto di saturazione. Non ce la facevo più”
Finnick mi guarda, triste. Sa che giorno è domani.
“La Mietitura”
“Eh già”
Mi cinge le spalle.
“Non verrai mai sorteggiata. Voglio dire, non ha mai chiesto tessere, giusto? E poi ci sono sempre quelli del Gymnasium. Ho sentito dire che una certa Karen si offrirà volontaria. Tipa tosta, credo”
“Francamente Finnick, questo non mi rassicura per niente. Conosci mio padre, no? Non vedeva l’ora che compissi dodici anni! E ora che anche mia sorella è sorteggiabile, sembra quasi che cammini a tre metri da terra! E poi, sai benissimo che se venissi scelta, nessuno si offrirebbe. Voglio dire, chi si metterebbe contro un uomo di centoventi chili il cui più grande sogno è vedere una figlia nell’Arena?! Avrei paujra anche io!”
“Annie, stai tranquilla! Hai solo un bigliettino!”
“Vorrei ricordarti che qui non sei esattamente la persona più indicata per confortarmi sulle possibilità di essere pescati”
“Oh Dio, Annie! – dice, alzando gli occhi al cielo – Io avevo cinquanta bigliettini! Tu uno!”
“Però nessuno del Gymnasium si è offerto al tuo posto” puntualizzo.
“Si dà il caso che quell’anno la scuola sia rimasta chiusa. Ma va bè. Torniamo al nostro discorso: perché buttarsi nel mare invece che venire qui e bussare alla porta?”
“Non volevo disturbarti”
“Annie. Quando mai ti sei posta il problema di disturbarmi?”
“Questa volta era diverso. Sentivo che era una cosa che dovevo fare da sola”
“Magari la prossima volta passa, così almeno ti eviti una broncopolmonite”
“Ti avviserò un paio d’ore prima, d’accordo?”
Ride.
“Perfetto”
Sorrido anche io, poi la pressione delle sue labbra mi impone di smettere. Ma questa è un’occupazione decisamente più interessante.
“Che ore sono?”
“Le cinque e mezza”
“Di già?! Cavolo, devo andare!”
“Ma se la Mietitura è alle quattro! Oggi nessuno va al lavoro. I tuoi si alzeranno tardi”
“Mio padre si alza presto a prescindere. E nonostante tu gli stia simpatico più simpatico di me, credo che rapirmi nel cuore della notte non sia il modo migliore per avere a che fare con lui”
“Io non ti ho rapita!”
“Secondo te lui come la vedrebbe?”
“E va bene! Ma tieni questo – mi passa uno dei suoi maglioni – Fuori fa freddo”
“Finnick! Viviamo vicino al mare, non in mezzo alla neve! Fa caldo! È ESTATE!”
“Tu mettitelo. O non te ne vai di qui”
“Ok! Che scatole”
“Piantala e vai”
Mi bacia sulla porta.
“A dopo”
“A dopo”
Faccio qualche passo in avanti, poi lo chiamo.
“Finnick!”
“Sì?”
“Possa la fortuna essere sempre a tuo favore”




***







È da tre giorni che non esco da questa cella. Ho paura. Stanno progettando una nuova, più terribile tortura? Un nuovo modo per farmi male? Spero di no. in questi rari momenti di lucidità, sento che non uscirò mai da qui. Poi, quando la mia mente prende il volo, comincio a sognare che Finnick venga a prendermi. Ma come? Non so neanche se è vivo! Non so nulla dei tributi della settantacinquesima edizione degli Hunger Games, eccetto quelli che si trovano qui. E credo che per loro sarebbe meglio essere morti nell’arena, per come stanno le cose ora. Li sento urlare, spesso. Anzi, sempre. Per ora io sono stata più fortunata: alla fine sono stata portata in quella stanza solo sette volte. Le urla di Johanna e Peeta si sentono ogni giorno. Sempre. Mi chiedo come facciano ad essere ancora vivi. Io non sono così forte. 










Angolino della vergogna (più assoluta)


Ciao gente! C'è qualcuno? Mi sa di no :(
By the way, ho aggiunto questo capitolo per farmi perdonare l'IMMENSO ritardo degli altri... Spero vi piaccia! Come vedete è più lungo, ma mi sembrava impossibile da spezzare, no? Credo. Ho voluto (tentare) di dare ad Annie ed a Tamata qualcosa che assomigliasse ad un rapporto (in senso spirituale, ovviamente) e raccontare di come entrambe vivono la Mietitura. E poi, volevo che il rapporto con Finnick avesse una connotazione un po' più spiritosa, dato che si tratta pur sempre di due giovani. Non so se si capisce molto bene la storia del padre: in sostanza è un omaccione grande e grosso che picchierebbe chiunque osasse prendere il posto delle seu figlie, qualora fossero sorteggiate. 

Detto questo, grazie e Yvaine_ e SweetieOwl per le loro recension, molto apprezzate. Ovviamente, l'invito a recensire è esteso a tutti!


Un bacisssssimo

Judee



P.s.: il titolo viene è una frase pronunciata da Obi-Wan Kenonbi in Star Wars, saga che DOVETE ASSOLUTAMENTE VEDERE, CHIARO?! é UNA MERAVIGLIA. Besos <3
  
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