“Eccomi.” Si sedette di fianco a me “Hai novità su tuo fratello?”
“Torna oggi. Dicono che stia bene.”
Parlammo per una mezz’oretta, o meglio, lei parlò. Io mi limitati ad annuire di tanto in tanto ma continuavo a distrarmi guardandola. Devo ammettere che è figa… ma sembra le manchi l’anima, mi dà i brividi.
“Ci vediamo tra due giorni.”
“Salutami tuo fratello.”
Mi diressi alla porta.
“Thomas.” Mi girai verso di lei. “Ta va di venire a mangiare qui domani sera?”
“Forse.”
“In ogni caso ti aspetto per le 18.”
“Ciao.”
In casa c’erano più di 25 gradi e io avevo addosso il golfino. Quando Daniel arrivò era irriconoscibile. Pallido, magro e i capelli neri si erano allungati cadendogli sugli occhi e dandogli un’aria inquietante. Ma come al solito rideva. Lo abbracciai.
“Daniel, promettimi che non andrai più in quel posto di merda!”
“Ci proverò. Perchè non ti togli il golfino? Hai il sudore che ti gocciola sulla fronte.”
Mi asciugai con la manica.
“Ma ho la pelle d’oca per il condizionatore.”
Si fece serio, maledettamente serio.
“Il condizionatore è spento. Non fare lo stupido, toglitelo. L’ho capito…”
“Scusa, non adesso.”
Mi faceva male toglierlo per due motivi: il tessuto a contatto mi faceva bruciare le ferite e poi non volevo che lui le vedesse.
“Thomas, guardami negli occhi. Promettimi che non lo rifarai!”
Lo guardai ma non risposi.
“Thomas!”
“Ci…ci proverò.”
“Ti odio quando fai così!”
Se ne andò in un’altra stanza.
Nel frattempo arrivò mio padre. Sentì solo l’ultima frase; questo gli bastò per farlo incazzare. Mi afferrò per un braccio, cercai di non urlare, e mi portò in cucina.
“Thomas, tu sei la rovina di questa famiglia. Da quando sei in questa casa non fai altro che far star male mio figlio. Non so cosa hai fatto, ma se sento ancora che lo ferisci, giuro che hai finito di vivere. I figli delle puttane non meritano di avere una famiglia. Tu non vali niente.”
Io e Daniel da piccoli frequentavamo lo stesso asilo e giocavamo assieme. Qualche anno dopo dovette cambiare scuola, quindi chiese a suo padre di adottarmi. Ci mise un bel po’ per convincerlo. “Gli avevo detto che avresti solo procurato un mucchio di guai!”
Io e Daniel eravamo sdraiati sul tappeto della stanza. Lui lanciò una pallina da tennis contro il muro, la presi al volo e la lanciai a mia volta. Continuammo così per quasi un'ora, poi Daniel si tirò su e si sedette.
"In ospedale ho conosciuto una ragazza."
"Ah si?!"
Feci il finto interessato aspettando che si decidesse a lanciarmi la pallina.
"È capitata per sbaglio nella mia stanza."
"Ok."
"Dai Tom!"
Finalmente lanciò la pallina... contro il mio petto.
"Ehi, fa male!"
"Senti, adesso ti porto da lei."
"Per forza?"
Si alzò e mi trascinò in macchina con lui.
"Dan."
"Si?"
"Questa me la paghi."
Sorrise.