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Autore: rekichan    08/06/2008    2 recensioni
«I messaggeri caduti dal cielo continuano a chiedere agli uomini di ricordare questa rivolta contro Dio, rinnovando l’esecuzione del brano del diavolo che celebra quel tradimento.»
[Yoko Matsushita; Yami no Matsuei] Prima classificata al concorso: "Peccato"
Genere: Triste, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La musica si diffonde dalla cima della cattedrale, in un tortuoso ritornello di note cupe e penetranti che ora innalzano, ora avviliscono l’animo degli abitanti del quartiere

Disclaimer: Elian e Sarasvathi sono miei e miei soltanto. L’Otello, ahimè!, è di quel geniaccio di Shakespeare, ma sto lottando per avere i diritti.
Credits:
Alcuni per il peccato s'innalzano e alcuni cadono per la virtù. (William Shakespeare)
Note dell'Autore: fanfiction prima classificata al concorso “Peccato” indetto da Akane, che ringrazio tanto per avermi dato la spinta a scrivere questa fanfiction e per la splendida recensione.

Oltre che per il tesserino meraviglioso ù_ù

Ora vi lascio alla storia.

Un ultimo grazie a Kei_saiyu che si è subita le mie paranoie sull’attinenza al contest di questa fanfiction e, soprattutto, continua a sopportare le mie uscite assurde (e idolatre XD), su Sarasvathi.

Ci si può innamorare di un proprio personaggio?

 

 

 

«I messaggeri caduti dal cielo continuano a chiedere agli uomini di ricordare questa rivolta contro Dio, rinnovando l’esecuzione del brano del diavolo che celebra quel tradimento.»

[Yoko Matsushita; Yami no Matsuei]

 

La musica si diffonde dalla cima della cattedrale, in un tortuoso ritornello di note cupe e penetranti che ora innalzano, ora avviliscono l’animo degli abitanti del quartiere.

È nata una leggenda attorno al misterioso violinista notturno: chi sostiene sia un artista fallito, chi un vagabondo solitario; chi ritiene che la melodia sia talmente bella e malinconica da far pensare al lamento di un angelo.

A tratti, muta.

Si fa dura. Agonizzante. Furiosa.

La sofferenza cresce, evocando nelle menti degli ignari ascoltatori tutte le pene che paiono straziare il cuore del musicista.

La litania si ripete incessante ogni notte, tanto che è entrata a far parte del piccolo mondo del quartiere che circonda la cattedrale gotica, le cui guglie disegnano ombre confuse sulla pavimentazione della piazza principale.

Tuttavia, è da un po’ di tempo che la musica - all’incirca a metà nottata - si interrompe. A volte per dieci minuti, a volte per ore; a volte riprende solo al mattino, più dolce e gioiosa che mai.

Elian ne conosce il motivo. E se ne strugge.

Elian, eterea figura dai boccoli rossi e grandi occhi d’oro.

Elian, che ogni sera si spoglia dell’impalpabile veste bianca, sostituendola con pesanti abiti in lino.

Elian, che sale ogni notte sulla guglia più alta della cattedrale, senza ricordarsi da quanto quella visita ha smesso di essere uno spiacevole dovere imposto da Raffaele.

Si reca al centro della spirale musicale. Si fissa attorno. Lo vede.

Depone le ali e si gode la notte, solo per pentirsene il mattino seguente quando, libero dall’incantesimo delle note del violino, si rammenta di essere un angelo.

«Sei qui anche stasera, Elian? A quanto pare Dio deve essere diventato cieco, se non vede nulla.»

Beffarde parole scortano la musica che, all’arrivo di Elian – quasi ad accompagnare la sua presenza – si fa più delicata.

L’angelo dirotta la propria attenzione sulla figura del violinista.

Piccolo e sottile; sembra navigare nella camicia rosso sangue, che lascia intravedere il torace efebico, e nei neri pantaloni da concerto; i lineamenti affilati sono sottolineati dai riccioli scuri che ricadono attorno al volto.

Ha la pelle candida, quasi trasparente. Ogni volta, Elian si illude di poter scorgere le vene bluastre sotto quella sottile epidermide e, ogni notte, si sbaglia, facendo sogghignare la creatura.

«Dio sa tutto.»

Risponde all’affermazione precedente con la sua voce da contralto, cercando di ignorare le labbra sottili e ghignanti del violinista.

«Il che equivale a non sapere niente.»

Cinico fino alla nausea, Elian lo conosce e sa – tragicamente sa – che non vale la pena discutere con lui.

Eppure, risponde. Sempre.

«Perché affermi queste cose?»

«Per lo stesso motivo per cui tu non lo fai.»

Abile dialettico; abile con le parole.

Una sera di non molto tempo prima, Elian aveva constatato che sapeva usare bene la lingua.

La replica del violinista era stata un malizioso:

«Non solo per parlare.»

E aveva passato voluttuosamente la lingua rosa sulle labbra esili e carminie.

Elian, ancora una volta, si morde il labbro carnoso; studia la creatura, specie il volto.

Il mento lievemente pronunciato poggia sul violino e le dita sottili fanno danzare corde e archetto.

È sensuale, nel suo movimento ritmico; o, forse, un umano lo avrebbe trovato tale.

Elian non sa che dire. Non sa se è bello o brutto; non riesce neanche a capire se è maschio o femmina: il torace è piatto, ma i pantaloni aderenti non mostrano forme ambigue.

In fondo, sa benissimo che non è nessuno dei due, in realtà. È come sé: sono niente e possono essere tutto. Come dev’essere.

Tra loro c’è il tacito accordo di usare il maschile; eppure ci sono delle serate in cui il violinista pare una donna, altre in cui è palesemente un uomo.

È cangiante; volubile. Come la sua musica che ora si spande ironica per la città.

Elian lo odia per questo.

Perché è mutevole; perché è beffardo; perché sa farsi odiare e un angelo non dovrebbe farlo.

Ma Elian, piccola bambola dagli occhi d’oro, lo fa. E lo odia talmente forte da amarlo.

E non dovrebbe fare neanche questo.

«Vieni qua, Elian.»

Il diavolo gli sorride, chiaro invito ad avvicinarsi. Elian scruta per un attimo i magnetici occhi scuri, prima di obbedire.

Sa che alla luce non sono poi così neri, ma screziati di sanguigno.

E anche la mutabilità delle sue iridi lo infastidisce, perché quegli occhi sono così belli in confronto alla sua dorata staticità.

«Canta per me, Elian.»

Chiede il diavolo.

Elian getta indietro i boccoli rossi; inspira a fondo e canta.

Il violino, tace.

 

Elian non ha mai capito perché al diavolo piace tanto sentirlo cantare.

In fondo, la sua voce non è al livello di quella di un Serafino o di un Cherubino. Anzi, non raggiunge neanche le trillanti tonalità degli Arcangeli.

È semplicemente una voce. Bella, certo, ma normale.

Eppure, quando canta, Elian dimentica tutto. Si sente pieno d’amore e di vitalità. Canta ed è felice. Canta e chiama quel Dio a cui il suo cuore è devoto e che continua ad invocare incessantemente.

Sempre. E si sente libero, come solo un angelo può sentirsi quando è consapevole di partecipare alla sinfonia d’Amore voluta dal Signore.

Le note vibranti che escono dalla sua gola riescono a far tacere il violino.

Il diavolo si fa da parte; depone lo strumento e ascolta, sognando un passato lontano di cui non conserva ricordo tangibile.

«Canti bene.»

Afferma al termine di ogni esibizione. Elian sorride e arrossisce, umilmente.

«Canto nei limiti delle mie capacità.»

«Non essere umile. L’umiltà è la peggior superbia, non lo sai?»

Rimprovera il violinista. E la magia è spezzata.

Il diavolo riprende il violino e ora la musica è furibonda; struggente; cattiva. Mira ad offendere ed Elian la percepisce come una bestemmia.

In effetti è così. E l’angelo lo sa. Sa che è un mezzo del diavolo per offendere Dio, ma allo stesso tempo la melodia è così triste che non riesce a rimproverarlo.

È un lamento, e come tale non può essere interrotto.

Sarebbe un peccato impedire ad una creatura tormentata il proprio sfogo. Eppure ad Elian non sembra sofferente, né tantomeno angosciante.

È semplicemente un urlo. Un lento e prolungato grido che spande la propria eco per tutta la città.

Lo inquieta.

L’angelo è spaventato e attratto da quel suono. Vorrebbe confortare il diavolo, ma non sa come fare. Vorrebbe urlargli di smetterla, ma le parole gli muoiono in gola.

Può solo ascoltare, Elian. Ascoltare e ammutolire di fronte alla potenza di quella musica generata, non dall’amorevole vibrazione delle corde vocali, bensì dal gretto legno di uno strumento umano.

Alla fine, trova il coraggio di parlare; vano tentativo di far cessare quell’offesa non verbale a Dio.

Ad una creatura dannata non dovrebbero essere concessi suoni tanto belli.

«Smettila, Sarasvathi! Smettila!»

Urla. Il diavolo ride; sguaiatamente ride e risponde.

«Non nominare il mio nome invano, Elian!»

«Il tuo nome… tu non sei degno di un nome, demonio!»

Il violino abbassa i toni. Gli occhi scuri del diavolo si portano sull’angelo.

Lo scruta.

Elian si sente penetrato da quello sguardo serio e sprezzante.

Sarasvathi è triste. Lo ha offeso.

«Dio disse ad Adamo di dare un nome ad ogni creatura dell’Eden. I suoi discendenti mi hanno dato un nome e, in quanto possessore di questo, io esisto nella sua funzione e di esso sono degno.»

La voce è bassa, come la musica.

È un sussurro, ed Elian lo percepisce a malapena, in quanto coperto dalle note.

Però ricorda quella melodia, così come la prima delle tante domande poste al diavolo.

 

«Chi sei?»

«Mi hanno dato molti nomi. Sono stato chiamato Hathor dagli egizi; ho indossato le vesti dorate di Apollo per i romani e i panni della musa per i greci. Sono l’aspirazione di ogni essere umano. Vogliono assomigliare all’Altissimo, ma non vi riescono e possono raggiungere soltanto me. Sono il desiderio; sono l’appagamento… sono tutto ciò che si ambisce e il suo contrario. Sono tutto e niente, ma tu puoi chiamarmi Sarasvathi.»

«Come mai Sarasvathi?»

«È il nome che più mi aggrada tra quelli che mi sono stati dati. Ma puoi abbreviarlo in Sara.»

«Mai sentito di un diavolo che si chiama Sara.»

«Sarasvathi è troppo lungo da pronunciare.»

 

Era così che tutto aveva avuto inizio.

Era così che tutto sarebbe continuato.

Elian arrivava. Sarasvathi suonava.

Elian cantava. Sarasvathi ascoltava.

Elian faceva domande. Sarasvathi rispondeva.

Elian lo ammirava col candore di un angelo. Sarasvathi lo uccideva con la sua presenza ingannatrice.

E di questo, rideva.

Dell’angelo; della sua ingenuità; della sua confusione.

Rideva. Con la bocca, con gli occhi, col suo violino.

Sarasvathi rispondeva – gentile e sibillino – alle domande e, nel frattempo, lo distruggeva.

 

«Perché suoni?»

«Tu perché canti?»

«Per partecipare all’armonia divina; per esprimere la mia gioia e per parlare con Lui.»

«All’Inferno si viene privati della voce. Ogni suono che produciamo è stonato. Il nostro canto è il verso stridulo della cornacchia, ma privo della naturale armonia di questa. Abbiamo costruito il violino per poter cantare ancora.»

«A che scopo?»

«Perché Lui ci senta. Le nostre note, forse, non arrivano fino al cielo, ma vivono negli uomini. Saranno loro a portare a Dio il nostro pianto, affinché non si dimentichi mai dei Suoi figli Rinnegati.»

«E se il violino si rompe?»

«Allora lo ripareremo una volta, ed un’altra ancora. Le nostre lacrime non andranno perdute, ma rammenteranno sempre a Dio il suo più grande fallimento: noi.»

«Dio non vi sente.»

«L’uomo sì.»

 

Elian fissò il violino con i suoi occhi dorati.

Adesso la melodia era triste e malinconica. Proprio come l’umore del diavolo.

L’angelo gli si avvicina. Sale sul cornicione e gli siede accanto.

Qualche nota più allegra esce dal violino, mentre Elian, con le sue belle labbra, pronuncia un sentito:

«Mi dispiace.»

«Sei pieno di rabbia, Elian.»

«E tu di dolore.»

«La rabbia non è angelica.»

«Esiste l’ira santa.»

«Che differisce dall’ira normale solo per il nome.»

Sarasvathi sorride di fronte all’espressione imbronciata di Elian.

Quando è irritato, l’angelo tira in fuori il labbro inferiore, lasciandolo lievemente sporgere.

Effettivamente, lo ha già di natura sporgente e, per il diavolo, quel piccolo difetto di fabbrica lo rende solo più bello.

L’imperfetto, in fondo, esiste solo per far risaltare ciò che non lo è.

Come la virtù sussiste solo in funzione del peccato stesso, né può esimersi da esso per uscirne più pura e innocente che mai.

Elian sa di essere arrabbiato. Ne è pienamente cosciente e sa, anche, che tutto ciò è sbagliato.

Così cerca un motivo per la propria rabbia. Lo cerca e non lo trova, se non in ipocrite giustificazioni mandate a memoria dal giorno della Creazione.

Sarasvathi è un diavolo.

Il diavolo è il Male.

Dio odia il Male.

Gli angeli devono odiare il diavolo.

Elian deve odiare Sarasvathi.

Semplice come bere un bicchier d’acqua, anche se l’angelo non ha mai gustato il liquido refrigerante che Dio ha concesso agli umani.

Elian, quindi, si perdona per quest’odio cieco. Bonariamente, si da l’assoluzione per il sentimento corrotto che alberga in lui.

Perché non lo sopporta, perché lo vorrebbe uccidere, perché la sua musica è talmente bella da far male.

Perché non è giusto che un essere corrotto crei melodie cosi belle.

Perché è così, e così deve restare.

Lui è il Bene, l’altro il Male.

Lui è il Bianco, l’altro il Nero.

Lui è l’Immutabile, l’altro la Variazione.

E ciò che muta costantemente, che fa della propria vita una continua danza orgiastica irretendo gli uomini, corrompendo le anime e alterando le percezioni con la propria lingua sottile, non può essere buono.

 

«Sarasvathi non ti si addice come nome.»

Commenta, riflettendo sulla divinità della musica indiana, di cui il diavolo prende in prestito il nome.

Sarasvathi si ferma; lo scruta; indi sorride e riprende a suonare.

«Allora come mi chiamo, Elian?»

«Jago.»

Risponde; gli occhi dorati improvvisamente seri.

Sarasvathi non smette di sorridere.

«Jago: “Io non sono quello che sembro.”… – riflette. – Sì, mi si addice. Ma, se io sono Jago, tu sei Otello, piccolo angelo.»

«Perché dovrei?»

«Perché sei mio contrario e mio simile; perché “Servendo lui servo me stesso”; perché siamo figli della stessa mano Creatrice da cui tu prendi ordini e, “Dio m’è testimone che non lo faccio per amore o per dovere ma per un mio scopo particolare.”. – respiro. Note. Movimento. Elian lo guarda e ne è ammaliato. – Perché tu sei Elian. E io anche.»

«Non ti capisco.»

«Sarebbe strano il contrario.»

Elian si irrita. Scuote il capo. I boccoli ondeggiano.

Respira a fondo e si calma, facendo appello alla sua presunta pazienza angelica. Come sempre, d’altronde.

«Spiegati.»

«Sono le facce di una stessa medaglia. Otello è passione; Jago è freddezza. Otello è azione; Jago è parola. Non sussistono senza l’altro e, come Jago confonde Otello con le proprie parole – e non riuscirebbe mai nel suo intento, se il Moro non fosse disponibile a lasciarsi trarre in inganno. -, io attiro te con la mia musica da cui tu sei ben disposto a lasciarti accalappiare.»

Parole e altre parole. Niente di nuovo.

Un inganno sopra l’altro eppure, proprio perché rivestito dell’innocua apparenza della trappola conosciuta e, quindi, facile da evitare, ancora più temibile.

«Io non sono come te.»

Elian/Otello è agitato. Sarasvathi/Jago lo sa e se ne compiace.

«Allora perché sei ancora qui, Elian?»

Preso in fallo.

Il bel volto dai lineamenti femminei si trasmuta in una maschera addolorata; Elian si irrita, si infuria e se ne va, chiedendo perdono con la coscienza che, la notte seguente, sarà di nuovo lì a sentirlo suonare.

 

La musica continua; la sinfonia di un parodico canto angelico non si ferma. Non tace.

È il diavolo che innalza il proprio lamento ad un Dio incapace di ascoltarlo

 

   
 
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