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Autore: mairileni    27/01/2014    7 recensioni
Contiamo alla rovescia.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao, EFP! (*v*)/ 
 
Dunque, storia numerooo... dieci? Mi sembra sia la decima, sì. Prima storia a due cifre, insomma — sssì! 
 
Punto uno: non so bene da dove sia nata, da cosa anche, fatto sta che scriverla è... non saprei, un trip? Io ADORO scrivere questa storia. 
Tenete conto del fatto che si tratta di puro psicodramma, e che in molte parti — se non in tutte — sarà poco realistica, o noiosa, o melodrammatica, o magari tutte queste cose insieme. È probabile, perché l'ho scritta, e tuttora la sto scrivendo, solo nei momenti in cui le mie emozioni, di qualunque natura esse siano, raggiungono il parossismo (sì, no, ma lo so che non è normale, eh, tranquille). Quindi, mi scuso già da subito se leggerla sarà una tragedia.
Però scriverla è talmente inebriante che... sono molto affezionata a Chiamate, sì.
 
Punto due: la storia si sviluppa attraverso il continuo — possiamo dire anche estenuante? Sì, possiamo dirlo — alternarsi di accadimenti nel presente, flashback, lettere, chiamate e così via. Ergo, se vi perdete non è solo normale, è proprio logico, anche se l'intento non è quello. Se aveste dubbi sull'ordine cronologico dei fatti, comunque, chiedete pure che io sono sempre qui ^_^
 
Punto tre: quasi ogni data è modificata ai fini della storia, quindi perdonatemi se il piccolo Cody non ha quell'età, o i problemi con la droga di Brian sono finiti molto prima del periodo in cui la storia è ambientata, eccetera.
 
Mille e mille grazie a: Alessia, la mia migliore amica, che ha letto capitoli su capitoli e bozze su bozze per farmi contenta, mi ha consigliata in tante cose e mi sopporta sempre. Nainai, a cui ho fatto un numero di domande ver-go-gno-so, ma lei mi ha sempre risposto perché ha la pazienza di Giobbe.

DISCLAIMER: non mi appartengono i Muse, non mi appartengono i Placebo, tutto ciò che scrivo è frutto della mia mente e nessuno mi paga per farlo.
 
Ho detto tutto! 
 
Vi lascio e spero davvero davvero davvero che vi piaccia, ci ho messo il cuore! Se poi avete tempo e voglia, magari, fatemi sapere il vostro parere! 
 
Buona lettura! 
 
 
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PRIMA PARTE






*







CHIAMATE
 
 
 
«Pronto? Ehm... Anna? Sì, sono io, Brian. Ritardo di qualche minuto, è un problema per te? D'accordo... D'accordo. Grazie e scusa. Ciao... d'accordo. Ciao.»
 
 
 
 
 
 
1
 
 
 
Lo studio di Anna Beckett era stato ricavato dalla stanza che inizialmente doveva diventare la cameretta di Edward Price, suo figlio. Le pareti sarebbero state ridipinte di azzurro pastello, il lettino sarebbe stato nell'angolo; sotto alla finestra, chi fosse entrato avrebbe trovato una piccola scrivania in betulla sommersa di matite, quaderni, fogli in disordine, magari anche qualche disegno in cui i fiori sarebbero stati più alti delle case. Ma con Alan Price le cose non erano andate secondo i piani, e all'età di quarantun anni e quattro mesi circa Anna si era ritrovata a esercitare la propria professione di psicologa in quella stessa stanza, mille e cento sterline al mese sul suo conto e un divorzio alle spalle. Alcuni avrebbero detto che la mancanza di figli l'aveva indurita, ma in tal caso lei avrebbe girato la testa. Era specializzata, nel girare la testa. 
    La sua casa era tanto ordinata da far venire l'angoscia — un po' come la casa di Brian, ecco, ma forse anche di più. 
    Brian si presentò all'orario stabilito poco prima al telefono, e lei gli versò del caffè nero in una tazza grande. Brian apprezzava.
    Sorseggiarono il caffè parlando del più e del meno. Anna disse che si era comprata una casetta nel Somerset e che aveva intenzione di recarvisi la successiva estate, o magari anche prima, se ne avesse avuto modo. Brian le parlò del lavoro con le registrazioni e stette bene attento, come al solito, a tenersi lontano dall'argomento Matrimonio e Figli.
    Dopo dieci minuti trascorsi a parlare di aria fritta, Brian si ritrovò semisdraiato sulla chaise longue dello studio a raccontarle un altro pezzo della sua vita.
    Anna si limitava ad annuire, fare domande e segnare qualcosa sul suo taccuino. Brian la vedeva con la coda dell'occhio e dentro di sé si chiedeva che cosa avesse tanto da prender nota di tutto ciò che diceva. È una strizzacervelli, concluse infine, prendere nota è il suo lavoro, è questo che fa.
 
    «Brian», chiamò ad un tratto lei.
    «Mh?»
    «In mezz'ora che siamo qui non mi hai ancora nominato il tuo uomo. Normalmente lo nomini, ma è già la seconda volta che, se non te lo ricordo io, tu nemmeno lo menzioni.»
    «Non c'è molto da dire.»
    «Davvero?»
    «Non stiamo più insieme, Anna.»
    «Questo lo so.»
 
Lei si picchiettò il tappo della penna sulle labbra accuratamente disegnate dalla matita.
 
    «Nulla da dire. Sul serio», insistette Brian.
    «E anche quando ne parlavi», proseguì lei ignorandolo bellamente, «ne parlavi poco. Non mi hai mai detto che tipo è.»
    «Non esiste definizione adatta.»
    Lei sorrise. «Ed è una cosa buona?»
    «No.»
    «Immaginavo», rispose Anna, e scrisse qualcos'altro sul blocco.
 
Restarono per qualche attimo in silenzio, mentre Anna rileggeva gli appunti presi.
 
    «Che cosa ti piace di lui?», gli chiese dunque con calma.
 
Lo colse alla sprovvista, e il verbo al presente non passò inosservato. L'aveva notato benissimo. Il lasso di tempo tra quella domanda e una sua eventuale risposta era già diventato di lunghezza ridicola, così non provò nemmeno a mentire.
 
    «Non lo so. So che ci stavo bene», ammise, ed era vero.
    «Se non lo sai è perché non ci pensi, Brian, ti costringi a non pensarci. E sinceramente non ne ho ancora capito appieno il motivo.»
    «Il motivo si chiama Cody, Anna.»
    «Tuo figlio non è mai stato un freno, per te, Brian. Cody ha sempre vissuto più che bene finché tu e Stefan avete avuto una relazione, e anzi, non era forse lui a dire che era ora che “papà si trovasse un fidanzato”?» Non ottenne risposta, e questo la spinse a continuare. «È un bambino intelligente, Brian, non è lui, il problema.»
    «... penso tu abbia ragione.»
 
Passò qualche altro secondo di silenzio, parlò Anna.
 
    «Brian, se non vuoi dirmi com'è finita tra voi, vuoi almeno raccontarmi com'è che vi siete conosciuti?»
 
Brian esitò, ma poi annuì. Sì, voleva. 
 
    «È stato il 24 del settembre scorso», cominciò, «non so perché non te l'ho mai raccontato. Forse perché mi vergogno ancora di come mi sono comportato quel giorno — una tredicenne innamorata, ecco cosa sembravo. Però non ero ancora innamorato, di Matthew. Ammesso che lo sia mai stato. E va bene, sì, da un certo momento in poi lo sono stato. Ma quello è stato dopo. Quel 24 settembre ero da solo. Era appena iniziata la pausa dal tour, così sono andato al Century, sai, la tavola calda. Non ce l’hai presente?»
 
Anna scosse la testa.
 
    «È un posto molto piccolo, appartato, ma è sempre stato... il mio posto, fin dall’università, anche perché conosco bene il proprietario e buona parte delle persone che ci lavorano. Be', dicevo, sono lì e Stephanie, una delle cameriere, si avvicina e mi chiede se voglio...
 
 
 
 
 
 
2
 
 
 
... ordinare?», chiese Stephanie Craig a Brian, dall'alto del suo metro e cinquantatré. 
 
Brian le elencò ciò che intendeva mangiare, lei prese nota. Quando lui stava ancora dicendole quale carne voleva, lei già stava scribacchiando sul bloc notes il contorno — non che fosse un'indovina, solo Brian prendeva sempre le stesse cose.
 
«... E da bere acqua, grazie», concluse Brian.
 
Lei ricambiò il sorriso stanco di lui con trentadue denti di sincera cordialità e sparì in cucina.
    Era un 24 settembre freddo. Uno di quei giorni che a guardarli da una finestra sarebbero sembrati primaverili, ma il sole stava lì giusto per far presenza, era il vento a comandare. Dentro al Century si stava al caldo.
    La porta a vetri fu spinta da una figura incappucciata come un boia, e Brian sollevò istintivamente lo sguardo verso il suono del campanello che la porta aveva colpito. Il nuovo cliente si liberò del cappuccio con una mano.
    Era... oh, Gesù, era Matthew Bellamy, non c’era dubbio.
    E lui che ci fa qui?
    A Brian venne una gran voglia di nascondersi dietro a un giornale, ma purtroppo non aveva nessun giornale. 
    Incassò la testa nelle spalle e finse di fare qualcosa con il cellulare.
    Gesù, fa' che non mi veda, fa' che non mi veda, fa' che non mi veda...
   
    «Brian!»
 
Grazie del tuo tempo, Gesù.
A Brian bastò uno sguardo per identificare e catalogare i vestiti che Matt indossava. Tre neri diversi addosso — non sono nemmeno in gradazione! — e il marrone scamosciato delle scarpe. Bene. A Brian vennero in mente tre opzioni sul da farsi: salutare cordialmente e tornare al proprio pranzo, fingere di non essere “questo Brian di cui lei sta parlando”, o rompere il bicchiere e tagliarsi la gola con un coccio.
    Scelse la quarta opzione.
 
    «Cosa vuoi, Bellamy?»
 
Matt sembrò non percepire il tono seccato con cui gli era stata rivolta la domanda, perché tutto ciò che fece fu tirare un gran sorriso e sedersi di fronte a Brian. Il sorriso di Brian fu più gelido e terrorizzato.
 
    «Che cosa stai facendo, Bellamy?»
    «Come stai, Brian?»
    «Prima stavo meglio. Ripeto: cosa stai facendo, Bellamy?»
 
Questi rise — no, dico, come se ci fosse qualcosa da ridere! — e rilassò la schiena contro la seggiola.
 
    «Mi fai morire!»
    «Magari. Bellamy, ti dispiacerebbe alzarti da qui e andartene? Dal locale, intendo. Anche dal paese, se ti è possibile.»
    «Oh, e dai, Brian, facciamo pace!»
 
 
 
 
 
 
3
 
 
 
    «Scusami se ti interrompo, Brian, ma posso sapere perché provavi questo grande odio, per lui?»
 
 Brian sbuffò un sorrisetto irritato.
 
    «Era nato tutto da un litigio di due anni fa, a una festa organizzata da... ah, non me lo ricordo. La festa era in questa villa gigantesca vicino a Rye, veramente un bel posto. Insomma, a un certo punto me lo ritrovo davanti, e cominciamo a scambiarci frasi di circostanza. E poi non lo so. Collegandosi non so come al discorso precedente, inizia a dirmi che la musica dei Placebo fa schifo, che le canzoni sembrano suonate da un gruppo di ragazzini ubriachi, che abbiamo poco successo, e che quel poco successo che abbiamo lo dobbiamo solo alla mia... stravaganza.»
    
Brian avrebbe gradito un commento solidale, ma Anna si limitò ad annuire e a scrivere qualcosa sul taccuino.
    
    «Chiaramente mi sono infuriato. Non ci eravamo nemmeno mai parlati e quella era la prima cosa che riusciva a dire? Sai quanti anni ha meno di me, quel...? Otto. E si permetteva di insegnarmi il mio mestiere.»
    «Ma non sarà stato ubriaco?»
    «Poteva anche essere ubriaco, ma questo non gli avrebbe dato comunque il diritto di parlare così.»
    «E a quella festa non è successo nient'altro?»
    «...»
    «Brian?»
    «... no. Nient'altro.»
 
Anna notò l'esitazione ma non indagò, sapeva che sarebbe stato inutile.
 
    «Mh. E... non si è mai scusato per l'accaduto?»
    «Ci ha provato, a una festa successiva.»
    «E tu, a quel punto, che hai fatto?»
    «Ho aspettato che completasse il suo discorso e poi me ne sono andato.»
    «... d'accordo. Va' pure avanti con quello che stavi dicendo, Brian.»
    «... mh, dicevo, a quel punto, io gli dico...»
 
 
 
 
 
 
4
 
 
 
    «... pace fatta, ma ora, per cortesia, mi permetterai di concludere il mio pranzo in santa pace?»
 
Non si sentì rispondere, davanti a sé solo la vista di un Matt che sfogliava allegramente il menù del bar.
 
    «Bellamy.»
    «Tu cos'hai preso?»
 
Dio, se era irritante. 
    Brian fece per versarsi un altro po' d'acqua in attesa della sua ordinazione e trovò la bottiglia vuota. La appoggiò nuovamente sul tavolo, sospirò. 
 
    «Bellamy.»
    «Tu che conosci il posto, com'è questo... orechièteh ala — ma che cazzo di lingua è? — mat-matricciàna
    «È italiano, Bellamy, italiano. Ora vattene.»
    «Ma è un tipo di pasta?»
    «Bellamy vattene, adesso.»
 
Matt posò finalmente il menù, un sorrisino irritante incollato sulla faccia.
 
    «Un posto più appartato sarebbe stato più carino, non trovi?» azzardò.
 
Brian sospirò ancora, si chiuse la base del naso tra pollice e indice, serrò gli occhi per un momento. Pazienza, pazienza, pazienza, abbi pazienza con gli sciocchi, Brian.
 
    «Bellamy, mi hai rotto il cazzo», notificò, con un'eleganza che non si addiceva a una frase del genere. «Cosa fai, cerchi di pigliarmi per il culo?»
    «No!»
    «Non sembra. Perché sei qui?»
 
Matt sembrò non capire la domanda. Brian la ripeté in modo identico e Matt sembrò capire un po' di più.
 
    «Voglio uscire con te.»
    «Oh, Gesù santissimo», sfiatò Brian con una teatrale espressione di raccapriccio. «E, di grazia, cosa ti fa pensare che io abbia voglia di uscire con... ma anche solo di parlare con te?»
 
Matt sorrise ancora a quel modo, Brian si annotò da qualche parte del cervello che se l'avesse fatto un'altra volta l'avrebbe picchiato sul serio, e al diavolo la classe firmata Molko. Aveva quell'aria sfacciata che hanno le persone che sanno di aver vinto e ci tengono a ostentare la cosa. Aveva la faccia di chi sa.
    Tu non sai proprio niente, Bellamy.
 
    «Bene, direi che ho sentito abbastanza, per oggi», sfiatò Brian asciutto, dopo l'ennesimo, lunghissimo, sospiro. 
    «Ehi, Brian, te ne vai di già? Ma sono appena arrivato!»
    «Appunto. Addio.» 
 
Si infilò la giacca con un gesto fluido ed elegante, lasciò due banconote e qualche moneta nel piattino della cassa abbandonata per pagare comunque l'ordinazione e infine fece dietrofront per infilare la porta d'ingresso del pub.
 
«Oh, Brian, dai!», si sentì gridare dietro con aria delusa.
 
Imboccò la strada che lo avrebbe portato al Tesco più vicino della zona, almeno per prendersi qualche robaccia in scatola e riempire il buco senza fondo che si era impossessato del suo stomaco. Si alzò un po' di vento e rabbrividì. Ripensò a quel Bellamy, si chiese se davvero quell'omuncolo da strapazzo pensava di avere qualche chance con uno come lui. Si rimproverò da solo per la sua stessa arroganza e a tale rimprovero si giustificò dicendosi che abbordare così una persona non aveva scusanti. Poi pensò che era stupido simulare un processo nella sua testa, tanto più se in esso interpretava sia l'accusa che la difesa, e cancellò il tutto dalla mente. Si incassò nelle spalle e velocizzò il passo.
 
    «Brian! Brian, aspetta!» 
 
No, no. Non è possibile.
    Era sicuro di non aver sbagliato, nel riconoscere quella voce. Si calcò il cappello in testa e si mise quasi a correre, gli occhi che saettavano da una parte all'altra della strada alla ricerca di una qualsiasi fonte di salvezza. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene: un taxi, un autobus, un risciò, un cavallo, un triciclo. O una stazione di polizia, magari. 
    Niente, il deserto di Gobi.
    Cercò di accelerare ancora di più, ma sapeva che prima o poi sarebbe stato raggiunto da quel nano malefico (nano malefico che aveva pure la sfacciataggine di superarlo in altezza di almeno tre o quattro centimetri, oltretutto! Ecco, questa sì che era un'aggravante che avrebbe messo in crisi l'accusa!).
    Una mano si posò sulla sua spalla e prima ancora di potersene accorgere si voltò di scatto e tagliò l'aria con un manrovescio alla cieca che terminò con un sonoro “ciaff” sul viso di Matt.
Il gelo di quell’attimo immobilizzò la faccia del povero Bellamy in un'espressione sorpresa e indignata assieme, quella di Brian in un'espressione fredda che lasciava trasparire un velo di preoccupazione. Forse. No. Magari un pochino.
 
    «B-Brian! Ma sei impazzito?! Mi hai fatto malissimo!», strillò Matt.
    «... s-smettila di seguirmi, Bellamy. È l'ultimo avvertimento.»
 
Brian si era accorto della sua stessa esitazione nel rispondergli, si diede fastidio da solo; quello schiaffo aveva, per una manciata di secondi, reso Matt quasi meno irritante — forse per il sincero sbalordimento che gli si era dipinto sul volto, o forse perché, tutto sommato, non aveva (ancora) fatto nulla che gli facesse meritare di essere picchiato. Be', sì, lo aveva fatto sembrare meno detestabile, ecco.
    Forse, se lo prendessi a ceffoni tutto il tempo...
    Matthew si massaggiò la guancia e gli porse  qualcosa di piccolo e luccicante che teneva tra due dita: una chiave.
 
    «Ti è caduta dalla giacca.» notificò piatto.
 
    Brian annuì meccanicamente e prese la chiave dalla mano stando molto attento a non sfiorargli la pelle. 
    Mantenere le distanze, grazie.
    Matt sorrise compiaciuto, Brian valutò seriamente l'idea di dargli un altro schiaffo, idea che accantonò per non tirare troppo in lungo le cose; girò sui tacchi e fece un passo, si sentì tirare dalla giacca e fu costretto a voltarsi ancora.
 
    «Cosa vuoi?!» sbottò, «Cosa vuoi, ancora?»
    Matt sorrideva: «Non mi ringrazi?»
    «Grazie di avermi seguito come un maniaco, Bellamy, te ne sono sinceramente grato! Posso andare adesso?» 
    Matt rise, e la sua mano non aveva ancora lasciato la giacca. 
    «A cosa serve quella chiave?», chiese curioso.
    «Non sono affari tuoi.» 
    «Ti ho forse riportato la chiave che ti serve per entrare in casa, Brian?»
    «Affatto. E ora ciao.»
 
Gli vennero quasi le lacrime agli occhi dall'esasperazione, quando si fu accorto, dalla mancata leggiadria dei suoi passi, che lo stava ancora seguendo. Si voltò e se lo trovò ancora, odiosamente, eternamente davanti.
    «Bellamy, cosa devo fare per mandarti via?! Ti prego, dimmelo e facciamola finita!»
    «Un'uscita con te.»
    «Tu sei completamente pazzo, Bellamy! Da legare!»
    «Ascolta, mi dispiace per quello che è successo alla festa, ok? Non le pensavo, quelle cos... be', il realtà un po' sì. Ma...»
    «Ah, pure
    «... voglio davvero conoscerti!»
    «Io no!»
    «Ma perché no?»
    «Se è un tentativo di farti perdonare, Bellamy», e qui Brian mimò le virgolette con le dita, «sappi che non funziona. L'unico modo per farti perdonare, al momento, sarebbe che tu te ne andassi!»
    «Non ti sto chiedendo di venire a letto con me, Brian...»
    «E ci mancherebbe!»
    «... voglio solo conoscerti.»
    «Perché?» chiese stridulo Brian.
    «Perché mi interessi.»
    «A me tu no, invece.»
    «Ehi, un po' di delicatezza!» 
 
Matt si finse tremendamente indignato per uno o due secondi, ma non era mai stato un buon attore, e Brian gli rivolse solo un realmente annoiato sguardo di sufficienza.
 
    «Abbiamo finito?»
    «No! Voglio che andiamo fuori insieme, o non ti darò pace, Brian.»
    «Siamo fuori, siamo insieme: hai avuto la tua uscita. Adesso vattene. E poi da quando hai questo interesse per il tuo stesso sesso?»
    «È... da quella festa.»
    «Oh, Gesù.»
    «E andiamo, cosa ti costa un'uscita con me?»
    «Mah, sai, per ora mi è costata un pranzo!»
 
Lo sguardo di Bellamy si illuminò e le labbra gli si schiusero in un sorriso.
 
    «Ti porto a pranzo!»
    
Brian pronunciò qualcosa a fior di labbra che Matt non capì, nonostante supponesse che forse era proprio meglio non capirlo.
 
    «Ascoltami bene, Bellamy. Io non so se tu mi vuoi prendere per il culo o cosa, ma si dà il caso...»
    «Non ti sto prendendo per il culo, Brian.»
    «... ma si dà il caso! Che io non abbia tempo, voglia, energia per sostenerti.»
    «Brian, un pranzo. Ti prego. Un pranzo. Non c'entra nulla quello che è successo a quella dannata festa, il mio interesse è sincero, perché non vuoi credermi?»
    
Brian sospirò. Doveva? No. Poteva? Sì. Voleva? ... ni. Considerò l'ipotesi che se a dirgli quelle cose, alla festa, ci fosse stato un altro, avrebbe reagito diversamente.
    Avresti fatto lo stesso, se a offenderti fosse stato Michael Corner?, si chiese. No, si rispose. Assolutamente no.
 
    «Brian?»
    «...»
    «Conosco un posto, è qui vicino. Non sarà la tua tavola calda, ma è accogliente, e si mangia bene. Parliamo solo per un po', e poi ti accompagno a casa, e poi me ne vado.»
    «So dov'è casa mia.»
    Matt lo ignorò. «Ti va? Hai fame?»
    Un sospiro, di Brian. «Dov'è questo posto?»
    Matt sorrise. «A cinque minuti da qui.»
 
Era un locale che avrebbe avuto bisogno di una bella ristrutturazione, di quelle estreme che fanno vedere nei programmi spazzatura. L'interno era ben arredato, ma un po' vecchiotto. Era un posto tranquillo, e a Brian la cosa piacque — o almeno, non gli dispiacque troppo. Matt parlò con la proprietaria, mentre dietro di lui Brian le preparava la scheda mentale — bella la camicia, belle le scarpe, brutta la gonna, di sicuro lesbica, sui trentacinque, credo, ma ne dimostra meno. Le mani sono in disordine.
    Si sedettero e Matt non permise che calasse il gelo tra loro: cominciò a parlare a raffica di ciò che pensava avrebbe mangiato.
  
    «... e della carne, o magari il porridge, ti piace il porridge, Brian?, qui è fantastico, oppure anche le patate al cartoccio, altrimenti...»
    «Bellamy.»
    «... che stanno bene con una salsa che fanno qui, che...»
    «Bellamy.»
    Matthew bloccò la propria logorrea come un bambino appena sgridato dalla madre.
    «Sì?»
    «Taci.»
    «Sì.»
 
Si fecero portare dei menù, Matthew ordinò del vino e glielo offrì, Brian rifiutò con la mano e ordinò dell'acqua.
 
    «Cosa prendi, Brian?»
    «... tu?»
    «Numero ottantatré.»
    Brian cercò la portata tenendo il segno con un dito. «Questo? È buono?»
    «Sì. Sì, molto. Puoi ordinarlo senza le carote a parte, visto che non ti piacciono.»
    «Sì, farò così.»
 
Matthew era infantilmente contento che prendessero lo stesso piatto, ma non lo disse ad alta voce per sottrarsi al sarcasmo di Brian.
  
    «Scusa un secondo: com'è che sai che non mi piacciono le carote, Bellamy?»
    «Eh? Oh, ehm... supponevo.»
    «Bellamy.»
    «...»
    «...»
    «Potrei aver cercato informazioni su di te.»
    
Matt si sarebbe aspettato che Brian si scandalizzasse, o che gli desse un altro ceffone, o che se ne andasse dalla porta con l'aria da diva e il vento nei capelli. Però ciò che sentì lo sorprese. 
    Una risata. 
    Rideva? Brian rideva? Oh, sì, non c’era dubbio, rideva, e rideva con talmente tanto trasporto che dopo pochi secondi Matt si unì a lui, senza sapere bene perché. Sembravano due pazzi, erano due pazzi, e quando Brian smise di sganasciarsi aveva la voce più acuta e affaticata.
 
    «Povero me, con chi sono finito», disse, ma lo disse con sincero divertimento.
    Matt ridacchiò ancora. «Lo trovi inquietante?»
    «No, non lo trovo inquietante...»
    «Oh, lo trovi carin...»
     «... lo trovo folle, Bellamy. Tu sei folle!»
 
Matt ci restò un po’ male, ma non lo diede a vedere, e Brian non se ne accorse.
 
    «Dimmi Bellamy», continuò Brian, senza riuscire a contenere le proprie risatine, «cos'è, ti sei preso una... specie di cotta per me?»
    Vide Matt farsi assorto, come a pensarci seriamente, finché non si sentì rispondere: «Sì. Penso di sì, Brian.»
 
E Brian rise ancora, e Matt con lui. Mentre ridevano sembravano due esauriti, quando smisero di ridere e si guardarono sembrarono due amici di vecchia data. Non lasciarono cadere il discorso. Matt si sentiva ridicolo e scoperto, ma in un modo quasi piacevole, e Brian avrebbe ammesso solo dopo (e solo con se stesso) di essersi sentito vagamente lusingato, per quell'affermazione.
 
    «Ti imbarazza?», chiese Matt.
    «No, Bellamy, mi dispera.»
    Matt tentò la battuta maliziosa... «Se passassi cinque minuti a letto con me non saresti più tanto disperato»
    ... e Brian stroncò la battuta maliziosa. «L’ho già fatto, e a cinque minuti non ci arrivi, Bellamy.»
    
Matthew aprì la bocca, deformata da un piccolo sorriso, ma la richiuse.
    Maledetto Molko.
 
    «A proposito di questo, Bellamy. Io non so se l'hai capito, ma ciò che c'è stato a quella festa non ci sarà più. Mai più.»
    «Parli del sesso?»
    «No, dei salatini, Bellamy! Certo che parlo del sesso!»
    Matthew in un primo momento non rispose, e si limitò a sorridere. Poco dopo disse: «L'hai detto a qualcuno?»
    «No, Bellamy. Mi vanto più volentieri di altre cose.»
 
    Un cameriere in camicia quadrettata servì loro ciò che avevano ordinato.
 
 
 
 
 
 
5
 
 
 
    «Ti ho detto che non ce n'è bisogno.»
    «Sì che ce n'è bisogno! Ti devo accompagnare per forza, Brian. Potrebbe succederti qualcosa sulla via del ritorno!»
    «Qualcosa di peggio che avere te che mi stai col fiato sul collo, Bellamy? Vattene, hai avuto il tuo pranzo.»
    «Ma Brian!»
    «Un cazzo. Vattene.»
 
 
6
 
 
 
    «Ecco, quella è casa mia. Sono libero, adesso?»
    «Scherzi? Qualcuno potrebbe investirti sulle strisce pedonali!»
    «Che cazzo di uccello del malaugurio, Bellamy!» 
    
Attraversarono, mentre Matt rideva alla battuta dell'altro, spensierato.
 
    «Ecco. Ora posso andare?»
    «Ci vediamo anche domani?»
 
Brian permise che quella domanda gli rimbalzasse per un secondo contro le pareti della scatola cranica. Un secondo, non di più.
 
    «Direi che ci vediamo per forza, se ogni volta mi segui e poi mi costringi alla tua compagnia» fece, sbrigativo.
    «Attento a quello che dici, Brian. Sono molto determinato.»
    «Questo lo vedo.» 
Aprì il portone con una chiave che teneva nella tasca della giacca, gli occhi di Matt, dietro di lui, che gli foravano la schiena. 
    «Allora, beh, ci vediamo, Brian!» 
    «No, per niente. Ciao, Bellamy.» rispose, prima di andarsene dietro la grande porta a vetri.
    Sentiva gli occhi di Matt, che lo guardavano da fuori, ancora sulla schiena, sullo stesso punto dove li aveva sentiti poco prima. 
    Li continuò a sentire anche quando ormai era entrato in casa, e Matt era già lontano da lì.
 
 
 
 
 
 
7
 
 
    «... e basta, quella è stata la nostra prima... uscita?»
    «Be’, è stato carino, Brian, non trovi?»
    «No.»
    Anna Beckett sospirò. «Brian, io dico che devi scioglierti un po'.»
 
Era quel genere di informazione che Brian piegava con cura in quattro e poi buttava nella Scatola delle Cose di Cui Sbattersi il Cazzo. 
 
    «Io invece dico che venire a raccontarti i fatti miei mi fa solo perdere un sacco di tempo. Se hai qualcosa di utile da dirmi bene, altrimenti posso anche andarmene», replicò calmo.
    «È questo che pensi, Brian?»
    «È questo che penso, Anna.»
    «Però gli hai scritto una lettera, vero?»
    Brian si prese qualche secondo, prima di rispondere con un vigliacco: «L'ho fatto perché tu mi hai detto di farlo.»
    «Non faresti mai una cosa perché “me l’ha detto la mia psicologa”, Brian. L’hai fatto perché volevi farlo, e io sono molto contenta di questo, significa che stai facendo progresso.»
    «... sarà. E comunque non ho intenzione di inviargliela.»
    «Non devi. Però ti serve come sfogo, e rileggere ciò che hai scritto ti aiuterà a mettere ordine nei tuoi pensieri. Sono contenta che tu l'abbia fatto, Brian.»
    
Brian non rispose. Intrecciò le dita all'altezza dell'ombelico, si sentì patetico e infantile. Sì, gliel'aveva scritta, una lettera, e doveva ammettere che forse non era un'idea inutile, come invece aveva pensato all'inizio. Quella lettera sarebbe rimasta a lui, così come le altre che sarebbero seguite — perché ne avrebbe scritte altre, era inutile sostenere il contrario. Trovava il tutto discretamente patetico, se stesso, le lettere, se stesso che scriveva le lettere, e...
 
    «Brian, la nostra ora è finita», annunciò Anna, guardando l'orologio affisso al muro.
 
Brian annuì e si alzò senza proferire parola — quando si tirò a sedere vide tutto a macchie grigie per un attimo, e si coprì gli occhi con le dita. Era piacevole, ed era buio. Si concesse di restare così per qualche secondo.
 
    «Brian? Ti senti bene?»
 
    Lui si scoprì gli occhi e sbatté le palpebre per rimettere il mondo a fuoco. Anna lo guardava apprensiva.
 
    «Come?»
    «Ti senti bene, Brian?»
    Brian si alzò, e la sua espressione distesa era in parte fuori luogo, in parte terrorizzante. «Sì. Sì, sto bene, grazie.»
 
 
 
 
 
 
8
 
 
 
Ciao Matt.
 
    Non so bene da dove dovrei partire, anche se non è un problema, dato che questa lettera non la riceverai mai.
    Pensavo a come è finita tra noi. Pensavo che non doveva finire così, affatto. Mi aspettavo un finale più spettacolare o drammatico, lo sai? Non doveva finire così, decisamente.
    I Placebo vanno male, e, diciamocelo, bene non sono mai andati. Prima le canzoni dettate dall'inesperienza, poi le droghe, poi mio figlio, poi tu. Poi altre canzoni, quelle tirate fuori dai cassetti. Ho perso quella passione bruciante per questo lavoro. In altri tempi non l'avrei nemmeno chiamato “lavoro”, a dire il vero, in altri tempi l'avrei chiamato “questa cosa che facciamo”. È un lavoro, invece, e anche abbastanza precario. Non mi interessa essere ricco, mi piace discretamente farlo e lo faccio, tutto qua. Non me ne frega niente se questo album farà schifo. Avevo fondato i Placebo in sostituzione alla famiglia che non ho mai avuto, ma ora sono abbastanza grande da andarmene di casa. Voglio bene a Stefan, anche se è un sentimento diverso da quello che lega te e Dominic — non migliore, non peggiore, diverso. Meno “andiamo là fuori e spacchiamo il mondo”, credo. A volte penso che ho con Stef il rapporto crudo che avrei con un compagno di cella, e sorrido. 
    Forse mi servirebbe solo un bello schiaffo per poter iniziare a ragionare. Mio figlio, ecco, lui è stato uno schiaffo. Un bellissimo schiaffo. Dovrebbero sentire tutti cosa si prova a ricevere uno schiaffo così bello.
    Ha cambiato scuola, lo sai? Pochi giorni fa sono andato a prenderlo e quando l'ho sollevato tra le braccia per salutarlo mi ha detto: «Papà, ci ho pensato, e ho deciso. Voglio cambiare scuola.» Ci credi? Mio figlio, a cinque anni, “ci ha pensato” e “ha deciso”. Io non ci ho mai pensato, a noi, Matt — non nel vero senso del termine, almeno. Non ho mai neanche deciso nulla. Mi lasciavo trascinare, cadere, e poi aspettavo che qualcosa mi tirasse su di nuovo. Non ci ho mai pensato, a noi. Non vorrei pensarci nemmeno ora, se possibile. Ho passato metà della mia vita a lottare contro la droga, due terzi di essa a lottare contro la depressione, ma la verità è che non ho mai lottato davvero. C’era sempre qualcun altro a muovermi le braccia da dietro la schiena. Penso che se stilassero la classifica mondiale degli uomini di merda sarei sopra Giuda Iscariota e sotto mio padre.
    Vado da una psicologa. Non per te, non montarti la testa. Ci vado da molto prima di aver conosciuto te. Questa cosa delle lettere è un'idea sua. Dovrei dire tutto, a questa donna, ma a essere sinceri sono molte le cose che non le dico. Oggi mi ha chiesto se, dopo che mi avevi insultato, a quella festa fosse successo qualcosa. Io le ho detto di no. Ma non penso che mi abbia creduto.
    Quella della festa è una cosa che sappiamo solo io e te. O almeno, io non l'ho raccontata ad anima viva, e suppongo che anche tu non abbia motivo di raccontarla a nessuno. Forse se non l'avessi fatto non saremmo qui, ora, non sarei qui a scriverti lettere come un dodicenne impazzito e a rimuginare su ciò che è stato. E sai che ti dico? Che sono contento di averlo fatto. È stata la cosa più giusta che io abbia fatto in tutta la mia vita, assieme all'aver deciso di prendere quella metro tanti anni fa anziché un bus, perché è lì che ho rincontrato un mio vecchio compagno di scuola che adesso è il bassista della mia band. Non sono pentito di aver fatto ciò che ho fatto quel giorno alla festa, perché quell'episodio ha dato inizio a una catena di altri episodi che mi hanno fatto stare bene. Riduttivo, “bene”? Forse. Però si adatta perfettamente a ciò che voglio dire. 
    Mi hai detto che avevo successo solo perché il mio modo di essere me lo faceva ottenere facilmente. Me l'hai praticamente offerta sul piatto d’argento. E diciamocelo, io forse non aspettavo altro. 
    E così l'ho fatto.
    Ti ho seguito in bagno, ti ho spinto contro il muro, il resto lo sai. Penso che in quel momento la mia idea era di dimostrarti che io non solo potevo ottenere successo: io potevo ottenere tutto quello che volevo. 
    Ed effettivamente è stato così, volevo e ho ottenuto. Volevi anche tu, allora. In quel bagno ho raggiunto il mio apice, e da lì in poi è stata tutta una discesa. È stato come cadere, cadere bene, tutto il tempo, con te. Fino a ora. Adesso ho smesso di cadere. Ora non mi muovo: sto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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