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Autore: Brooke Davis24    29/01/2014    1 recensioni
Crossover. Una strana maledizione è piombata sugli abitanti della Foresta Incantata nelle sembianze di una bellissima giovane donna, il cui nome è Malefica. Ma Malefica non è sempre stata tale! Diversi anni prima, era conosciuta come Emma, la figlia del re promessa in sposa al giovane figlio di un altro sovrano. E sarà proprio questo giovane, Killian Jones, a tentare l'assurda impresa di riportare in vita Emma e scacciare via lo spettro che l'ha trasformata nel mostro che tutti temono.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
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So di avere un'altra storia in corso e, credetemi, non l'ho dimenticata, ma ho tutta l'intenzione di continuarla con la collaborazione della persona che mi aiuterà a partorirla. Ma non potevo non mettere per iscritto questa idea, perché, altrimenti, mi avrebbe tormentata più di un fantasma! Come ho specificato nella descrizione, si tratta di un crossover ispirato a "La bella addormentata nel bosco" con una serie di elementi originali, di mia completa fantasia. Spero vi piaccia e, se voleste farmelo sapere, sarò contenta di leggere le vostre recensioni. E, ovviamente, ascoltate la canzone se potete: è stata la mia fonte di ispirazione.
Buona lettura!



Capitolo I
So chi sei

http://www.youtube.com/watch?v=TZ44x0GnKh4

Oscurità e morte. Era quanto pervadeva i confini della Foresta Incantata, aggirandosi tra i fitti arbusti, nel silente cuore che, un tempo, era stato pieno di una vitalità che sembrava essere svanita per sempre. Oscurità e morte erano tutto quello di cui gli abitanti vivevano da un anno a quella parte, dal giorno in  cui una maledizione color dell’oblio aveva colpito le verdeggianti colline del reame, mettendo definitivamente fine al benessere che l’aveva sempre contraddistinto, facendo perdere a quella foresta l’incanto di cui si era sempre potuta vantare.
Oscurità e morte erano tutto ciò che la più bella creatura di tutto il reame aveva portato con sé, quando, calando su di loro in una nuvola nera di terrore e sgomento, la sagoma longilinea di una giovane donna aveva fatto la sua apparizione ai confini della foresta, sorridendo agli abitanti del luogo con un’espressione tanto angelica da ingannare il più sospettoso degli uomini. Il suo nome era stato Emma, un tempo, ma nessuno l’aveva più chiamata in quel modo sin da quando era una ragazzina, dall’ultima volta che era stata vista dai suoi genitori. Adesso, era conosciuta come Malefica.
Gli abitanti del regno, sia gli animali che la gente, non erano stati in grado di scorgerlo, il pericolo che ella aveva trascinato verso di loro con inaudita maestria. E la loro ingenuità le aveva reso semplice il compito di conquistarli, al punto tale che non erano stati in grado di fermare l’incantesimo che lei aveva castato sul loro mondo perché, quando ne avevano compreso la portata, era stato troppo tardi. Improvvisamente, gli alberi avevano cominciato a perdere le loro foglie, lasciandole cadere al suolo in stato catatonico finché non erano avvizzite tanto da diventare il ricordo di ciò che erano state un tempo; l’erba aveva cominciato a piegarsi, mesta, avvilita dalla pesantezza di un’aria che non avrebbe concesso ad alcun germoglio di fare coraggiosamente capolino oltre lo strato di terra secca; gli animali erano fuggiti o, almeno, così era stato per i più fortunati di loro. Tutta la natura aveva cominciato a morire, minuto dopo minuto, mentre una coltre di oscurità era scesa sul paesaggio che, tempo prima, era stato lo scenario di amori nascenti.
Ma ella non si era limitata a questo, non le era bastato! Con la maestria di un prestigiatore li aveva privati persino della felicità, come se riuscisse a tratte un incomparabile piacere dalle loro sofferenze. Non aveva bisogno di vederli, il dolore, la disperazione, la tristezza, la paura, perché poteva percepire ognuna di quelle sensazioni sulla propria pelle, nell’immoto silenzio del mattino, nel portentoso odore di morte che si aggirava sui tetti delle case, sulle nuche glabre degli alberi. E loro potevano sentirla, quella felicità che ella gli aveva strappato e di cui si nutriva: nelle notti più scure, riuscivano a sentire la bassa, roca risata di lei che, provenendo dal castello posto in cima alla montagna, oltre il folto della foresta ove nessuno aveva più osato addentrarsi, infestava i loro sogni, rubando perfino quell’ultimo briciolo di libertà che il sonno riservava loro.
“Buongiorno, splendore!” sussurrò lei, alzandosi dal letto e attraversando la stanza finché non ebbe raggiunto la balconata. Quando i suoi occhi neri come la pece scorsero il panorama mortifero della quale era unica artefice, inspirò a fondo, compiaciuta, e non poté impedirsi di ridere forte e a lungo, nel momento in cui notò che nessun sole illuminava il cielo, che nessuno splendore avrebbe turbato la sua quiete. Penetrante, la sua risata impregnò l’atmosfera.
“Amo questo luogo, mio diletto. E’ di tuo gradimento?” chiese al suo fedele corvo, chinandosi su di lui finché il suo sguardo non fu allineato a quello dell’animale, e dolcemente gli carezzò il dorso del becco, mentre i lunghi capelli serici le scendevano sulle spalle con altrettanta delicatezza, posizionandosi ai lati del viso pallido. “Sarei dovuta venire molti, molti anni prima. Questo luogo e la debolezza dei suoi abitanti mi rendono più felice di quanto non sia stata in tutta la mia vita.”
Tornando in posizione eretta, ammirò per l’ennesima volta i frutti del suo arduo lavoro e fu sul punto di canticchiare una vecchia canzone a labbra strette, una canzone del cui apprendimento non aveva alcuna memoria ma che si trovava ad intonare tutte le volte in cui la felicità era sul punto di sopraffarla, quando qualcosa la distrasse, accendendole gli occhi di un piacere quasi folle.
“Abbiamo visite, mio diletto!”
Girando su se stessa, si avviò verso il ventre del palazzo, sulle labbra rosse come i petali di una rosa un sorriso mefistofelico, ed ebbe l’impressione che si sarebbe divertita molto più del previsto, più di quanto non avesse osato sperare. Il castello, eccezion fatta per Malefica e il suo fido compagno, era completamene disabitato e pareva che quella quiete spettrale la compiacesse molto più di quanto l’odore della desolazione non fosse in grado di fare. Avvolta in un lungo vestito nero quanto lo erano i suoi capelli e i suoi occhi, ne percorse i corridoi, i saloni, le scale, a farle eco il ticchettio delle scarpe e il fruscio dell’abito che, sfiorando il pavimento di freddo marmo, la seguiva più incalzante della sua stessa ombra.
“So chi sei, vicino al mio cuor ogn’or sei tu…” cominciò a cantare, la voce dolce e fredda al contempo, benché le parole suonassero come un ammonimento, uno dei più spaventosi. “So chi sei, di tutti i miei sogni il dolce oggetto sei tu…”
Un rumore lontano, come se qualcuno la stesse aspettando, privo di quel timore che aveva contraddistinto tutti gli altri al punto tale da impedirgli di avventurarsi nella foresta, risuonò nel salone più grande del palazzo e, quando ella lo ebbe raggiunto, la figura mascolina di uno sconosciuto fu tutto ciò che Malefica riuscì a scorgere. Era il primo visitatore che quelle mura accoglievano da che aveva toccato il suolo della Foresta Incantata e le fu impossibile nascondere la malata eccitazione che la pervase.
“Anche se nei sogni è tutta illusione e nulla più…” proseguì lei, gli occhi neri, ardenti, spettrali fissi su di lui mentre scendeva le scale, i lembi della lunga, morbida gonna del vestito tirati su a mostrare il pallido colorito delle lunghe gambe snelle. C’era qualcosa di estremamente spaventoso in lei, nella perfezione di quella bellezza che avrebbe sedotto perfino il più reticente tra gli uomini.
“Emma…” la chiamò lui, quasi nutrisse la speranza di poterla risvegliare da un semplice incubo, e la sua voce risuonò tra le mura del salone, quasi esse la respingessero per restituirla al mittente. “Sei davvero tu?”
“Chiedo scusa, signore, ma non c’è nessuna Emma in questo palazzo. Ne sono l’unica occupante e il mio nome è Malefica. Al vostro servizio!” Lasciando cadere gli orli del vestito, allungò l’indice finché il suo corvo non poté appollaiarvisi, il tocco gentile più di quanto ci si potesse aspettare da un animale della sua specie.
“Tu non sei così, Emma. Io ti conosco meglio di chiunque altro. Io so chi sei!” fece lui, avanzando verso la giovane vestita di nero con cautela. La conosceva, non stava mentendo, ma ne aveva timore, temeva l’essere che era diventata e che lui stentava a riconoscere come la persona che aveva più ammirato in vita sua. La persona che aveva più amato. Ella inclinò leggermente il capo verso sinistra, ad un tempo confusa e curiosa, mentre lo osservava farsi avanti.
“Posso avere l’ardire di chiedervi il vostro nome?” domandò e, benché le sue parole mostrassero un’educazione ed una cortesia regale, il tono della sua voce lasciò trapelare cosa si era sovrapposto alla Emma di un tempo, convivendo con lei fino a prenderne il sopravvento.
“Sono Killian, Killian Jones.” rispose, arrestandosi a qualche metro da lei. Osservarla da una distanza così ravvicinata lo colpì, instillando nel suo animo il timore di essere arrivato troppo tardi, di voler iniziare un’impresa che si sarebbe dimostrata fallimentare, tanto a breve quanto a lungo termine. L’angolo della bocca di lei si curvò verso l’alto e l’uomo non poté fare a meno di trovarla bellissima, perfino più di quanto ricordasse.
L’ultima volta che l’aveva vista, non erano stati che dei ragazzini, promessi in matrimonio l’uno all’altra da genitori che, per lungo tempo, li avevano osservati nella speranza di veder sbocciare tra loro il sentimento che si auspicavano potesse portare all’unione dei rispettivi reami. E, per un periodo, avevano sfiorato quel sogno ed erano stati sul punto di agguantarlo: all’età di sedici anni, Emma era riuscita a conquistare il cuore di Killian senza che il ragazzo fosse in grado di rendersene conto o ammetterlo a se stesso; vi era, nell’animo libertino e ribelle di lui, più grande di Emma di circa otto anni, tutta l’intenzione di opporsi ad un futuro che volevano imporgli e che era deciso a rinnegare a qualunque costo. I lunghi capelli biondi come quelli della madre, il colorito pallido, gli occhi verdi come quelli del padre, le labbra rosse come il sangue, Emma era la fanciulla più graziosa che si fosse mai vista; e di ella erano fieri tanto i genitori quanto le sue fate madrine.
La felicità con la quale erano state scandite le loro giornate, tuttavia, era ben presto scomparsa, devastata dall’avverarsi della minaccia che, il giorno della nascita di Emma, una strega aveva lanciato su tutti loro. Accostandosi alla culla della piccola e osservandola in tutto il suo splendore, li aveva invitati a goderne intensamente il più possibile, promettendo alla bambina che, un giorno non troppo lontano, sarebbe tornata a prenderla e sarebbe stata sua. E così era stato: il mattino del suo diciassettesimo compleanno, Emma era scomparsa e di lei non si erano avute più tracce, almeno fino a quando, un anno prima, non si era presentata sotto le sembianze di Malefica, rendendosi irriconoscibile ai suoi stessi genitori. Killian era stato l’unico a partorire l’apparentemente assurda idea che, dietro quegli occhi neri come la pece e quell’aspetto demoniaco, si nascondesse la ragazza con cui il suo cuore si era impegnato in una promessa che non aveva nemmeno avuto il tempo di farle a voce.
“Capisco…” fece lei, quel sorriso impenetrabile ancora sulla bocca. “Credo vi siate avventurato invano nel folto della foresta, signore, e a vostro rischio e pericolo.”Dolcemente, lasciò che le sue labbra si schiudessero, rivelando il candore dei denti, e Killian seppe, in quell’istante più che mai, di non essersi sbagliato.
“Vi porgo le mie scuse, vostra maestà!” le disse, incauto.
“Allora, sapevate chi fossi…” gli fece notare, negli occhi il baluginio di una spietatezza che l’uomo aveva avuto modo di incontrare pochissime altre volte nella sua vita. “Seguitemi!” lo invitò, girando su se stessa e riprendendo a canticchiare a labbra strette il motivetto di prima. Incerto sul da farsi e consapevole di stare rischiando la vita, Killian si azzardò a seguirla e il suo cuore mancò un battito al ricordo della prima volta che l’aveva udita mormorare quella stessa melodia e, insieme a lei, ne aveva stabilito i versi.
Lentamente, lo condusse per alcuni dei saloni del palazzo e, senza voltarsi una sola volta, proseguì finché non fu arrivata di fronte ad una porta; con una lieve pressione della mano, la spinse e si azzardò a scendere le scale. Uno strano torpore cominciò a gravare sulle membra di Killian e, pur non essendone certo, seppe che non fosse la stanchezza del viaggio la ragione di un simile, improvviso indebolimento. Proseguirono per una buona manciata di minuti, fin quando, fischiettando la canzone, ancora di buonumore, ella non si arrestò di fronte ad un’altra porta, stavolta più piccola della precedente, e, aprendola, lo attese sullo stipite.
“Emma, ti prego, non…” fu sul punto di dire, ma le energie vennero a mancargli e, sospinto da una forza che non avrebbe saputo definire, varcò l’uscio. La porta si chiuse alle sue spalle e, mentre perdeva conoscenza, l’ultima cosa che udì furono le parole  di lei.
“Il mio cuore sa che, nella realtà, da me tu verrai e che mi amerai ancor di più.”
  
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