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Autore: Irene Adler    11/06/2008    6 recensioni
Quel giorno non avevo idea di aver conosciuto la persona alla quale avrei dedicato la mia intera esistenza, per la quale sarei stata disposta a rischiare l’onore e la vita, per la quale avrei nutrito un sentimento inconfessabile al quale, solo con il tempo, sarei riuscita a dare un nome.
Ero solo una ragazzina rinchiusa nella sua gabbia dorata, alla quale un ragazzo aveva dedicato un gentile sorriso.
[Royai Day Tribute]
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Riza Hawkeye, Roy Mustang
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Note d’inizio: Hola a tutti! Mi credevate dispersa, vero? È da moltissimo che non passo per questi lidi, ma purtroppo ho avuto, e ho tutt’ora un po’ di robe da fare…comunque, eccomi di ritorno ^^

Questa mia fan fic è il mio piccolo e modesto tributo al Royai Day. Per la verità è una mini raccolta di due capitoli, uno raccontato dal punto di vista di Riza e uno dal punto di vista di Roy, ambientati entrambi nel passato dei due ragazzi.

Premetto che la Riza presente in questo capitolo ha poco a che fare con la Riza che conosciamo in FMA; è un po’ diversa, ma è così che me la immagino nella sua adolescenza. Spero vi possa piacere e, in alternativa, vorrei ricevere commenti con consigli su come migliorarmi^^

Dedico questa fan fic a tutte le fan del Royai,

Buona lettura

 

 

That day, that night

A Royai tribute by Irene Adler

 

Chapter 1: That day

 

Non ero che un’ombra.

Un’ombra delle tante che infestavano quella casa vuota e priva di vitalità, da cui non avevo forza di separarmi. Ciò che mi circondava, quell’involucro un tempo accogliente che m’aveva protetta,  era diventato la mia gabbia, la mia prigione dorata da mille ricordi ormai sfumati.

Ricordo ancora quel giorno.

Quel giorno uggioso, identico a mille altri, in cui lui fece la sua comparsa nella mia vita. 

Arrivò senza preavviso, preceduto dall’incedere malfermo di mio padre.

Varcò l’uscio di casa con passo deciso, gli occhi d’ebano che ispezionavano incerti quell’ambiente per lui nuovo e affascinante. Indossava una casacca scura lasciata aperta per i primi bottoni, una sciarpa antracite legata alla gola e sottomano una borsa di pelle un po’ sgualcita, dalla quale s’intravedevano fogli per appunti percorsi da una calligrafia fluida e sinuosa.

Il suo sguardo fissava con timore quasi reverenziale ogni parte dell’abitazione, studiando con attenzione le librerie impolverate sulle quali facevano bella mostra volumi e scartoffie di ogni sorta, i suppellettili e i quadri dalle cornici sbeccate appesi alle pareti ; di sicuro aveva grande stima di mio padre e l’idea di trovarsi a casa sua, nel luogo nel quale creava le sue potenti e per me sconosciute alchimie, doveva metterlo in soggezione non poco.

Ricordo ancora che rimasi incuriosita dalla sua figura e lo fissai per qualche istante dal mio riparo. Il suo arrivo, del tutto imprevisto, rappresentava un piacevole cambio di programma in quella giornata tanto monotona e fece nascere in me un’insolita curiosità. All’epoca non avevo idea del perché mio padre avesse portato in casa uno sconosciuto; non ricevevamo molte visite e lui non era assolutamente il tipo da invitare gente. Mio padre non amava la compagnia, se non quella dei libri e delle sue assurde ricerche sull’alchimia; il suo lavoro era tutta la sua vita e tutto ciò che suscitava in lui sentimenti che non fossero apatia e disinteresse.

Continuai a fissare quel ragazzo che sostava poco oltre il ciglio della porta.

 Anche se ancora molto giovane i lineamenti del suo viso cominciavano ad assumere una marcatura più adulta, gli occhi d’ebano erano profondi ed esprimevano recondita curiosità,  mentre il suo atteggiarsi pratico, ma nel contempo discreto, lo rendeva a prima vista una persona degna di fiducia.

Rimase immobile qualche istante nell’ingresso, cosicché ebbi l’opportunità di osservarlo dalla porta socchiusa, consapevole che il passare inosservata era la cosa migliore in quel momento.

Dopo un attimo d’esitazione cominciò a seguire l’ombra di mio padre su per le scale che portavano al secondo piano.

Forse, ingenuamente, credevo che non mi avrebbe nemmeno notato, nascosta nella semi ombra della stanza, quindi lo fissai ancora per qualche istante, sporgendomi appena oltre il ciglio della porta.

Fu in quel momento che mi notò.

Mi aggrappai d’istinto con entrambe le mani alla maniglia della porta, accostandomi impercettibilmente ad essa, mentre quegli occhi scuri, si specchiavano nei miei.

Arrossii, quasi fossi stata colta con le mani nel sacco.

Mi fissò con un attimo di curiosità e poi le sue labbra si piegarono in un sorriso caldo e amichevole; portò la mano sinistra ad altezza del viso e, volgendo il palmo verso di me, mi fece un piccolo cenno di saluto, socchiudendo gli occhi.

 In quel momento un calore piacevole, che partiva dal petto, si diffuse nel mio corpo.

Da tanto tempo nessuno mi fissava, mi rivolgeva un sorriso. Mio padre era tutto ciò che avevo e tutto ciò che rimaneva della mia famiglia, eppure mai una volta in quei lunghi anni di convivenza mi aveva guardata con dolcezza, mai mi aveva sorriso -i suoi rari sorrisi, tirati e simili più ad un ghigno, erano riservati ai suoi successi in alchimia-  mai mi aveva rivolto un cenno amichevole.

Invece quel perfetto sconosciuto, appena entrato in casa, mi aveva rivolto il saluto come se fosse stata la cosa più ovvia e semplice da farsi in casi simili, mi aveva considerata più di una figura nascosta nella penombra.

“Roy!”

Il richiamo roco e severo di mio padre mi scosse dal torpore, facendomi arretrare di un passo.

Compresi che non era indirizzato a me, nell’esatto momento in cui il capo del ragazzo moro si alzò verso la cima delle scale dove, probabilmente, stava mio padre.

“Arrivo Hawkeye sensei!”

Cominciò a salire i gradini che conducevano al piano superiore e io lo seguii con lo sguardo, quasi consapevole, o quasi sperando, che la sua prossima mossa fosse quella da me agognata.

Quando stava per scomparire oltre la rampa di scale, i suoi occhi mi cercarono ancora.

Tese le labbra nuovamente in un sorriso discreto e io, diversamente da prima, ricambiai con naturalezza, prima che lui non potesse più vedermi.

Una volta che i suoi passi non si udirono più, mi appoggiai contro la parete, gli occhi bassi.

Domande una più assurda dell’altra mi riempirono la testa, tanto da estraniarmi da ciò che mi circondava.

Non sentii neppure il rumore di passi provenienti dalla scala alle mie spalle, tanto meno vidi che il ragazzo di prima si stava avvicinando a me.

“Scusa…”

Sobbalzai a quel richiamo per poi ricompormi immediatamente e voltarmi verso di lui.

Il ragazzo mi fissava, passandosi nervosamente una mano dietro il collo.

“Scusa se ti ho disturbato” disse semplicemente.

Io scossi il capo, imbarazzata.

“N-non è nulla. Ha bisogno di qualcosa?” domandai con formale cortesia, intrecciando nervosamente le dita fra loro. Ero brava a dissimulare il nervosismo o l’imbarazzo, ma il fatto che quel giovane mi avesse dato immediatamente del tu non mi era di certo d’aiuto.

“Io veramente mi chiedevo…”

Io lo fissai con attenzione, annuendo appena con il capo per incoraggiarlo a parlare, domandandomi che cosa mi volesse chiedere.

Pensai che voleva chiedermi come mi chiamassi; dopotutto prima non avevamo avuto il tempo per presentarci.

“Sono Riza” dissi dopo un attimo, gli occhi bassi e le mani intrecciate al grembo.

Lui mi fissò per un attimo confuso, poi sorrise lievemente.

“P-piacere miss. Riza” disse cordiale, ma con un briciolo di esitazione nella voce.

“Mi chiedevo…potresti indicarmi dove si trova il bagno, per favore?”

Dire che ci rimasi di sasso è un eufemismo. Fortunatamente la mia capacità di ripresa fu quasi immediata e riuscii a nascondere lo sguardo imbarazzato e il rossore vergognoso che m’imporporava le guance.

Mi voltai rapidamente e cominciai a percorrere il beve corridoio davanti a me, invitandolo a seguirmi.

Proseguimmo in silenzio, io tesa come una corda di violino, ancora sopraffatta dalla vergogna per ciò che era accaduto poco prima, lui tranquillo e spontaneo, con lo sguardo che percorreva discreto ogni angolo della casa.

Arrivammo al bagno, lo lasciai davanti alla porta e mi avviai verso il salotto.

“Miss Riza…?”

Mi fermai, voltando appena il capo nella sua direzione; aveva già aperto la porta del bagno e la sua testa era l’unica parte del corpo che sporgeva da essa.

“Si?”

Sorrise.

“Mi chiamo Mustang, Roy Mustang. Sono contento di aver fatto la tua conoscenza”

Annuii con il capo, concedendomi un leggero sorriso, poi senza, dir nulla, mi avviai silenziosamente verso il soggiorno; una volta che avvertii il cigolio della porta che si chiudeva socchiusi le labbra.

“Anch’io signor Roy”

 

Quel giorno non avevo idea di aver conosciuto la persona alla quale avrei dedicato la mia intera esistenza, per la quale sarei stata disposta a rischiare l’onore e la vita, per la quale avrei nutrito un sentimento inconfessabile al quale, solo con il tempo, sarei riuscita a dare un nome.

Ero solo una ragazzina rinchiusa nella sua gabbia dorata, alla quale un ragazzo aveva dedicato un gentile sorriso. 





  
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