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Autore: outofdream    02/02/2014    1 recensioni
Rivisitazione di "Midnight Sun", di S. Meyer.
Dal 5 Capitolo:
[...] e in quegli attimi di totale oscurità, il suo corpo pallido mi appariva come l’unica fonte di luce. E me la immaginavo concentrata sui libri di scuola, mentre si passava una mano fra i capelli, muoveva le sue braccia nel sonno, piegava le gambe quando sedeva scomposta sul divano, corrucciava lievemente le labbra nei momenti disordinati della sua tenera vita, mentre si vestiva o si metteva degli orecchini, mentre si spogliava alla luce tenue della sua abat-jour con gesti stanchi, affaticati, per coricarsi a letto il più in fretta possibile. Me la immaginavo sorridere, come l’avevo vista fare tante volte con Angela e Jessica, voltarsi facendo ondeggiare i lunghi capelli. La immaginavo nella mia vita.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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                                                                                                                Invito


«Edward, devo sapere perché lo hai fatto», poggiava i gomiti sulle gambe, tendendosi verso di me. Non risposi e lui tirò un sospiro, «Lo so, forse Rosalie poteva evitare di comportarsi così.. Saltarti addosso in quella maniera non è stato proprio un colpo di genio, ma era davvero terrorizzata che qualcosa di grave potesse accadere. Tutti noi lo eravamo. Era arrabbiata».
Di nuovo, nessuna risposta.
«Hai fermato un’auto in corsa, Edward. E lei era lì», continuò Carlisle poggiandosi finalmente allo schienale.
«Sarebbe morta», mormorai.
Lui mi osservò attentamente per un momento, «Certo che sarebbe morta», scrollò le spalle, «ma anche questo è nell’ordine delle cose. Noi non giochiamo a fare Dio».
«Credevo che tu ci avessi insegnato a non comportarci come dei mostri», a quella provocazione il suo sguardo si accese, «eppure l’avresti lasciata morire. Tutti voi l’avreste lasciata morire. L’avreste lasciata morire pur sapendo di poterla salvare», ringhiai io, sfidando la sua autorità e il suo volto impassibile.
«Stronzate», tagliò corto lui, «quante altre volte Alice ha avuto visioni di questo genere? Ha visto persone morire, persone che potevano essere salvate e anche molto più giovani di quella ragazza. E in quante di queste occasioni tu hai mai mosso un dito?», il suo tono pacato si scavò una nicchia nel mio cuore e lo colpì dall’interno con una durezza tale da farmi quasi tremare.
«Ti sei esposto davanti a una scuola intera, un parcheggio pieno di ragazzi, hai rivelato la tua vera natura di fronte a un essere umano, hai rischiato di distruggere tutto, messo a repentaglio la nostra sicurezza.. E mi vuoi dire che tu hai fatto tutto questo solo perché trovavi da barbari l’idea che una ragazzina morisse?», domandò ironico, ma io non dissi niente.
«Come si chiama?», mi guardò con un’espressione indecifrabile.
Scrollai le spalle, «Non lo so», provai a mentire, ma dal modo in cui Carlisle mi fissava deducevo che non ero ancora abbastanza bravo per darla a bere a lui.
«Isabella Swan», abbassai lo sguardo.
«Isabella..».
«Bella», aggiunsi sovrappensiero, «lei preferisce essere chiamata così». Non appena mi resi conto della mia confessione, levai lentamente gli occhi da terra e provai a volgerli verso di lui, che pareva perplesso da quelle mie parole, quasi incuriosito.
«Capisco», mormorò, celando un mezzo sorriso che sembrava voler smascherare una punta di tenerezza, «e cos’altro preferisce Bella?». Ci pensai un momento, «Non lo so.. Ma le piace la neve».
Lo guardai per accertarmi che su quel suo volto squadrato non comparisse nessuna traccia di rabbia – a Rosalie ero ancora capace di tenere testa, ma Carlisle.. Forse con lui sarebbe stato un po’ più complicato – e lui si limitò a fare un cenno, esortandomi a continuare.
«Le piace perché.. Non l’aveva mai vista prima», bofonchiai rimanendo sulle mie, tentando di mantenere un certo contegno, ma al ricordo di quel suo modo così puro di guardare il mondo, proprio come se non esistesse nulla di meglio, proprio come se la vita fosse per lei cominciata quel giorno, nello stesso modo in cui io avrei potuto guardare lei, un timido sorriso piegò le mie labbra in una curva che girava tutto il mondo.
Quando mi ricomposi, era ormai troppo tardi e lui aveva già capito.
«Non ci ho parlato molto», mi affrettai a aggiungere, «soltanto una volta. Non posso nemmeno ascoltare i suoi pensieri». «Non puoi? Come sarebbe a dire?».
«No.. Non posso. Non so come mai. È come se la tua testa fosse chiusa», confessai tutto d’un fiato.
Per un attimo lui non rispose, si perse fra i suoi pensieri, strofinandosi il labbro superiore con l’indice, come sempre faceva quando rifletteva su questioni molto importanti o troppo intricate per poter essere capite nell’immediato. Rimasi a guardarlo in attesa, in apprensione, cercando di cogliere ogni sfumatura di quella mente così attenta e perspicace – io temevo che fra il flusso impetuoso dei suoi pensieri potesse guizzare fuori un dettaglio, una parola, un’idea che avrebbe potuto mettere in pericolo la vita di Isabella. Certo, Carlisle non era mai stato un tipo avventato, né violento, lui per primo si era sempre rifiutato di uccidere un altro essere umano, mai aveva assaggiato il sangue come noi altri avevamo fatto, poiché il suo primo vero pasto fu un cervo; la morte dell’animale, il suo sangue gli fecero capire che c’era un’alternativa, che la sua vita non era diventata una condanna, ma che aveva comunque una scelta, che non sarebbe stato costretto a essere un mostro, mai – solo per avere la certezza di potermi rilassare, di non dover temere per l’incolumità di quella ragazza. «Deve essere frustrante», disse infine, sempre con lo sguardo perso nel vuoto. Feci per rispondere, ma mi bloccai. Lo era davvero? Era davvero così frustrante come credevo oppure.. Oppure piacevole? Non mi era mai capitato di trovare qualcuno così, di poter avvicinarmi a una creatura simile. Sì, in effetti a volte quel mutismo mi aveva infastidito, ma soltanto perché avevo cominciato a dare per scontato il mio udito secondario, per questa ragione non poter ascoltare la sua mente a momenti diventava un handicap insopportabile eppure.. Non riuscivo a pensare a lei, non riuscivo a ricreare quel volto fra i miei pensieri e definirla così, “frustrante”. No, una parola simile non le si addiceva affatto, non poteva descriverla. Forse “incavo”, “nettare”, “cuore” la disegnavano meglio.
«Non proprio», tagliai corto.
«Vorrei parlare ancora con lei», dissi, prim’ancora che lui potesse rispondermi. Le sue labbra si piegarono sotto una nota d’amarezza, «Edward..».
«No, sì, lo so. Jane. Lo so. Mi ricordo.. Io mi ricordo ancora di lei. Ma è stato tanto tempo fa, a quel tempo io non avevo idea del mio potenziale, ma adesso è diverso, sono migliorato moltissimo», abbozzai un sorriso, sperando che quello sarebbe bastato a convincerlo, «e non commetterò mai più un errore simile».
«Ho sentito il suo odore», rispose secco. «Quando è arrivata all’ospedale io non avevo idea di cosa aspettarmi, sapevo sol per sommi capi quello che avevi fatto. Entrando nella stanza quel profumo sembrava aver sostituito tutta l’aria del mondo. È molto forte, Edward, talmente forte che perfino io ho vacillato», ammise, «e sappiamo entrambi chi dei due ha l’autocontrollo più sviluppato».
«Questo non significa nulla», strinsi i pugni, «io sono stato capace di resistere».
«Per quanto? Un’ora?».
«Per quanto era sufficiente!», gridai, alzandomi in piedi di scatto.
«Edward, sai benissimo che io non voglio impedirti di essere felice», parlò lui, «e sai che tu potrai sempre fare come più riterrai giusto. Ma devi ricordarti cosa sei, prima di quello che vuoi. E tu non sei umano. Nessuno di noi lo è. Altrimenti perché credi che vivremmo in questo modo?», allargò le braccia, quasi a volermi mostrare la misura esatta di quanto dolore io da solo ero riuscito a causare a tutti loro.
«Ho paura che potresti ucciderla», sussurrò.
L’immagine del suo collo martoriato dai miei denti aguzzi, del suo sangue e dei suoi occhi vuoti mi colpì come una fucilata in pieno viso, come un’offesa tremenda. «Non potrei mai», ringhiai, «non lei».
Lui si alzò, quasi a volermi capire meglio, «Edward, queste sono le occasioni in cui ti vorrei diverso, in cui vorrei che tu potessi provare un’assennata preoccupazione verso certe situazioni.. A te non spaventa mai nulla, è per questo che tu sei forse il meno libero di noi. Perché.. Edward..».

«Tu dovresti avere paura di lei».


Il viaggio in auto fu semplicemente straziante: nessuno diceva una parola, neanche Emmett. Nessuno voleva starmi accanto in quei momenti ma tutti volevano che rimanessi lì a godermi quel silenzio – se stavo con loro, così almeno aveva pensato Alice, non potevo fare altre cazzate.
Ogni tanto Rosalie, fra un insulto mentale e un altro (a me rivolti, s’intende), si dilettava a lanciarmi occhiate d’odio profondo che mi limitavo a ignorare. Carlisle aveva ragione, loro avevano paura, paradossalmente parlando ciò li rendeva liberi, liberi di accontentarsi esclusivamente di quello che avevano, liberi di non voler desiderare altro, liberi di credere di essere felici. Io invece.. Io no.
Avrei dovuto avere paura di quei capelli, di quei suoi occhi, di quel suo viso così roseo, paura di quel profumo travolgente, ma non potevo, non ci riuscivo. Paura non era un il sentimento che mi veniva in mente se le stavo vicino, paura non era guardarla negli occhi, parlarle, sorriderle. Paura era invece quella che si era liberata nel mio cuore come una scarica elettrica quando temevo di averla persa per sempre.
Paura era la possibilità che svanisse ora che l’avevo trovata.
Quando arrivammo a scuola, Emmett mi si avvicinò con fare distratto, volgendomi un’occhiata intristita, Non fare nulla di stupido oggi, pensò mentre camminavamo nei corridoi, per favore.. Lo so che le tue intenzioni sono buone, ma rischi di mandare all’aria ogni cosa. Un cenno impercettibile fu la mia unica risposta. Ci dividemmo sulla soglia dell’aula di Biologia, io vi entrai, mentre i miei fratelli tirarono dritto. Forse avrei dovuto seguire il consiglio di Emmett – il suo tono docile, tenero mi avrebbe dovuto far cambiare idea – ma non appena la vidi seduta al suo posto, con l’aria un po’ scocciata, simile più che altro a un dipinto che a un essere umano, non potei fare a meno di scordarmi ogni raccomandazione, supplica, proibizione. Mi sedetti al suo fianco, cercando di non disturbarla. Per essere sinceri, avrei voluto dirle qualcosa.. Qualsiasi cosa. Ma non riuscivo nemmeno a fiatare. Scelsi il silenzio, sperando che la gita in programma quel giorno, capeggiata dal signor Banner, mi avrebbe aiutato a schiarirmi le idee. Durante il viaggio in autobus mi sedetti da solo, cercando di non dare nell’occhio, ma senza riuscire a distogliere lo sguardo da Mike Newton, sedutosi qualche posto più avanti accanto a Isabella.
Non ero granché stupito dalle sue pulsioni erotiche, che esplodevano nella sua testa  con la stessa intensità di una granata, ma ne ero decisamente infastidito. Se questo non avesse significato sfracellargli il cranio mi sarei probabilmente alzato per tirargli un pugno sul naso. Ma come ho detto, era una via impraticabile.
Le sue tette sono un po’ più piccole viste da qui, ma il suo culo compensa alla grande. Chissà se verrebbe al Ballo di Primavera con me.. Sarà mica fidanzata? Forse non è il caso di chiederglielo però, magari dovrei soltanto continuare a parlarle e poi l’argomento salterà fuori da solo! Sì, certo, meglio così, meglio così.., pensava tutto eccitato. Cosa avrei dato per poterlo scaraventare ai confini del mondo con un solo calcio.
Scendere dal pullman e potermi allontanare da loro fu un vero sollievo – certo, riuscivo comunque a percepire con chiarezza i suoi volgari pensieri, ma se non altro era più facile isolarmi. Non appena entrammo nella serra, il signor Banner cominciò a spiegare la lezione del giorno con un enorme sorriso stampato in faccia; non ero interessato, come sempre d’altro canto e cominciai a guardarmi intorno, esaminare fiori e piante, ma soprattutto cercai di respirare. A fondo, a lungo, ma per quanto mi riempissi i polmoni di quell’odore pungente, non bastava mai. Non era mai sufficiente per coprire il suo, per coprire quella fragranza che le si intrecciava ai capelli e rendeva il suo sangue il più irresistibile che avessi mai sentito. Ogni tanto le lanciavo delle rapide occhiate, solo per accertarmi ancora della sua presenza in questo mondo, per ammirarla un momento e cercare di cancellarla l’altro.
Il suo profilo morbido, le ciocche di capelli, le più sottili, che seguivano la linea delle sue gote, le sue labbra leggermente umide, riuscivo a cogliere ogni dettaglio, vederla in un modo così preciso da far quasi spavento, eppure non la capivo. Io non sapevo nulla di lei. Avrei voluto che mi raccontasse qualcosa, qualsiasi cosa, per esempio quale animale preferiva di più, quale canzone avrebbe ascoltato per ore senza sosta, se si era mai arrabbiata tanto da piangere o.. Il pensiero delle sue lacrime mi lasciò turbato per qualche momento, l’idea di vederla con le lacrime agli occhi.. No, non ero abbastanza forte per poter sopportare una scena simile. Mi passai una mano sul viso e poi la vidi, il bocciolo d’una rosa muscosa rossa –ne riconobbi immediatamente il profumo – trattenuta in un piccolo vasetto. Lo presi dal tavolo senza ripensamenti e andai da lei. Man mano che mi avvicinavo il profumo si intensificava, la sete mi bruciava in gola come un tormento, ma la voglia di starle accanto era più forte.
«Lo sai che qui non si possono cogliere fiori?», parlai, avvicinandomi al suo orecchio, «Non lo sapevo mica».
«Sei scemo o cosa?», sbottò lei, «È una serra, è ovvio che non si possono cogliere fiori qua dentro».
Le mostrai il fiore, cercando di celare l’imbarazzo.
«Mi hanno detto che non potevo coglierlo, allora ho preso l’intero vaso», risi, «Tieni».
Restò interdetta per un attimo, «Che significa?», domandò.
«Che ho rubato un fiore per te e adesso sono diventato un pericoloso criminale», provai a scherzare. Ancora non capiva, così dissi, «È per dirti che sono felice che non sei morta».
Ci fu un silenzio imbarazzato per qualche momento.
«Mi piaci più così che come frittata di Bella», provai a dire allegramente, ma ancora il ricordo di quei momenti, della visione di Alice erano vivi e pulsanti in me. Lei allungò piano le mani verso le mie, sfiorandomi delicatamente accettò il mio dono. Il calore della sua pelle era come fuoco che toccava il ghiaccio delle mie mani morte. «È stato merito tuo», mormorò fissando il bocciolo.
Scrollai le spalle senza risponderle.
Rimanemmo in quel modo, per tutta la durata della gita, di fianco l’uno all’altra, senza parlare. Non dico che mi fosse sufficiente, in realtà c’erano così tante cose che avrei voluto dirle e che avrei voluto sapere.. Avrei voluto avvicinarmi di più, per essere precisi, quella era sicuramente uno fra i miei tanti desideri: avvicinarmi quel tanto da poterle riuscire a toccare il dorso della mano, quasi per sbaglio, far scorrere lentamente il mio indice fino al suo polso e da esso scivolare di nuovo giù, ma questa volta andando a cercare i suoi polpastrelli per infine intrecciare le nostre dita. Chissà come avrebbe reagito al contatto col mio corpo freddo. Provai a allontanare quel pensiero per tutto il giorno, dopo la gita, dopo essere uscito da scuola. Perfino a casa mi rifugiai nella mia stanza, tentando in ogni modo di evitare certe elucubrazioni: ero talmente concentrato a distrarmi che quando Emmett entrò in camera fu quasi una sorpresa.
«Ciao», dissi stupito.
«Ciao. Cosa fai?», si sedette sulla poltrona vicino a me. Io scrollai le spalle, «Niente».
«Pensi ancora a quella faccenda?», domandò.
«Qualcuno di voi ha smesso di farlo?», ribattei perplesso.
Lui sorrise debolmente, «No, in effetti no».
Rimanemmo un attimo in silenzio.
«Perché?», mi chiese, rivolgendomi un’occhiata tranquilla.
«Perché non ho potuto farne a meno», ammisi.
«Come mai lei?», l’espressione di Emmett si era fatta curiosa, attenta.
Abbozzai un sorriso, «È carina».
«È carina», mi fece eco lui, «tutto qui? Tu le hai salvato la vita.. Perché era carina? Quindi se fosse stata davvero una guercia sdentata e zoppa l’avresti lasciata al suo destino?».
«Credevo fossimo rimasti d’accordo che era solo guercia e zoppa, non anche sdentata», soffocai una risata, ripensando alle nostre conversazioni. «Ho aggiunto qualche dettaglio.. Levato i tentacoli. Mi parevano poco credibili», sorrise. «In effetti», commentai.
«Allora quindi.. Ti piace?», riprese il filo del discorso.
Feci spallucce, «Non so cosa dovrei dirti».
Lui parve non capire.
«Il fatto è che.. Non so se ti piacerebbe conoscere la verità. Ti dirò quello che vuoi sentirti dire, però. Se vorrai», gli lanciai uno sguardo che avrei voluto definire risoluto ma che purtroppo, a giudicare dal turbinio di emozioni che si era scatenato in lui come un uragano, racchiudeva troppa tristezza perché potesse passare inosservata. Emmett si passò una mano fra i capelli ricci, quasi una piuma d’oca che fendeva quel mare nero corvino e ne separava le onde per un momento. «Gli altri non sono qui, sono a caccia. Lo sai, vero», mormorò. Io annuii. «Allora parla, avanti, dimmi la verità», mi guardò serio.
«La prima volta che l’ho incontrata è stata durante la lezione di Biologia del professor Banner. Quando si è seduta vicino a me, l’odore del suo sangue mi ha quasi fatto perdere la ragione. Sarei stato pronto a uccidere chiunque soltanto per averne una goccia, volevo seguirla fino a casa, ucciderla, fare qualsiasi cosa in mio potere..», affondai il viso fra le mani per la vergogna, «Stavo per farlo, Emmett. Ma poi lei ha parlato. E io mi sono calmato. Da quel momento la voglio, ma non la voglio più come prima. Ho voglia di parlarle, di stare con lei, di sentirla ridere o solo respirare. Non so spiegare perché non la voglio più nel modo in cui dovrei volerla, so solo che quando ho visto il furgoncino di Tyler e ho capito che stava per morire non ho potuto fare altro che correre da lei. Era come se non l’avessi nemmeno deciso, è stato involontario. Non vi volevo tradire o mettere in pericolo», mi voltai verso di lui, «ma noi abbiamo così tante possibilità, abbiamo così tanti modi per ricominciare, lei invece è fragile, ci sono cose da cui non può proteggersi e io vorrei soltanto che stesse bene».
Emmett mi poggiò una mano sulla spalla, sul suo volto nessuna espressione. «Mi dispiace», dissi quasi senza rendermene conto, senza quasi saperne il reale motivo.
«Perché?», sembrava sinceramente stupito.
«Non lo so», i miei pensieri, le mie parole erano un groviglio confuso in me, «perché è umana, non dovrei..». Emmett scoppiò a ridere e per un attimo non disse nulla, si limitò soltanto a ridere.
«Certo che sei proprio idiota», continuò a sorridermi, gli occhi strizzati in una piccola fessura, «lei ti piace. Si vede. Non credo potresti ucciderla».
Rimasi interdetto. Lui fece spallucce, «A te non poteva piacere una qualunque. Una come noi».
«È la paura, li rende così, nemmeno Rosalie è più come prima da quando è successo. La fa impazzire la paura che hanno per te, quasi come se sentissero tutto quello che non riesci a sentire tu. Io posso vedere, ti posso capire, ma questo non significa che non tema il peggio. Per te, dico. Sai che morirà, vero? Lei non è come noi. Cosa farai quando succederà?», mi guardò serio, e poi sorrise tristemente, «Non ci avevi pensato, eh?». No. No, non l’avevo fatto. Era come se una parte di me si fosse autoconvinta di averla salvata da ogni male soltanto fermando quell’auto, con un così piccolo sforzo aver annientato un mostro così enorme, e invece mi resi improvvisamente conto di essere al punto di partenza, che c’erano demoni da cui non avrei mai potuto liberarla e uno era in lei e cresceva nutrendosi della sua vita stessa. Il tempo.
Il suo, prima o poi, sarebbe scaduto.
Rivolsi a Emmett occhi traboccanti di disperazione, sperando che lui potesse indicarmi una via di fuga.
«Se stare con lei ti fa stare bene, allora che si fottano tutti, dico io. La vita è troppo breve comunque, anche per noi. Soprattutto per noi. Se tu riuscissi a vivere anche solo per vent’anni, grazie a lei, sarebbe comunque meglio che esistere fino alla fine dei tempi sapendo di aver perso l’occasione di fare ciò che il tuo cuore realmente bramava», mi sorrise, «Non ti pare?».


Lo sapevo, è fidanzata. O di sicuro è già interessa a un altro. Ma a chi? Non parla mai con nessuno tranne noi.. Sarà mica uno di Phoenix? O forse.. Edward Cullen?, Mike mi lanciò un’occhiata sfuggente mentre usciva dal parcheggio della scuola, dopo le lezioni, con la coda fra le gambe. A quanto pare invitare Isabella al Ballo di Primavera non aveva dato i suoi frutti, un vero peccato. Lui pareva esserne rimasto scottato, ma a lei non pareva importare più di tanto, o almeno così deducevo mentre l’osservavo infilare lo zaino sui sedili del suo pick-up e infilarcisi dentro. Forse avrei dovuto parlarle.
Dove aveva detto che andava, a Mike? A Seattle? Interessante. Mi chiedevo se si trattasse soltanto di una scusa o della verità. Mi diressi verso di lei a grandi falcate.
«Ciao», le dissi, scegliendo il miglior tono di voce.
«Ciao Edward», rispose lei. Sembrava sempre così seccata di parlarmi che quasi mi feriva.
«Guarda», dissi, indicando la mia t-shirt dei Black Sabbath, «Figa, eh?».
«È carina», fece spallucce.
Poggiai i gomiti sulla portiera, esercitandovi una pressione tale che nemmeno un rimorchiatore avrebbe potuto muovere di un solo millimetro quel vecchio pick-up scassato. «Non essere invidiosa, dai», ghignai, fingendo indifferenza, «te ne compro una se ci tieni».
«E poi ci vestiamo uguali come i fratelli Phelps? Bello», borbottò sarcastica.
«Dai, non fare la cattiva con me», provai a dire in tono languido una frase che suonò sicuramente più come una supplica. «Ho sentito che vai a Seattle», aggiunsi.
«Come lo sai?», un lampo attraversò quei suoi bellissimi occhi intelligenti.
«Forks è piccola, la gente mormora, ormai fai anche tu parte della famiglia, è ovvio che tutti sanno tutto di te», sorrisi. «Vorrei venire con te, se non ti dispiace».
«È fuori discussione», rispose duramente, «vado là per stare tranquilla, ma stare tranquilli con te è un’impresa». Non potevo darle che ragione. Era angosciante il modo in cui mi facesse sentire, la maniera in cui, qualunque sua parola, riuscisse a trafiggermi come una lama, da parte a parte. Semplicemente era insopportabile scoprirmi così vulnerabile.
«Ma che dici..», mormorai, tentando di allontanare la tristezza, «Non lo sai che è un mondo pericoloso là fuori? Per le donne non è sicuro viaggiare sole», provai a sorridere.
«Scusa, credevo di vivere in America, non in Arabia Saudita», rispose sarcastica. «Grazie tante, ma no grazie», sorrise e dette di nuovo gas. «Permalosa», sbottai.
«Devo partire, levati».
«Il tuo pick-up a Seattle ci arriverà cubettato. E’ un vero catorcio. Pure per gli standart americani».
Lei non rispose.
«Finisco i compiti per te, ti salvo la vita, ti offro passaggi,.. Wow Edward Cullen candidato a miglior ragazzo di sempre!», mi sforzai di ridere, «Praticamente se fossi in te mi sentirei quasi obbligata».
«Come ti pare!», sbottò, «Ci penserò. Ti farò sapere».
«Mi piace già di più», dissi levando i gomiti dalla portiera e lasciandola andare.
Vidi il pick-up sparire all’orizzonte e ripensai alle parole di Emmett.
Aveva ragione, aveva ragione davvero. Perché in quel momento sapevo che avrei dato qualsiasi cosa in cambio pur di averla nella mia vita.

  
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