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Autore: yoyo_whitehole    03/02/2014    6 recensioni
«Ha tradito. Ha ucciso. Ha torturato» Kevin diede le spalle al Pacificatore ammanettato, posizionandosi tra lui e la folla. «Ma non ha tradito me. Non ha torturato me, e direi che non mi ha ancora ucciso. I suoi crimini non sono contro me.»
Kevin ruotò la pistola tra le dita, allungò il braccio. Rivolse l’impugnatura alla folla.
Si chinò quel che bastava per poggiare l’arma a terra, con delicatezza. Si spostò, di lato, un solo passo; tra la folla e il Pacificatore rimase solo la pistola.
(...)
Imhor raccolse l’arma e tolse la sicura. Fissò Kevin un’ultima volta, non con l’aria di chi cercasse una conferma, o un tacito invito: con una pistola carica nella mano e un’imperscrutabile serietà nel volto.
«Uccidilo» sibilò il Pacificatore, la voce strozzata «Non avete mai avuto speranza, Capitol City vi sterminerà dal primo all’ultimo se non finite questa follia adesso. Se lo uccidete vi perdonerà…» guardò Kevin con odio disperato «Dimenticherà… Dimenticheremo tutto…»
Il gigante spostò lo sguardo sul Pacificatore, che si azzittì. Il silenzio strisciò ancora per qualche attimo, qualche attimo ancora, poi Imhor puntò la pistola.
«Io non dimentico» disse, e premette il grilletto.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Caesar Flickerman, Presidente Snow, Sorpresa, Tributi di Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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ALEA IACTA EST. Parte II


 

Distretto 5

"Ogni felicità è un'innocenza"

-Margarite Yourcenar

 

-Hazel!- gridò un bambino, dondolandosi su una semplice altalena di corda. La ragazza gliela aveva costruita pochi giorni prima, sul ramo dell’alberello. –Perché tutti dicono che è un giorno speciale, oggi?-
-Jon- mormorò Hazel, che stringeva una bambina per mano –La Mietitura è…- La prova della ferocia dell’uomo. –Un incontro particolare, sì. Chi viene estratto parte per un lungo viaggio-
Il bimbo aggrottò le sopracciglia –Ma poi torna?-
-Certo- confermò dolcemente Hazel, stringendo ancora più forte le mani delle due piccole. Sophie e Daisy. O quel bambino di sei anni di fronte a lei, Jonny. Mancavano anni prima che potessero partecipare alla prima mietitura; ma gli anni passano in fretta.
Ho paura. Questi bambini che non dovrebbero essere nulla per me. Eppure, ho già paura di perderli. Perché?
-Sophie, credo sia il tuo turno- disse Hazel, stavolta nel suo solito tono distaccato. Jon scese malvolentieri dall’altalena, lasciando il posto ad una bambina dai lunghi riccioli biondi. Hazel cominciò a spingerla da dietro, piano. Una quieta tristezza aveva incupito i suoi occhi nocciola.


-Guarda, Arcturus- la voce di suo nonno, quel tono grave e gentile che riesce sempre a rassicurarlo. –Non è successo niente, si è solo ferito a una zampa-
E il bambino guarda, mordendosi il labbro per non piangere. Il piccolo cerbiatto è lì, incastrato tra le radici di un albero, con gli occhi lucidi di terrore. Dalla zampetta scende qualche rivolo di sangue, rosso acceso tra il verde.
Arcturus emette un piccolo gemito. –Muore?-
-No, piccolo. Adesso portiamo delle bende dall’ospedale di mamma, che ne dici?-
Arcturus guarda il viso dolce del nonno e si riempie di sollievo. Pochi istanti, e l’entità oscura, terribile della morte lascia il posto al semplice profumo dell’aria fresca dei boschi.
-E sarai tu a curarlo-

Arcturus si svegliò placidamente, i colori di quel ricordo ancora stampati nella mente. Era un buon auspicio, giusto? La morte avrebbe lasciato anche quel giorno. Qualche ora, poi sarebbe tornato l’odore di terra bagnata, di funghi, e il calore della sua vita.
Anche in virtù di quel pensiero, si alzò subito dal letto e trotterellò verso la cucina, sbirciando i suoi nonni tranquillamente seduti a tavola. Si rasserenò.
-Ciao- salutò in tono leggero, prendendo una fetta di pane.
-Buongiorno, scricciolo- disse Dafne. Non era uno scricciolo, in verità: a quattordici anni, era già alto quanto lei.
-Hai deciso di svegliarti, finalmente- disse sua madre sorridendogli. Nei giorni della Mietitura, sorrideva più spesso, e in modo più falso.
Arcturos salutò i suoi genitori con la mano, la bocca troppo piena di pane e latte per rispondere.
L’ora di andare arrivò presto, come sempre. Quando Arcturus uscì dalla porta, fu accolto da un cielo grigio e piatto. Fece qualche passo, schiaffeggiato dal vento, poi aprì lentamente le braccia lasciando che la sua giacca rossa si gonfiasse d’aria. Per una manciata di istanti si sentì uno strano uccello scarlatto. Rise, chiedendosi che senso avesse. Piccole nuvole di condensa intepidirono l’aria fredda.
Andrà tutto bene.


-Hazel…- perché era così difficile pronunciare il nome di un tributo? Davis si chiese di quale ragazza stesse decidendo il destino. Si chiese se avesse scelto bene, si chiese se il Distretto sarebbe riuscito finalmente a vincere.
Ma la sua voce proseguì imperturbata dai suoi pensieri. –Tanner-
Davis accartocciò il biglietto tra le dita e lo lasciò cadere a terra. Non sapeva cos’altro fare, mentre una ragazza – di quindici anni, ad occhio - si avvicinava al palco. Passo incerto, la bocca socchiusa, le sopracciglia lievemente incurvate all’insù e lo sguardo spaesato. Lo sguardo di chi ha subito una qualche terribile ingiustizia. No, non credo di aver scelto bene.
Il volto di Hazel era pallido sotto i morbidi boccoli, dello stesso castano profondo dei suoi occhi. Carina, timida e incapace, dedusse Davis, poteva andare peggio.
Il presentatore le fece un sorriso di incoraggiamento, sebbene fosse lui stesso scoraggiato.
Non perse tempo e affondò la mano nella seconda boccia, afferrando il primo biglietto in superficie.
-Arcturus Nominem-. Ci furono i soliti istanti di silenzio che Davis aveva imparato a contare, uno per ogni domanda. Quanti Arcturus Nominem esistono nel distretto? Sono proprio io? Perché io? Sbuffò.
Alla fine, un ragazzo si fece avanti, sebbene in modo meno signorile rispetto ad Hazel.
Aveva capelli biondicci che gli cadevano con una frangetta sugli occhi verdi. Era alto, ma dai lineamenti del viso non poteva avere più di quattordici anni. Atterrito, confuso e incapace. Ecco, ora va peggio.


-Avrei voluto fare di più.- Una lacrima scese lenta per la guancia di suo padre –Avrei voluto esserci di più. Vederti crescere, stare con te ogni istante. Dovevo farlo.-
Hazel gli sorrise mestamente, le braccia strette attorno al suo fratellino Maxim.
-Non potevi. Lo sai-
-Avevate bisogno di soldi, sì. Ma anche di un padre. E adesso…- non continuò.
-Più che perdonarti dovrei ringraziarti, papà-. Hazel tacque.
-Adesso cosa fai, Haz? Te ne vai?- una vocina incerta, speranzosa.
La ragazza guardò Max e gli arruffò i capelli sulla testa. Era questo che avrebbe fatto nostra madre? O sarebbe riuscita a consolarlo, a spiegargli…
Avrebbe consolato anche me?
Mi avrebbe spiegato perché mai queste cose devono succedere?
Hazel voleva rispondergli con le stesse parole che aveva usato per Jon, ma la sua voce era fuggita via dalla gola. Sto per piangere?
Guardò la sua famiglia, pensò ad ogni singolo bambino del distretto che aveva accudito. Pensò alle persone che non era riuscita a non amare, e l’idea di doversele lasciare alle spalle la straziò. Ho sbagliato, ho sbagliato di nuovo. E ora soffrirò.
Ventiquattro tributi, ventitré morti. Perché dava per certo che non sarebbe riuscita a tornare?
Ventiquattro tributi, venitré morti. C’era sempre una speranza, giusto?
Giusto?
Dentro di lei, rispose solo il silenzio.


 

Distretto 6

 
"Per non assuefarsi, non rassegnarsi, non arrendersi, ci vuole passione. Per vivere ci vuole passione."
 


-Ehi!- si lamentò Xen, con un’occhiata più divertita che risentita al suo topo. Non si morde. Non alla mano che ti nutre, almeno.-
-Lascia stare quell’ingrato, Xen. Preparati- sua madre stava trafficando nell’armadio, alla ricerca di qualcosa di decente da fargli mettere.
Il bambino lanciò un ultimo pezzo di pane al topo, che schizzò nel suo buco. Il motivo di quell’improvvisa fuga non poteva che essere Macchia. Xen accarezzò il pelo rosso e morbido del micio, che gli mordicchiò un dito. Doveva avere un ottimo sapore, la sua mano.
-Xen!- il bambino saltò in piedi. –Sì, sì, ora mi vesto-
Suo padre apparve dalla porta –Piove- sentenziò. Aveva una voce stanca, sebbene quella fosse una delle pochissime mattine in cui non lavorava nella fabbrica tessile.
Sì, pioveva. Xen sperò solo che non scoppiasse una tempesta. Lo attraversò un brivido, al solo pensiero. L'unico tributo sorteggiabile ad avere più paura di un temporale che della Mietitura.   
-Ti aspettiamo qui, dopo, va bene?- disse sua madre, celando la preoccupazione nella voce. Xen annuì. Aveva una sola nomina, le probabilità che fosse estratto erano troppo minime per spaventarlo.
Non aveva mai assistito ad una Mietitura, perciò la calca gli parve mostruosa. Ma a dir la verità, non era mai stato difficile per lui scomparire nella folla.
Scrutò il palco, dove una donna con un vestito di un terrificante rosa shocking e una parrucca di un altrettanto terrificante verde pisello discuteva animatamente con un uomo. Xen fissò le sue scarpette di un arancione vivace a strisce viola. Sarà daltonica?
Ad un certo punto, la donna parve perdere la pazienza e strillò qualcosa. Nessuno la sentì. Un altro grido, poi un fischio acutissimo d’elettricità. Xen si portò le mani alle orecchie. Microfono rotto, constatò. Intirizzito dal freddo, si tirò su il cappuccio per guardare meglio. La presentatrice diede qualche altro colpo al microfono, finché gli stridii strazianti non ridussero la piazza al silenzio.
-Buongiorno!- espirò, praticamente senza voce. Essendo quasi in prima fila Xen riuscì a sentirla. –Questo sarebbe il distretto delle tecnologie? Al diavolo- scoppiò a ridere. Di certo non era una persona irritabile.
Con pochi passi decisi arrivò all’urna, vi tuffò dentro la mano e prese un numero spropositato di bigliettini. Lasciò che cadessero a terra, ad esclusione di uno –Naomi Green- tossì un paio di volte, accettando con cuore il bicchiere d’acqua che le porsero.
Nel frattempo, il nome fu sussurrato da fila a fila, finché non si propagò per tutta la piazza.
Naomi. Xen l’aveva vista, una o due volte. Una ragazza dai capelli neri e splendidi occhi azzurri, sui diciassette anni. Non sapeva di più.
-Mi offro io!- una voce energica e risoluta. Xen, allibito, vide una minuscola dodicenne correre sul palco. Sulle sue ossa doveva esserci più o meno la stessa quantità di carne che si avrebbe ricavato spolpando un pipistrello.
Perché mai…? Naomi era forse sua sorella? Non appena la vide in volto escluse l’ipotesi. Le assomigliava quanto il Sole alla Luna: una zazzera bagnata di capelli castani corti, occhi castani e lunghe sopracciglia aggrottate.
-Chi… Chi sei tu, piccola?- chiese l’accompagnatrice, a metà tra il perplesso e il curioso.
Gli occhi della bambina guardarono fissi la telecamera. –Io sono Momo. Momo Centodue- scandì –E se morirò non avrò rimpianti- Aveva una voce ferma, quasi autoritaria.
Xen si arrovellò cercando di capire. Centodue. Gli unici bambini con dei cognomi del genere, numerati, erano gli orfani che lavoravano e vivevano nei cantieri. “I ragazzi delle 24 ore”, gli pareva fossero chiamati.
-Musica per le mie orecchie!- esclamò la presentatrice, sempre più perplessa che gioiosa. –Ora passiamo al nostro bel bimbo-
Xen respinse l’ondata improvvisa di paura. Non ce n’è ragione, si ripeté.
-Sam…- la donna strinse gli occhi un paio di volte –No, scusate. Xen Miranx!-
Fu un colpo a tradimento. Con la pioggia che scendeva implacabile nella sua faccia, nei suoi abiti e nella sua anima, fece il primo passo. Guardava a terra, concentrandosi sulle sue scarpe che avanzavano tra le gocce. No, no, no, no, no. Parole che gli rimbalzavano in testa una filastrocca senza senso.
-Oh- si lasciò sfuggire la presentatrice, mentre il Distretto si animava di disapprovazione per il secondo tributo dodicenne.
Xen salì il primo gradino, cercando di arginare l’orrore che sentiva inondare tutto il suo essere. Due gradini. Tre.
-Nessun volontario?- chiese la donna. Forse se l’era solo immaginato, ma gli sembrò ci fosse una nota di disperazione in quella voce.
-Bene- rispose poi al silenzio, cercando di ricomporsi con un lungo respiro. –Allora…-
Xen alzò gli occhi da terra e gettò una fugace occhiata alla sua compagna. Le braccia incrociate, Momo Centodue stava guardando la pioggia.
-…Felici Hunger Games! E possa la buona sorte essere in favore di questi due valorosi giovani- disse la presentatrice, ma la sua voce sembrava animata da un sarcasmo cupo. Poi voltò le spalle al distretto e se ne andò dal palco.


Ti voglio bene.
Aspettami, io tornerò.
La bambina firmò con la sua scrittura lenta e squadrata. Non era il massimo, come lettera, ma tanto bastava. I lunghi addii li scrive chi è convinto di non tornare.
La prima ad entrare fu Naomi, che riuscì a sostenere il suo sguardo per un solo momento. Abbastanza per farle vedere le lacrime. –Grazie. E’ una parola stupida, ma non so cos’altro dire.-
-Non l’ho fatto solo per te. Derek ti ama- Tu sei il suo motivo per vivere. E io voglio che viva.
-Non più di quanto ami sua sorella!- esclamò Naomi, combattuta tra gratitudine e disperazione.
-Ma io tornerò- concluse Momo, in tono ovvio.
Silenzio.
Un silenzio pieno di dubbi.
Poi un secondo, fioco “grazie” e la porta si chiuse con un cigolio.
Contrariata da quello scetticismo, Momo si sedette sulla poltroncina lussuosa, con in mano la sua letterina. Ma ebbe neanche un istante per riflettere su come consegnarla a suo fratello, che la porta si riaprì. Momo sapeva che la sua fama fosse grande nel distretto, ma non così.
–Spero non te ne dovrai mai pentire- le disse un rivoluzionario, dello stesso gruppo di aveva fatto parte Derek. Era lui ad aver elaborato il sistema di scrittura cifrato per comunicare tra ribelli. Era lui che scriveva le lettere e gliele consegnava, perché le portasse a destinazione.
Le visite continuarono per ore intere. Il vecchio con il figlio ferito da un Pacificatore, che gli affidava le lettere da portare nel suo ospedale. L’uomo la cui fidanzata era in prigione, dove solo lei sapeva arrivare. E i bambini delle 24 ore del suo cantiere: a tutti fu permesso incontrarla.
Per un istante l’idea di abbandonarli, di non poterli più aiutare la inondo' di un vuoto colpevole. Ma poi l’istante finì: un motivo in più per vincere.
Gli occhi di Momo rimasero valorosamente asciutti fino all’ultima persona. Una bambina di sette anni, Esmeralda, che rimase incerta sulla soglia.
Momo aveva ancora la sua letterina in mano, sconsolata e dimenticata.
–Ciao- la sua voce si era stancata di rassicurare.
-Lo so che vincerai- la interruppe la bimba. Poi le tese la mano –L’avevi lasciato nel dormitorio. Pensavo che ti sarebbe piaciuto portarlo con te-
Sul palmo, luccicava un anellino di semplice metallo, decorato con sottili geometrie incise.
-Grazie- Noemi ha ragione. E’ una parola stupida, che non dice niente.
Sorrise nel metterselo al dito, assaporando il ricordo del bambino che gliel’aveva regalato.
La guardò negli occhi, sicuri e fermi come i suoi, e decise.
-Grazie- ripeté Momo abbracciandola, per celare alle telecamere lo sfiorarsi delle loro mani. Furono due i fogli che le passò: la lettera, e la mappa delle prigioni.
-Portagliela. Portala a Derek- sussurrò. La bambina rimase un istante basita, poi annuì più decisa che mai, stringendo i due foglietti tra le mani. Era tra le più portate, tra le più brave a seguirla nelle sue consegne. Ce l’avrebbe fatta.
-Il Distretto ha bisogno di te- aggiunse in un soffio Esmeralda, chiudendosi la porta alle spalle.
Momo restò sola con il suo anello, impiegando qualche attimo per dare un nome all'inusuale calore la riscaldava da dentro.
Commozione.

Distretto 7

La speranza è un rischio da correre. E' addirittura il rischio dei rischi.

-Georges Bernandos

 
Un lenta musica si alzava lieve dalle ombre dei pini. Un melodia che sapeva di ricordi mai sbiaditi, di malinconia e di speranza.
Di vita.
Il destino gravava incorruttibile e imperscrutabile sul distretto 7. Era il giorno in cui ogni sogno, ogni frammento di allegria, di affetto e di futuro attendeva sospeso nell’aria. Dimenticato, almeno fino al termine di quella giornata, privo di senso alcuno.
Vita e morte. Tutto il resto non era che un soffio di vento nell’uragano.
La musica del flauto cullava triste e quieta la foresta, la luce tenue dell’alba frammentata dalle chiome ondeggianti.
Alek soffiò un’ultima, lunga nota. E tacque.
C’era qualcosa di sbagliato nel suonare, di mattina, pensando a suo fratello. Perché ogni volta lo ricordava come se fosse ancora vivo. Lontano, ma vivo.
E quando la melodia finiva, rassegnarsi alla realtà non era mai facile.
-Suoni bene- una voce schietta infranse il silenzio con malagrazia. –Ma non è il sottofondo ideale per spaccare legna-
Alek si girò, squadrando stupito la ragazza. Gli parve di averla già vista, forse al villaggio dove andava a vendere la legna. Difficile non notarla, a pensarci. Sulla testa aveva una improbabile zazzera di ciuffi castani, cortissimi. La luce del sole, in balia del vento tra le fronde, li faceva risplendere a tratti di riflessi scarlatti. Aveva un viso liscio e fine, da cui spiccavano due allegri occhi azzurri. O forse verdi, Alek non sapeva dirlo con certezza.
-Non sto spaccando legna- rispose alla fine, cauto.
-Ma io sì- detto ciò, la ragazza si passò l’accetta alla mano sinistra, soppesandola. Adocchiato il ramo giusto, portò indietro il braccio e diede un colpo deciso.
Alek la osservò incerto mentre si spazzava trucioli e nevischio dal viso e ritentava. Aveva pantaloncini corti oltre le ginocchia, cosa assurda per qualsiasi persona a sangue caldo del Distretto 7. Stavolta il ramo si piegò e cadde a terra con un tonfo sordo, liberando qualche frammento di neve candida.
Alek ripose il flauto, decidendo che non aveva più niente da fare, lì. Raccolse la sua mastodontica ascia, che doveva pesare bene o male otto volte quella di lei, e si alzò.
Sollevò la mano in segno di saluto. –Comunque, mi chiamo Alek-
Lei lo imitò. –Axe-
Axe. Pochi, dalle sue parti, non conoscevano quel nome.
Circospetto, Alek osservò la mano alzata della ragazza. L’anulare e la prima falange del mignolo erano tranciati di netto. Con un lieve brivido, le rivolse un cenno d’assenso col capo e se ne andò.


Emily Watson, al suo primo anno da presentatrice, guardava la piazza affollarsi spaventata. –Come li saluto?- chiese al mentore del distretto, ottenendo in risposta solo un cenno vago e un’occhiata scettica.
-E’ ora?- domandò sempre più terrorizzata, guardandosi nello specchietto. Decine di fiori colorati le intrecciavano i capelli, e tutto il viso era dipinto con motivi floreali.
Il mentore ridacchiò. -Sì-
Ondata di ansia, poi la presentatrice usci a passettini dall’ombra e guardò la piazza, quasi intimidita. –Allora…- mormorò con il microfono stretto spasmodicamente nella mano –Ciao a tutti- l’ultima parte quasi la sussurrò, bloccata dalle occhiate ostili dei ragazzi.
Emily ingoiò qualsiasi altra frase avesse in mente e prese il primo biglietto ad una velocità sorprendente. –Alek Snowden. Cara, vieni qui-
Seguì un silenzio perplesso. Poi Emily si accorse di aver pescato dall’urna maschile e divenne paonazza per l’imbarazzo. Una risata sciolse l’ansia nella piazza, mentre qualcuno camminava verso il palco. E ora cosa faccio?
Il tributo maschile era un vero e proprio gigante, tant’è che Emily dovette costringersi a non indietreggiare quando la affiancò.
Aveva lineamenti squadrati, capelli biondi e gentili occhi azzurri. Accanto a lei, spiccava come un enorme pilastro di muscoli.
-Oh… Scusami- Prima o poi finirà, questa giornata…
Ripromettendosi che quello sarebbe stato l’ultimo anno da presentatrice – tanto con risultati del genere l’avrebbero licenziata comunque - estrasse il biglietto dalla boccia femminile, mettendoci qualche istante ad aprirlo con le dita sudate. –…Jamie… Abigail Jamie Hiddenwood-
Qualche gemito nella piazza, poi una ragazza avanzò, l’espressione cupa ma salda. Emily sgranò gli occhi nel vedere il taglio assurdo di capelli coperto da un cappellino di stoffa verde, e i pantaloni corti che indossava. Le ginocchia erano sporche e bagnate di neve.
Emily rabbrividì di freddo. –Vuoi.. Dire qualcosa?-
-Sì, ma non sarebbe molto educato- rispose Abigail, sorridendo cortesemente. –E mi chiamo Axe.-
Dato che per sdegnarsi bisognerebbe avere un briciolo di dignità, Emily schizzò via dalle telecamere senza un saluto. Lasciando i due tributi soli, a stringersi la mano, tra il sollievo e la disperazione della piazza.


Dopo aver lasciato la presentatrice a meditare sull’idea del suicidio, Abigail cominciò a misurare a grandi passi la stanza. Per quanto ci si possa preparare all’idea, per quanto se lo si aspetti, la falce della Mietitura prende tutti di sorpresa.
La porta si aprì con un rumore secco, e i suoi otto fratelli si riversarono nella sala. Strinse suo padre con tutte le sue forze, che non erano poche.
-Non so se sia sensato dirlo, ma vi prometto che combatterò. Fino alla fine- Qualunque fine sia.
Lo sguardo di Ezra incontrò il suo viso e si infranse in lacrime. Fu come la ceduta di una diga, e quasi l’intera famiglia cominciò a singhiozzare. –Chi è la femmina, qui?- cercò di ironizzare Axe. Tentativo caduto nel vuoto.
Ethan, il maggiore d’età, le mise una mano sulla spalla. –Fino alla fine- ripeté –…Ce la puoi fare. Ti invieremo gli sponsor, costi quel che costi.- Come abbiamo fatto con Marcus. Ma io non sono Marcus. Io vincerò.
-Alla fine avevo ragione io- disse Axe al padre, con un sorriso lontano. –Se mi fossi lasciata convincere a giocare alle bambole e indossare gonne, non avrei speranza.-
Suo padre le porse qualcosa. Un morbido cappellino, rosso a strisce arancio. Il sorriso di Axe si allargò nell'indossarlo.
-Volevo dartelo per il tuo compleanno- spiegò l'uomo -Noi crediamo in te-
-Sii forte- mormorò Ezra, frenando il pianto. Era il fratello più vicino a lei per l’età. Avevano superato insieme la perdita di Marcus… E delle sue due dita. Quante volte glielo aveva detto, allora? Sii forte. Sii forte.
E lo era stata. Guardò la sua famiglia, lasciando che i suoi occhi dicessero tutto quello che c’era da dire.

 

Distretto 8

Nessuno comprende l’altro. Siamo solo isole; tra noi si inserisce il mare della vita che ci limita e separa. Per quanto una persona si sforzi di sapere chi sia l’altra persona, non riuscirà a sapere niente se non quello che la parola dice – ombra informe sul suolo della sua possibilità di intendere.

-Fernando Pessoa


 
Il cielo scintillava terso e libero da ogni nuvola, nel Distretto 8. Il fumo delle ciminiere saliva in morbide, lente volute, alle spalle del Palazzo di Giustizia.
E del palco.
E del presentatore in un elegante smoking color rosa confetto.
Del bigliettino che teneva in mano. L'uomo socchiuse la bocca, chiuse gli occhi…
-Hai paura, Whys?- chiese Arcaen, accanto a lui.
-Ho una sola nomina. E se sarò estratto mio fratello si offrirà volontario- rispose il bambino piattamente, senza nemmeno guardarlo.
-La dolce donzella che vincerà… Se non morirà...- il presentatore fece una pausa ad effetto. Che durò. E durò. Tutti gli occhi del distretto erano puntati sulla sua bocca socchiusa, troppo in ansia per irritarsi.
-È Amber Hamilton!- proruppe infine l’uomo, portando teatralmente la mano destra sulla fronte, addolorato.
Un mormorio invase la piazza, mentre la ragazza saliva lentamente sul palco, rigida e altera.
-Amber Hamilton! Era la figlia del supervisore dei lavori in fabbrica, vero?-
Whys pensò che in nessun modo avrebbe potuto convincerlo del contrario; quindi tacque.
Erano in pochi a non conoscere quella ragazza. Alta e snella, guardava il distretto con occhi color ghiaccio, e uno sguardo altrettanto freddo. Sotto i fluidi capelli biondi, il suo viso era liscio e pallido come porcellana. Gli ricordava vagamente una statua.
-Meraviglioso- gongolò il presentatore, stavolta in tono innaturalmente smielato. Whys si chiese se li stesse prendendo in giro.
Arcaen aveva finito le idee per continuare la conversazione, e lui non aveva alcuna intenzione di fornirgliele. Il presentatore era già arrivato alla seconda urna. Con fare melodrammatico, immerse la mano tra i fogli e la ruotò con esasperante lentezza.
Whys aveva paura.
Whys non aveva una sola nomina, lì.
Whys non aveva un fratello che si sarebbe offerto volontario.
-Clyph Earles!-
E soprattutto, Whys non si chiamava Whys.
Arcaen lo guardò sconcertato mentre muoveva i primi passi verso il palco.
Clyph Earles. Mi chiamo Clyph Earles. Ci mise qualche istante a riabituarsi all’idea. Non ho paura.
Il panico gli faceva tremare le gambe. Non ho paura.
Avanzò tra i mormorii confusi delle persone che lo conoscevano. Che credevano di conoscerlo. A volte non era sicuro di conoscersi neanche lui.

Amber fissava la porta. Era perfettamente levigata, di un chiaro legno di mogano. Lucidissima per qualche strana vernice che la ricopriva.
E, soprattutto, chiusa.
Amber pensò che avrebbe dovuto sentirsi triste. Spaventata. Disperata. Qualunque cosa.
Invece il vuoto la avvolgeva come una candida nuvola. Forse era sempre stato così, e se ne era accorta solo adesso. Adesso che il destino le imponeva di riflettere, come mai aveva fatto.
Perché lei era vuoto. Una statuina bellissima e altezzosa da ammirare, meritevole dello stesso cordoglio di una bomboniera in frantumi. Era inutile mentire a sé stessi. Lo sei sempre stata.
Fu in quel momento che la porta girò silenziosamente sui cardini, ed entrarono i suoi genitori. Amber li guardò con le ciglia socchiuse, senza sorridere, senza che il vuoto immobile nel suo petto si increspasse.
-Amber, ci dispiace immensamente- La donna era vestita con un elegante abito di seta blu, la scollatura impreziosita da una fine collana di perline.
Era talmente entrata nel ruolo di madre disperata da esser riuscita a cacciar fuori una lacrima. Amber la fissò affascinata, tonda e brillante all’angolo del suo occhio. In attesa che scivolasse lungo la guancia.
Non successe.
Suo padre le scostò i capelli dal viso. –Sei bellissima- disse. Sono cresciuta tra le adulazioni. Morirò tra le adulazioni. E’ questo che mi stai dicendo, padre?
-Ti aiuterà ad ottenere sponsor. Terrai alto in nome degli Hamilton, e del Distretto-
Amber annuì, silente e fredda. Il silenzio di chi non ha niente da dire, né vorrebbe farlo.
Quando la porta si richiuse, la ragazza si sedette sulla poltroncina, sola, com’era sempre stata.
Il suo sguardo si perse oltre la finestra, sul cielo terso.
La vita di una persona si misura nelle lacrime che ne accompagnano la fine, aveva sentito dire.
Forse potrei riuscire a piangere almeno io, prima di morire. Forse.



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Spazio bla bla bla:


TRIBUTI AL COMPLETO! Ma vogliatemi bene, inviatemi le schede! :( Me ne mancano parecchie per il prossimo capitolo.
C'è la possibilità che alcuni tributi tornino liberi, se non mi arrivano entro qualche giorno.
Di stilisti disponibili invece ce ne sono parecchi, ma anche qui non ho molte schede. Vero che c'è tempo fino a due settimane prima della sfilata, ma comincio a temere che vi siate dimenticati : / quindi cercate di inviarmele al più presto.
Stilisti disponibili: distretti 7, 10. Non ricordo bene se il 6 era libero, e in caso di no non mi ricordo chi l'abbia prenotato. Non sono il massimo come organizzatrice, lo ammetto.
Per altre informazioni rileggere le note del capitolo precedente.

Quindi. Niente, sono sorpresa di non aver già più niente da scrivere per scocciarvi. Oh, già, adoro le vostre recensioni e tutti voi :)
Il prossimo aggiornamento lo prevedo in un tempo compreso tra 5 giorni e 2 settimane. Frustante, sì? Ringraziate chi non mi invia le schede u.u io mi do' al collaudo di divani, finché non arrivano.
Ho finito, ciaociao, ora evaporo.
  
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