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Autore: boll11    04/02/2014    0 recensioni
Raccolta di sette brevi one shot.
1) La notte prima del trasferimento a Central, sotto la luce impietosa del neon, in un locale anonimo dell'Est...
2) Quando qualcuno nasce sfortunato, è inutile cercare di cambiare le cose. Bisogna solo saper stringere tra i denti una sigaretta...
3) Quella sera avevo cominciato a costruire questo muro tra me e l’amore che provo per lui.
4) Fissando lo sguardo a un brutto soffitto si possono prendere decisioni che segnano una svolta. O almeno tentano.
5) Ho sperato che le parole che ha detto una volta che m’ha issato in macchina sarebbero state le ultime.“Puoi dormire mentre guido.”
6) L’aspro del fumo mi invade le narici e mi penetra nella pelle come un cancro.
7) Forse è questo che mi impedisce di dormire, il mio nome sussurrato come una maledizione.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jean Havoc, Roy Mustang
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: Non ho parole. Il primo post di questa raccolta scritta per  Syllables of time è stato scritto e pubblicato quasi sette anni fa (ottobre 2007, mioddio!). Ed erano solo sette prompt!, No, dico, sette, mica millemila! :/
Comunque a parte tutto, l'ho finito. 
Quindi, ok. Diamoci un taglio e sorvoliamo.  


For some day our ocean
Will find its shore

(prompt 7. Till human voices wake us)


 

Più non l'amo, è certo, ma forse l'amo .
E' così breve l'amore e così lungo l'oblio
(P.Neruda - Posso scrivere i versi…)

 

Guardo il mozzicone che ho appena gettato in terra esalare un filo di fumo sottile e dritto, argenteo e fragile contro il chiarore della luna che illumina il capanno da una piccola finestra senza scuri.
La branda su cui sono malamente disteso non è più scomoda di altre a cui sono abituato, eppure non riesco a prendere sonno sebbene sia talmente stanco da sentirmi frastornato.
Roy è seduto in un angolo in terra, la testa piegata contro le ginocchia strette al petto, la pistola in pugno.
Lui dorme, invece.
Dorme e geme e piange.
Quando stavamo insieme bastava che lo stringessi a me per placare i suoi incubi.
Il suo è un sonno fragile. Inconsistente.
Appena lo toccavo cercava di colpirmi in un automatismo talmente perfetto che dal sonno alla veglia non passava neanche un secondo. Nel momento in cui si rendeva conto che ero io e non un fantomatico nemico, rimaneva immobile con gli occhi spalancati e il respiro pesante e gocce di sudore a bagnargli la fronte. Sconcertato e inerme. Gli sorridevo allora e lo stringevo al petto. Lui cacciava fuori un sospiro che sembrava un singhiozzo e si lasciava avvolgere e si acquietava, Il suo respiro caldo mi infuocava la gola.
Non posso più farlo. Lui non è mio da tanto tempo.
E adesso anche io sono parte del suo incubo.
Lo sento a volte spezzare il mio nome tra i lamenti e la sua mano chiusa sul calcio della pistola si serra in uno spasmo.
Forse è questo che mi impedisce di dormire, il mio nome sussurrato come una maledizione.
Non dovrei sentirmi in colpa, ma quello che so è che ho voglia di disperarmi, immobile su una brandina polverosa, impossibilitato a stringerlo a me per impedirgli di perdersi in quei sogni dove si sente così inutile.
«Jean», lo sento ancora e sembra un urlo.
Infilo frenetico la mano nella tasca della giacca a cercare il pacchetto di sigarette acciaccato e quasi distrutto.
Mi tremano le mani mentre ne tiro fuori una.
«Jean».
Ed io non resisto più. Lo chiamo, prima in un sussurro poi quasi con un grido.
Voglio che si svegli, che la smetta. Ha promesso, dannazione! Ha promesso!
Roy lo fa praticamente subito. Con la pistola puntata mi guarda smarrito, interrogativo. Tracce di lacrime gli brillano sulle guancie, scie luminose sulla sagoma incerta del viso.
«Incubi,» dico solo e sbuffo fuori fumo in nuvolette leggere.
«Scusa,» risponde abbassando l’arma. Non mi guarda.
Incastra il viso tra le gambe e si accinge a riprovare a dormire ma io so che torneranno gli incubi. A Roy tornano sempre.
«Vieni qui» dico.
Lui lentamente alza il viso.
«Cosa?» chiede incerto.
«Vieni qui» ripeto. Ed è un ordine e lui lo capisce.
Si alza stancamente, la mano armata abbandonata lungo il fianco. Si ferma ai piedi della mia brandina e aspetta.
Io faccio leva con le braccia e mi sposto di lato come posso, schiacciandomi contro la parete scabra. Mattoni a nudo e calce mal rasata. Stringo tra i denti la sigaretta reprimendo un’imprecazione. Non c’è molto spazio e sono quasi certo che lo rimpiangerò ma non voglio più sentire quel dolore nella sua voce. Non quando esala il mio nome. Non insieme a nomi di gente morta che neanche conosco. Io non sono morto.
«Stenditi,» gli dico col fiato spezzato per lo sforzo di non urlare.
Lui rimane fermo. Scuote solo la testa in segno di diniego.
«Avanti, Roy!» sbotto. «Sai che altrimenti non smetterai di lamentarti, ed io non voglio sentirti ancora e sono distrutto e ho bisogno di dormire e non mi va di fare il tira e molla con te, ora. Quindi, maledizione, stenditi!»
Lo sento spezzare un lamento tra i denti. Un suono frustrato, disperato, ma obbedisce ed io nel mentre mi sposto su un fianco per permettergli di incastrarsi contro di me.
Roy rimane rigido lungo il bordo della brandina, una gamba in terra, perché non c’è davvero molto posto ed è evidente che vuole mantenere tra noi più distanza possibile. Lo sento trattenere il respiro. La sua schiena è rigida, immobile.
Sorrido.
Il Colonnello ha promesso.
Gli passo il braccio lungo il fianco e costringo la sua schiena così rigida ad appoggiarsi al mio petto.
Ancora non si rilassa, ancora trattiene il fiato.
«Va tutto bene, Roy» gli bisbiglio in un orecchio. «Puoi dormire ora».
Disincastro la pistola dal suo pugno e controllo che abbia la sicura prima di metterla sotto la giacca che uso come cuscino.
«Va tutto bene, sono qui» continuo a ripetere piano. Le parole sono meccaniche, sempre le stesse. Dopo tutte le notti passate con lui, mi escono inconsapevoli, come una nenia che dovrebbe solo rassicurare.
Un tempo gli bastava la mia voce per lasciarsi andare, chiudere gli occhi, riposare.
Non ora.
Ora rimane teso, respirando appena in lenti sospiri impercettibili. E risponde.
«No», dice e gli si spezza la voce come se quell’unica sillaba gli avesse tagliato in due la gola. «No», ripete concitato, sempre rigido, cercando nel frattempo di scostarsi da me. Glielo impedisco più per abitudine che per effettivo bisogno. Anche se alla fine il bisogno c’è ed è il mio: quello di dormire e far finire questa lunga, assurda giornata. «No» continua Roy come se non riuscisse a tirar fuori che quelle due lettere. «Non ci sei più» esala e alla fine si arrende, si abbandona contro il mio petto come svuotato e comincia a piangere sommesso, quieto, le mani premute contro il viso. Lo stringo a me e lascio che pianga. Finalmente sento il sonno vincermi. Il calore del suo corpo ha sempre avuto questo effetto su di me.
So che dovrei dirgli qualcosa, ma non c’è davvero nulla da dire ed è vero. Io per lui non ci sarò più.
«Piangere gli farà bene» mi dico mentre sento le palpebre pesanti.
Getto a terra il mozzicone ormai spento e lo vedo atterrare in un’aggraziata parabola, prima di cedere e chiudere gli occhi.
La schiena di Roy, il movimento dei suoi singhiozzi soffocati mi cullano fino al sonno.

 

***


Non so cosa m’abbia svegliato.
L’alba è ancora lontana e davvero non riesco a capire quanto ho dormito, se qualche ora o pochi minuti.
Roy non dorme. Posso capirlo da come respira ed è di nuovo rigido e scostante.
Ed allora mi accorgo cos’è stato a svegliarmi.
Il calore del suo corpo s’è dissipato. S’è allontanato da me, entrambe le gambe gettate in terra in una posizione scomoda.
«Ti prego» lo sento dire e non capisco fino a che non fisso lo sguardo sulle mie braccia che ancora lo stringono a me.
«Cosa?» chiedo con la voce roca. «Devi pisciare?» E non vorrei essere così brusco, ma essere svegliato nel bel mezzo del sonno non mi ha mai reso particolarmente gentile.
Roy scuote la testa e poi la volta per guardarmi. Non credo sia riuscito a dormire, neanche per pochi minuti. Il suo viso illuminato dal chiarore della luna sembra ancora più pallido con quelle occhiaie violacee e tracce sporche di lacrime sulle guance.
«Mi stavi accarezzando» riesce a dire in un sussurro e all’improvviso mi sembra così inerme, così disperato. «Non farlo.»
Lo guardo e vorrei davvero non sorridere ma mi riesce difficile.
Fa tutto parte di quelle notti. L’abbraccio, la mia voce in un sussurro e le mia mani a tracciare il suo petto, i suoi fianchi e infine il suo stomaco in piccoli cerchi pigri e assonnati. Fa tutto parte del rituale contro i suoi incubi ed è una cosa così familiare che non dubito di aver fatto quello di cui mi accusa.
Il mio sorriso deve averlo ferito in qualche modo perché il viso gli si contrae in una smorfia e due secondi dopo non mi guarda più.
Ha di nuovo le mani premute contro il viso, e credo si stia sforzando di non piangere ancora.
Se c’è una cosa che Roy odia è frignare come una ragazzina.
Ed è allora che al pianto si sostituiscono le imprecazioni, la rabbia, la furia cieca.
La sento crescere e montare come pasta lievitata.
«Roy», provo a dire, cercando di calmarlo.
Ma è troppo tardi. Parte come un torrente in piena. Una sequela di improperi da accapponare la pelle.
È difficile anche seguire le sue lamentazioni, cercare di capire qualcosa in quel mucchio di accuse e rimpianti e frustrazioni che la maggior parte del tempo tiene chiuse dentro di sé.
Il freddo e scostante Roy Mustang si trasforma e perde la sua proverbiale calma.
L’unica soluzione possibile sono io, o un bel bicchiere di whisky.
Liquori qui non ne vedo.
«Basta Roy», gli dico.
Lo rivolto con la sola forza delle braccia in modo che possa guardarmi in viso. Le sue gambe schizzano in aria prima di atterrare scomposte sulle mie inerti.
Il movimento ha il potere di zittirlo per qualche secondo, giusto il tempo che mi serve:
«Smettila Roy, sei ridicolo!» gli dico.
Roy odia sembrare ridicolo.
Si azzittisce e mi guarda e caccia un sospiro profondo serrando le maledizioni dietro i denti.
«Non sei mai stato un passatempo» riesce a dirmi alla fine con voce incolore ed io sento il bisogno improvviso di fermarlo. Non è giusto che sia proprio questo il momento in cui finalmente avverte l’obbligo impellente di dare una spiegazione a tutto. Non ora, quando il mio amore per lui è defunto come le mie gambe.
Gli stringo gli avambracci in una morsa stizzita, ma la mia rabbia evidente non lo convince a fermarsi.
«Almeno questo devi crederlo, Jean» sospira. «Non avrei voluto amarti, non potevo permettermelo ma come si fa a non farlo? Come ci sei riuscito tu?» mi chiede con affanno stringendo a sua volta le mani sul mio petto a stropicciare la maglietta nei suoi pugni chiusi. «Come si fa a smettere?» continua a chiedermi urgente, affannato e l’unica risposta che riesco a dargli è quella di afferrargli il viso tra le mani e chiudergli la bocca con la mia.
Che stia zitto una buona volta.
Lui si divincola e si stacca da me e mi guarda ed il confuso dolore nei suoi occhi mi stringe il cuore.
Non so come si fa. Non avrei mai pensato che potesse succedere.
Ho amato Roy con tutto il cuore e quello che di lui ho amato di più erano i suoi difetti. Amavo il fatto che quando eravamo assieme non sentisse il bisogno di nascondersi.
Eppure l’ha fatto anche con me, alla fine. S’è nascosto, e qualsiasi sia la spiegazione che potrebbe darmi io non voglio conoscerla.
So che sta per ricominciare a parlare. So che ha intenzione di vomitare tutto fuori proprio questa sera, quando manca così poco a lasciarmelo alle spalle per sempre, col suo carico di dolori, incubi e segreti e macchinazioni. Non voglio sapere, non devo sapere. Se fosse appena più lucido saprebbe che sta per commettere uno sbaglio enorme solo per fare un ultimo disperato e inutile tentativo per riavermi.
«No Roy» gli sussurro avvicinandomi ancora alle sue labbra. Gli tremano e questo mi intenerisce perché Roy non lo sa o non vuole saperlo, ma è sempre così maledettamente inerme e spaventato e logorato che non si può non provare tenerezza per chi lo conosce. Rabbia, frustrazione e tenerezza.
«Non si può» gli sussurro ancora rispondendo come posso a tutte le sue domande anche quelle che vorrebbe ancora farmi e che sono deciso ad impedire. A qualsiasi costo. È Roy e l’ho amato sopra ogni cosa. E a volte, come in questo momento, mi sembra di amarlo ancora ed è forse questo il punto.
Proprio non si può smettere di amare. Non completamente.
È facile baciarlo e sono deciso a farlo come piace a me. Lieve e lento e assorto.
Solo un incastrarsi di labbra per mille volte, per poi passare alla linea spigolosa della sua mandibola.
È il modo migliore per zittirlo, lui che preferisce i baci violenti e profondi, premessa di sesso feroce. E li preferisce perché non conosce altro modo che non lo renda vulnerabile.
Non ne è neanche capace. Ed è solo adesso che capisco che i suoi tentativi ridicoli di tenerezza erano il suo modo sgraziato di dirmi che mi amava e che avrebbe forzato anche la sua natura per dimostrarmelo.
E questa improvvisa rivelazione mi rende ancora più disperato. L’amavo così tanto, forse troppo, tanto da rendermi cieco. Non c’è un domani per noi, ora. Non più.
C’è solo questa notte, fino a che un qualche contadino dalla voce dura non verrà a dirci che è finita.
«Jean, ti prego» mi dice spossato.
Lo zittisco con un bisbiglio appena accennato.
«Abbiamo questa notte e poi più nulla Roy» gli dico. «Lasciati dire addio.»

 

***


È strano vedere Roy dopo tutto questo tempo.
Vederlo a così poca distanza e senza tutta quella gente a girargli intorno. Vederlo ora e qui con una busta gonfia in mano e l’aria mortalmente seria. È strano vederlo così di buon ora, con la sua divisa da Colonnello e col suo solito cipiglio da Colonnello.

Dopo il mio ritorno a casa ho provato ad aiutarlo come potevo, mandando risorse da questo posto sperduto dell’Est che è la mia casa. Non l’ho mai incontrato durante quel periodo. A volte l’ho sentito per telefono ma il più delle volte preferivo contattare gli altri. Dava meno nell’occhio.
Quando la guerra è finita e sono riuscito a riottenere l’uso delle gambe, ho fatto domanda di congedo. Per quanto sia di nuovo in piedi non avevo e non ho la stessa forza e resistenza di prima. Sarei stato solo d’impiccio anche se i ragazzi hanno provato a dissuadermi in ogni modo possibile.
Poi c’era Roy ed era palese che la mia presenza lì gli creasse disagio. Lui e il Tenente Hawkeye si sarebbero sposati presto e per quanto Roy appartenesse solo al mio passato e non nutrissi per lui che stima e una sorta di ruvido affetto, non avevo voglia di assistere a quella che forse poteva essere una forzatura. Mi sarebbe dispiaciuto per il tenente. Non lo meritava.
Credo che Roy le voglia bene sul serio; credo anche che se sia la persona giusta per il Colonnello. Ma l’amore è un’altra cosa.
È quella che abbiamo conosciuto quella notte.

Non so per quanto tempo lo baciai.
So che ricordo ogni secondo di quei momenti ancora adesso.
Ricordo la consistenza delle sue labbra, morbide e piene, il sapore della sua pelle e la stretta forsennata delle sue mani aggrappate alla mia nuca.
E quel mormorare a fior di labbra, e il battito del suo cuore.
Ricordo le sue ciglia nerissime e quelle lacrime incastrate che non riuscivano a scendere e il mio nome sulle sue labbra.
Non furono che baci lievi, carezze appena accennate eppure è il momento più struggente che abbia mai vissuto, il più caro della mia storia con lui.
È stato l’unico momento in cui ho desiderato di bloccare il tempo, di rimanere per sempre lì, su quella branda troppo stretta, col calore del suo corpo addosso, il suo odore, il suo respiro spezzato e le sue suppliche. E il suo desiderio insoddisfatto a premere contro il mio stomaco. A me bastavano le sue labbra e il dolore nei suoi occhi per avere la sensazione esaltante che nulla mi avrebbe cancellato. Per quanto provasse ero proprio lì, insediato nel suo cuore e nella sua mente.
«Ti amo» continuava a ripetere lui all’infinito come un’accusa, mentre gli baciavo il collo a fior di labbra. Non gli ho mai risposto, anche se in quel momento l’amavo più di ogni altra cosa. Sono contento di non averlo fatto. E’ stato solo un momento, svanito con le voci sgraziate dei due tizi che sono venuti a prenderci.
Al sentire quelle voci Roy s’è aggrappato a me, m’ha stretto il viso tra le mani e m’ha sputato addosso un ultimo «ti amo» prima di strapparsi da me, spalancare l’uscio di legno e urlare qualcosa.
La luce del mattino c’ha investito come uno schiaffo.
«Mai un passatempo!» ha ribadito lui con furia guardandomi dal vano della porta.
È l’ultima visione di lui che ho di quel giorno. Circondato dalla luce del primo sole, fiero e disperato.
Quando quegli uomini mi hanno portato via su un vecchio camion pieno di rape rosse, Roy non è venuto con noi. Uno dei tizi m’ha detto che sarebbe rimasto ad aspettare un meccanico.

Ed ora eccolo qui che mi tende un plico, le labbra strette, le spalle dritte, lo sguardo fuggente.
Strizzo le redini tra le mani prima di lasciarle cadere sul dorso di Imperatore ma non allungo la mano.
«Il tuo congedo è ufficiale», mi bisbiglia lui e finalmente alza il viso a guardarmi e tenta di sorridere, incerto sulla mia reazione.
Smonto da cavallo prima di rispondergli dandogli le spalle.
«Bene», dico solo ed è un bene davvero, sul serio. «Ma non potevi mandare qualcun altro a portare i documenti?» gli chiedo.
E mi volto.
Lui non mi risponde ma non sfugge il mio sguardo. Socchiude le palpebre e s’irrigidisce, ma rimane li.
Gli sorrido perché scopro che non ha perso il potere di intenerirmi.
Afferro la spazzola e comincio a strigliare il pelo fulvo di Imperatore. Sono piacevolmente rilassato. Cavalcare mi da sempre questa sensazione. Le gambe di Imperatore funzionano molto meglio delle mie.
«Mi avrebbe fatto piacere rivedere Haymans, per esempio» proseguo io mentre continuo a strigliare il cavallo con impegno. «È da Natale che non passa a trovarmi».
Ancora non risponde e davvero non ho voglia di voltarmi a guardarlo o di far finta di non capire che è venuto appositamente per me.
Dio, quanto è trasparente questo Roy!
«Sono qui di passaggio», tira fuori lui a fatica dopo una pausa abbastanza lunga in cui il grattare della spazzola è l’unico suono. «Sono atteso a Central City».
«Da solo e senza scorta, Colonnello?»
Mi esce forse troppo sarcastico ed oltretutto mi volto a fissarlo, spazzola in pugno e sguardo incredulo in modo da cogliere la sua espressione smarrita, inerme. Davvero non so perché non riesco a lasciar perdere.
Lo vedo trattenere il fiato e sviare lo sguardo, infastidito. Tenta di tirar fuori una scusa, ma si blocca con le labbra aperte. Poi le chiude con uno schiocco secco, si raddrizza e torna a guardarmi ed io all’improvviso lo so perché non riesco a lasciar perdere.
Non deve più mentirmi. Non a me, per quanto la verità possa essere dolorosa, fastidiosa o persino ridicola.
E’ finito il tempo degli inganni.
Credo lo capisca anche lui perché sospira e finalmente mi risponde:
«Volevo vederti e sapere che stai bene». Poi mi da le spalle e posa i documenti su una cassetta rovesciata.
«Sei felice Jean?» mi chiede.
Non vorrei parlare alle sue spalle ma so che non si girerà se io non voglio. Ed io non credo di volerlo.
«Sì, Roy.»
Lo sento sospirare. Un sospiro che è metà sofferenza e metà sollievo.
«Allora ne valeva la pena» risponde quasi a se stesso. Si volta per un secondo a guardarmi con un piccolo ghigno sulle labbra.
«Addio Jean»
So che sta andando. Lo intuisco ancor prima di vederlo muoversi veloce ed elegante come sempre. E so anche che non posso lasciarlo andar via così.
Voglio che sappia che non l’ho mai odiato, mai veramente, ma che l’ho amato e che forse lo amerò per sempre anche se non basta, né a me né a lui.
Lascio cadere la spazzola in terra e corro a fermarlo. Faccio in tempo ad avvinghiarlo per i fianchi e a stringerlo a me, la sua schiena contro il mio petto.
Mi addolora sentirlo così rigido, guardingo.
Mi rattrista quel verso da animale braccato che gli esce roco dalla gola.
Eppure so che tra noi sarebbe stato sempre così, un continuo rincorrersi, dove il bisogno dell’uno non sarebbe mai stato quello dell’altro, non in quel momento. Come se la nostra storia corresse su due piani temporali scostati solo di poco, pochissimo tempo.
Un’eternità, alla fine.
«Tu sei felice?» gli bisbiglio lieve all’orecchio.
Non riesco a guardargli gli occhi coperti dalla frangia perché ha chinato il capo. Quello che vedo è lo scorcio delle guancie ispide e denti a trattenere le labbra.
E’ un attimo per lui rilasciarle e rispondere un «credo di sì» in un soffio. Poi si ferma, assesta la mascella e tira su la testa, ma non si volta a guardarmi e non mi mostra gli occhi.
Lo stringo a me con prepotenza perché quel «credo» non mi basta. Non è più rigido, ora. Lo sento solo stanco, sfinito. Si appoggia a me rassegnato e aggiunge a malincuore un: «Ho smesso di lottare» che ha un suono definitivo. Lapidario.
Eppure a me basta.
Non ha mai smesso di amarmi e neanche io alla fine credo che smetterò mai.
Ci sarà sempre il pensiero di lui nella mia vita, di quello che avremmo potuto essere in un altro momento, in altre circostanze.
Rimango fermo a pensarci corrugando la fronte, ascoltando il battito del suo cuore la guancia premuta contro il profilo solido della sua testa.
Ed è come essere tornati in quel capanno, perché il desiderio è lo stesso, quello che il tempo si fermi e che si possa restare sempre così in quest’attimo tanto perfetto, così raro in cui ci amiamo senza preoccupazione, senza ansie. Entrambi.
Ma gli attimi perfetti durano un battito di ciglia.
La voce di mia madre ci raggiunge stridula e dissonante nel silenzio della stalla.
E come allora anche adesso Roy si anima di una strana furia che sa di disperazione, rassegnazione e tenace testardaggine.
Si libera delle mie braccia, si volta e le sue labbra sono sulle mie in un attimo baciandomi feroce, impaziente, intrecciando le mani tra i miei capelli.
Mi guarda disperato ed io mi accorgo d’essere rimasto immobile a subire il suo attacco. La sua disperazione non è la mia, non ora.
Gli sorrido e districo le sue mani dai miei capelli. Le tengo tra le mie un attimo prima di lasciarle andare.
«Jean…» riesce solo a bisbigliare prima che mia madre spalanchi la porta e piombi dentro come un carro armato.
«E’ arrivata la fornitura mensile e va inventariata!» ordina prima di fermarsi ed accorgersi che non sono solo. «Colonnello…» dice poi e sorride aspettando spiegazioni.
Roy fa fatica a guardarla.
Ha ancora il respiro pesante e lo sguardo affamato.
Prende il plico tra le mani e glielo tende sperando che basti a spiegare e poi mi guarda e mi sento miserabilmente vuoto.
«Vuole restare a pranzo con noi, Colonnello?» chiede gentilmente mia madre, elettrizzata e rassicurata dall’arrivo del mio sospirato congedo come se avesse avuto il timore che io potessi cambiare idea, prima o poi.
Ma io non torno indietro. Non posso. Troppe complicazioni e la certezza che prima o poi uno di noi avrebbe mandato tutto a puttane.
Lui scuote solo la testa in un secco diniego anche un po’ sgarbato per un uomo come lui, e neanche la guarda. Guarda ancora me con quel filo di speranza che mi spezza il cuore.
«Alla prossima?» si decide a chiedere e anche se ha tentato di mascherare la sua richiesta come se fosse un commiato so che non posso far finta di non aver capito.
Me ne frego di mia madre e del suo singulto di sorpresa quando lo abbraccio e poi stringo il suo viso tra le mani e lo attiro a me perché solo lui possa sentire.
«Non ci sarà una prossima volta, lo sai» gli bisbiglio e vorrei estirpare tutto quello strazio in qualche modo, ma non c’è un modo giusto per dire certe cose.
Questo è il meglio che posso fare. Io non sono intelligente o furbo, sono solo Jean Havoc.
«Non sei stanco di tutto questo dolore, Roy?» gli bisbiglio ancora carezzandogli le labbra tremanti con la punta delle dita come a voler forzare un sorriso, una fermezza che non riescono a trovare. Non mi stancherei mai di guardarle. Sono l’esatta misura della sua fragilità, capaci di essere forti e insolenti e egoiste, ma anche come ora, completamente inermi.
E’ l’unica persona che mi faccia sentire così in bilico tra odio e amore in un continuo altalenare che mi fiacca. Io credo che stanchi anche lui.
E poi Roy le serra con uno schiocco e quelle prendono una piega amara, un inizio di sorriso beffardo, quasi crudele. Disincantato.
Si scosta da me con calma, tradita dalle mani che passano e ripassano tra i capelli a trattenere i ciuffi ribelli nella composta capigliatura da soldato.
Solo ora mi accorgo che mia madre è andata. Siamo di nuovo soli a fronteggiarci per quello che dovrebbe essere un addio che non riusciamo proprio a pronunciare.
«Stanco?» mi chiede e ci mette tutto il sarcasmo che può in quell’unica parola. «Stanco?» ripete e il suo tono di voce sembra lo scoppio di uno dei suoi incendi.
«Sono sfinito», poi esala lasciando spegnere tutta la sua rabbia in quell’unica frase. Ma non l’amarezza, il rammarico, l’amore. Mi guarda ed ha capito. E’ già lontano. Forse pensa a Riza come ad un porto sicuro, sereno. Consolante.
E’ inutile lottare per l’ombra di qualcosa che è sfumata tanto tempo prima.
«Ti amerò sempre» mi lascio sfuggire alle sue spalle quando era già in procinto di andare. So che è una vigliaccata, ma è l’unica cosa certa che so. E so anche che non basterà mai. Perché per quanto amore ancora mi susciti è altrettanto l’astio e il rancore.
Lui non risponde e non si volta. Rimane fermo contro il riquadro della porta aperta a mezzo, incorniciato dalla luce crepuscolare.
Ma ride. Quella sua risata secca, sprezzante, cinica. Brevissima.
«Ah Jean,», risponde poi senza voltarsi. «E stato un piacere parlare con te, ma ora devo proprio andare.» Si volta a mezzo e io posso vedergli solo uno scorcio della guancia e linea amara della bocca ancora piegata in una smorfia.
«Qualcuno mi aspetta» conclude varcando veloce la porta e uscendo per sempre dalla mia vita.

***


Non l’ho più visto da allora, ma ancora ci penso, a volte.
Ogni tanto affiorano ricordi della mia breve storia con lui. Spesso talmente banali e inutili - come certe sue espressioni o certi nostri dialoghi surreali quando eravamo troppo bevuti anche solo per provare a fare sesso – che mi capita di ridere di cuore o, a volte, anche solo di sorridere.
Non mi è mai capitato di disperarmi o di rimpiangere qualcosa.
Alla fine è andata bene così.

  
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