Fanfic su artisti musicali > Guns N'Roses
Segui la storia  |       
Autore: Euachkatzl    05/02/2014    5 recensioni
2013: la rivista Rolling Stone decide di pubblicare una biografia di uno dei gruppi rock più grandi di sempre, i Guns n' Roses. Ogni ex componente del gruppo viene intervistato singolarmente, vengono poste loro identiche domande. Ad una, però, rispondono tutti allo stesso modo.
"Un periodo della tua vita al quale vorresti tornare?"
"Febbraio 1986"
Ma che è successo, nel febbraio 1986?
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
Arriviamo in questo benedetto locale quasi all’una, data la grande memoria di Vince che, arrivati a West Hollywood, si è reso conto di aver avuto in testa il tragitto per il posto sbagliato.
“Ah no, è dalla parte sud di Los Angeles” ci ha detto tutto tranquillo. Fortuna che Slash era schiacciato sotto a Steven, altrimenti dello pseudo-batterista sarebbe rimasto ben poco.
Duff molla la macchina di fianco alla porta sul retro dell’edificio, proprio davanti al cartello di ‘sosta vietata’, al quale faccio caso solo io.
“Ma non possiamo metterla qui”
“I cartelli sono solo per bellezza” chiude sbrigativamente Slash che, dopo una bestemmia molto poco elegante, recupera la chitarra dal bagagliaio e si lancia con gli altri verso la porta. Io e Steven li seguiamo con calma, in fondo non siamo noi quelli con due ore di ritardo.
Axl apre la porta e si ritrova davanti ad un omone con dei folti baffi neri.
“Siamo i Guns n’ Roses” balbetta il rosso con una vocetta stridula, un po’ impressionato da quella figura che, con le braccia incrociate al petto e una faccia non molto contenta, incuterebbe timore a chiunque.
“Alla buon’ora. Avete presente che il vostro concerto sarebbe finito adesso? Abbiamo dovuto improvvisare una serata di cabaret per colpa vostra. Spero per voi che siate bravi, altrimenti potete anche buttare le chitarre nel cassonetto”
Tutti cominciamo a sudare freddo. Pure io. Perché so perfettamente che quelli che lavorano qui non sono stupidi e che sarò io a dover trovare una scusa credibile per far partire il disco del playback.
I ragazzi entrano ordinatamente, sotto l’occhio vigile del signore, che supera Duff di una manciata di centimetri.
“Ma quanti siete?” chiede proprio mentre gli sto passando affianco, facendomi sobbalzare.
“Non suoniamo tutti, io sono un’amica” rispondo veloce, ottenendo una squadrata ma niente di più. Per fortuna.
“Vi do dieci minuti per collegare gli strumenti, poi se non cominciate a suonare vi prendo a calci in culo”
Arriviamo dietro le tende pesanti del palcoscenico. Ognuno sistema in fretta cavi, amplificatori, portafortuna, lacci delle scarpe. Axl si avvicina a me e mi porge il disco. Lo guardo con un’espressione supplicante.
“Avete Steven, che bisogno c’è di fare il playback?”
“C’è. Vai e vedi di non farti sgamare”
Ah, io non dovrei farmi sgamare? Non lui che fa finta di cantare, ma io. Cioè se li scoprono magari da pure la colpa a me. Mi avvicino al signore che ci aveva accolti, con un’incazzatura che sale vertiginosamente.
“Scusa…” lo chiamo dal basso del mio metro e settanta. Lui si gira di colpo e mi guarda strano.
“Sì?”
“Se puoi mettere su questo disco… E’ una base…” gli porgo il cd, sperando che vada tutto bene e lui lo faccia partire. Il signore lo prende e se lo rigira un po’ tra le mani, riflettendo sul da farsi.
“Fosse per me, prenderei le chitarre e vi costringerei a suonare senza” sbuffa, andando verso una console enorme.
“Sarebbero bravi lo stesso” mi lascio sfuggire, per poi dileguarmi rendendomi conto di cos’ho appena detto.
Axl mi guarda incerto quando torno sul palco. Gli faccio un cenno d’assenso con la testa mentre mi avvicino, ma l’unico con cui voglio parlare è Jeff.
“Ce la fai?”
“Certo” mi sorride lui, mostrandomi una serie di movimenti macchinosi ma almeno credibili. Sbuffo. Non mi va giù questa cosa, sia perché non voglio che continuino a fingere sia perchè ho il presentimento che questa sarà l’ultima volta.
Vince arriva tranquillo con una bottiglia di birra in mano, ne beve un ultimo sorso e la lascia in un angolo per venire a romperci le scatole.
“Non mi dai il bacetto portafortuna?”
Lo guardo più storto che posso e Jeff fa lo stesso.
“Quando la smetterai di romperle le palle?”
Vince fa spallucce e va al suo posto dietro la batteria. Anche se io lo manderei volentieri in un altro, di posto.
“Allora siamo pronti, Steven e Jeanette sloggiare per favore” ci ordina molto poco gentilmente il rosso, che continua a rigirarsi il microfono tra le mani.
“Si può anche chiedere gentilmente” ribatto acida. E’ l’una di notte e già non vedo l’ora che finisca questa giornata. O almeno questo concerto.
Trascino Steven al bancone e ordino il primo cocktail della serata, che di sicuro non sarà nemmeno l’ultimo. Butto giù tutto d’un fiato, sotto gli occhi un po’ sorpresi del biondo.
“Che c’è? Sono nervosa, bevo”
Lui scuote la testa, dice qualcosa che non riesco a sentire da sopra il casino della musica. Registrata. Poco sgamabili, a partire senza neanche una parola. Axl continua a sculettare dietro l’asta del microfono, facendo finta di cantare quel testo così spinto quanto velato. Dietro tutte quelle parole c’è la vita che stiamo facendo, il sogno della città degli angeli brutalmente infranto appena ci abbiamo messo piede.
Al quarto bicchiere Steve decide che ho bevuto abbastanza, anche se io sarei rimasta volentieri lì per tutta la durata del concerto. Mi prende per mano e mi accompagna sulla pista e, scalciando e pestando qualche piede, arriviamo fin sotto il palco. Mi ritrovo davanti alle caviglie di Slash, che a quanto pare non ci ha messo molto a levarsi la maglietta e far partire qualche fantasia poco casta nelle menti di un paio di ragazze. Canticchio distrattamente la canzone che stanno suonando, anche se non sono molto sicura del testo. Canto un po’ a caso, completando le parole che sento.
“Non possiamo andare da qualche altra parte? Mi annoio, qui” urlo diretta a Steve, che non risponde. Mi volto e mi accorgo che non c’è. Al mio fianco una rossa si agita urlando qualcosa rivolto a Duff.
Con immensa difficoltà, riesco ad uscire dalla massa di gente nella quale mi ero incastrata e trovare la porta per i corridoi che si snodano sul retro del locale.
“Scusa?” mi chiede una voce alle mie spalle. Sobbalzo e mi preparo ad inventare una scusa decente per spiegare la mia presenza dietro le quinte. So benissimo che in questo posto non vedono di buon occhio quelli che girano a caso per i locali posteriori. E’ già successo qualche casino, e in quel casino c’ero anch’io.
“Sì?” rispondo, girandomi lentamente. Fortunatamente, il mio interlocutore non è quell’omone che ci aveva accolti alla porta. E’ un ragazzo che avrà più o meno la mia età, con addosso una tuta da ginnastica che lascia intuire che non sia venuto qui per passarsi la serata.
“Jeanette, giusto?”
“Sì…”
“Ne è passato di tempo, eh?”
Annuisco distrattamente e scruto il volto di quel ragazzo. Mai visto. Buio totale. Lui mi sorride e mi porge la mano.
“Non credo che mi conosci. Lavoro qui da un po’, da quando è venuto fuori quel casino…”
“Non me ne parlare”
“Sì, ormai eri una presenza fissa qui. Per le carte e tutto…”
Annuisco nuovamente, non mi va molto di fare conversazione. E soprattutto su questo argomento.
“Senti, posso andare dietro al palco? Quelli che suonano sono miei amici”
“Certo. Basta che non ti fai trovare in giro per i corridoi o nei camerini”
Mi dileguo velocemente, diretta al palco mentre mi gira in testa la voce di Joe che chiede cosa potrebbe succedere a mettere un fiammifero acceso in una bottiglia di vodka.  
 
Sarà più di un’ora che suoniamo. Fa un caldo assurdo e il basso comincia a pesare. Lancio un’occhiata ad Axl, che sta sculettando come suo solito. Mi nota e scuote la testa. Ma cazzo, sto morendo. Anche perché, al contrario di lui che muove la bocca a caso, io devo cazzeggiare con sta cosa da cinque chili appesa ad una spalla. Attiro di nuovo l’attenzione del rosso che, scocciato, mi fa un gesto con la mano. Mi viene una voglia assurda di picchiarlo davanti a tutti.
 
Mi piacerebbe andare da Duff e tirargli due sberle in piena faccia. Non so se ha notato che anche se mi fermassi la musica andrebbe avanti lo stesso. Ci vorrebbe qualcuno a fermare il disco. La moretta. Che va sempre a nascondersi quando serve. L’avevo vista giù dal palco qualche minuto fa e già non c’è più. La cerco un po’ tra la folla, ma tra il buio e la moltitudine di teste che riempie il locale non riesco a trovarla. Guardo le facce degli altri, tutti mi chiedono silenziosamente una pausa almeno per un sorso di qualcosa. E a quel punto vedo Jeanette, in piedi appoggiata ad una colonna appena fuori dal palco. La fisso un po’, finchè non se ne accorge. Mi rivolge uno sguardo interrogativo, anche se sa perfettamente cosa le devo chiedere. E infatti, mezzo secondo dopo, mi fa un deciso segno di no con la testa.
“Subito” mimo con le labbra, stando attento a non farmi notare dal pubblico, che però mi sembra abbastanza rimbambito dagli addominali che Slash mostra con molta poca modestia.

 
Torno nel corridoio di prima e vado alla console dove l’omone che ci aveva accolti aveva inserito il disco. Mi guardo un po’ intorno. Nessuno. Tranquillamente, aspetto che finisca Mama Kin, godendomi tutte le parole, che ho ascoltato fino alla nausea. Steven amava quella canzone e ogni volta che la cantava la interpretava da Dio. Lui non le eseguiva, lui dava un carattere alle canzoni. Poteva cantarti Walk This Way e fartela sembrare una cosa romantica, se avesse voluto. Gli acuti di Axl non erano nulla in confronto. Le note finiscono e in fretta stacco la console, prima che parta la canzone dopo. Mi guardo intorno un’ultima volta, mi assicuro che non ci sia nessuno e torno dai ragazzi, che hanno già agguantato un paio di bottiglie e si stanno gustano la pausa.
“Allora, come stiamo andando?” mi chiede Slash, porgendomi la bottiglietta di Jack che tiene in mano.
“Bene. Sembrate registrati” la butto lì io, già con la mente proiettata al momento in cui dovrò far ripartire la console. Mi da un’ansia assurda, il pensiero che i ragazzi possano essere scoperti. O meglio, che io possa essere scoperta. Perché non ho voglia di prendermi un’altra lavata di capo dal proprietario del locale, che a quanto pare è sempre lo stesso. Sorrido bevendo un sorso di whiskey, mentre ripenso amara alle scuse assurde che Joe e Steven architettarono per convincere me e una mia amica a prenderci la responsabilità di tutto. Due ventenni che avevano dato fuoco al locale. Non che gliene fosse importato molto al proprietario, a lui bastava qualcuno su cui sfogarsi.
Parte il riff di Sweet child o’ mine. Istintivamente chiudo gli occhi, quella melodia è una cosa bellissima. Poi ricollego il cervello.
 
Quasi mi strozzo con la birra a sentire le prime note di Sweet child o’ mine. Guardo Slash, è in piedi di fronte a me. E’ impallidito. Anch’io devo avere più o meno quel colorito. Persino Axl è sbiancato, per quanto il colore della sua pelle gli possa permettere. Ha la bocca mezza aperta, sta indicando il palco, incapace di spiccicare parola.
“Ditemi che c’è qualcuno che sta suonando al posto nostro” balbetta Jeff.
“Vi hanno scoperti, ragazzi. Buona fortuna” se la ride Vince. Nessun problema per lui, che di sicuro non farà una figura di merda colossale.
“No aspetta, anche tu eri su quel palco e anche tu ti prendi la responsabilità” lo ferma Jeanette prima che lui se ne vada.
“Perché? Io ho il mio gruppo e non suoniamo certo in playback. Se loro hanno voluto fare sta cazzata si beccano le conseguenze”
La moretta sbuffa, ma nulla di più. Non è il momento più adatto per fare la guerra, questo. Tutti stiamo pensando ad una scusa plausibile per salvarci dal casino in cui verremo coinvolti a minuti. Alzo gli occhi e vedo un tipo dall’aria piuttosto infuriata che ci viene incontro e mi rendo conto che più di minuti, è meglio parlare di secondi.
 

Un uomo vestito troppo bene per essere un cliente si avvicina a noi, che istintivamente abbassiamo la testa e diciamo quante più preghiere possibili.
“Buonasera” ci saluta con un tono pacato, che ho come l’impressione non durerà a lungo. Nessuno risponde. Ho paura tocchi a me.
“Salve” mormoro con la gola secca. E’ la fine di tutto. Dei Guns, della mia bella voce, della vita alla cazzo che conduciamo.
“Avete una spiegazione valida o è quello che penso io?”
Mi limito ad annuire, non riuscendo a elaborare una risposta decente.
“No, c’è un motivo se hanno fatto sta roba” si intromette Jeanette, che non ha ancora in testa i momenti in cui può parlare e quelli in cui può solo tacere.
“Sentiamo”
“Il chitarrista ha un polso steccato, non può suonare in queste condizioni e quindi hanno dovuto ripiegare sul playback perché non potevano perdere un’occasione del genere”
“Stai andando fuori allenamento, la scusa che ti eri inventata per l’incendio era più credibile”
Guardo Jeanette, dimenticandomi all’improvviso di cos’è appena successo.
“Incendio?” mi assicuro di aver sentito bene. La moretta ha dato fuoco ad un locale e io la tengo in casa mia?
Lei mi fa un cenno distratto con la mano, poi punta gli occhi in quelli del signore, assumendo di colpo uno sguardo da cucciolo bastonato.
“Non è una scusa. E’ la prima volta che lo fanno ed è stato architettato tutto in fretta e furia. Non volevano prendere in giro nessuno, è che in quel momento è parsa l’unica soluzione fattibile”
L’uomo sbuffa e con un cenno della testa indica la porta.
”Non vi faccio pagare i danni solo per la faccia tosta della ragazza, ringraziatela. Ma sappiate che avete finito di suonare. O qualsiasi cosa facciate”

 
Torniamo sul palco e raccogliamo gli strumenti il più velocemente possibile, tra i fischi dei clienti non proprio soddisfatti della piega che ha preso la serata. Loro, non sono soddisfatti. E noi che dovremmo dire? Mi si secca la gola al pensiero che tutti collegheranno il nostro nome all’etichetta ‘Quelli che suonano in playback’. Che ci collegheranno pure il mio, di nome. “Duff McKagan, il bassista, quello che suonava in playback”. Tutti faranno questo ragionamento, da quelli che mi vedono per strada e riconoscono i miei capelli cotonati a quelli a cui chiederò di suonare insieme. Nessuno mi vorrà più. E io ho sprecato tutte le mie forze per un sogno che finisce ancora prima di cominciare. Guardo Jeff, che aiutato da Slash sta mettendo la chitarra nella custodia, entrambi con una faccia scura. Nera.
 
Axl mi prende per mano ed esce dal locale. Lo seguo ubbidiente, non deve essere un gran bel momento per lui. E per tutti. E neppure per me, ad essere sinceri, ma tento di pensare il meno possibile ai miei problemi. Arriviamo alla macchina, lui tira fuori le chiavi e, senza battere ciglio, sale e accende il motore.
“Vieni o ti faccio così tanto schifo?” mi chiede fissando il volante. Salgo e partiamo, lasciando gli altri a piedi. Poco importa, ormai. La faccia di Axl rappresenta alla perfezione quella di tutti. Un misto tra lo sconforto e i mille dubbi. Non spiccico parola per tutta la strada. Penso. La mia mente lavora frenetica, alternando lampi di genio ad autorimproveri. Mi chiedo cosa faremo adesso. Anche se probabilmente non sono io quella che si dovrebbe porre tutte queste domande.
 
Mi chiedo cosa faremo adesso. Adesso nel senso dell’immediato, ovvio, ma anche nel senso di un domani. Io non ho mai voluto fare altro nella vita. Mi ricordo di quando Jeff a scuola mi disse che sapeva suonare la chitarra. Sorrido amaramente. Dovevamo ancora presentarci e già eravamo convinti di poter sfondare e diventare uno di quei gruppi leggendari che senti alla radio. Uno di quelli di cui si vocifera quando non si hanno altri argomenti di conversazione. Stupenda, la vita. A ventiquattro anni ti ricorda gentilmente che è il momento di tornare con i piedi per terra, facendoti notare che stai perdendo tempo e che di tempo ne hai ben poco.
Blocco l’auto in mezzo alla strada. Tanto nessuno passa per questo quartiere in piena notte. Qualche ubriaco che torna a casa, probabilmente. Il silenzio regna insieme al buio, rotto dai fari dell’auto. I pochi lampioni disseminati per i marciapiedi sono spenti, qualcuno perché rotto con qualche sassata, qualcuno perché nessuno si è mai curato di accendere questa zona della città. In fondo, fa talmente schifo che è meglio resti al buio.

 
“Dove siamo?” chiedo, scrutando incuriosita fuori dai finestrini. Non ottenendo risposta, guardo Axl. Ha appoggiato la testa al volante. I capelli rossi gli scivolano morbidi sul viso, impedendomi di scorgere la sua espressione, della quale tuttavia ho un preciso ritratto in mente. Sto a fissarlo inerme. Non trovo niente da dire. Io, che ho sempre la risposta pronta. Io che non metto mai a freno la lingua, nell’unico momento in cui dovrei parlare taccio. Qualcuno bussa sul finestrino, facendomi quasi morire per lo spavento. Guardo fuori e scorgo un sorriso tirato nell’oscurità e una mano aperta appoggiata al finestrino. Un negro che chiede qualche soldo. Tento di dissuaderlo dalle sue intenzioni con un gesto sbrigativo della mano, ma lui proprio non ne vuole sapere. Continua a bussare, sempre più forte. Axl apre il finestrino.
“Pezzo di merda, vattene e non rompere i coglioni. Non è una buona serata questa”
Il nero si gira e urla qualcosa in un dialetto stretto, di sicuro non di questa zona. Sento battere anche al mio finestrino e vedo altri due uomini, con un’espressione decisamente meno compassionevole del primo.
“Cazzo Axl, parti” quasi urlo, terrorizzata. Axl sta tentado di chiudere il finestrino il più velocemente possibile, ma il nero ha già messo un braccio all’interno e sta provando a fermarlo. Strattono Axl verso di me, non so se più per assicurarmi che non si faccia male o perché ho paura. Sento gli altri due uomini smettere di battere sul finestrino e armeggiare nell’oscurità alla ricerca della maniglia. Se aprono la portiera siamo morti, cazzo. Non passa molto tempo che sento la serratura scattare e due mani prendermi per le spalle, tirandomi fuori dall’auto e gettandomi malamente a terra. Mi rialzo in fretta, ma con uno spintone mi rispediscono subito sull’asfalto duro. Scalcio a caso nel buio finchè non riesco a colpire la gamba di qualcuno, che non molto contento mi molla un ceffone in pieno viso. Sento il labbro inferiore pulsare violentemente e il sapore metallico del sangue in bocca. Istintivamente, sputo. Non oso pensare a cosa sia arrivato in faccia al tipo che ora sta a cavalcioni sopra di me, che per ringraziamento mi lascia un altro schiaffo, sulla stessa guancia, che dopo il secondo colpo comincia a formicolare. Sento il rumore di qualcosa che sbatte contro l’auto, neppure Axl deve passarsela tanto bene. Poi, un colpo sordo sulla lamiera. Metallico. Un paio di rumori del genere, finchè quel suono viene sostituito da un gemito del rosso. Chiudo gli occhi, tentando di ignorare sia il dolore che sento io che quello che sta provando il mio sfortunato accompagnatore. Scalcio e mi dimeno sotto il peso di quell’uomo che mi tiene ancorata a terra. Mi blocco quando qualcosa di freddo e affilato mi accarezza il collo, da dietro l’orecchio alla spalla. Mano a mano che il coltello procede verso il basso, il freddo del metallo lascia posto al calore del sangue. Resto immobile, un minimo movimento e mi ammazzo da sola. Sudo, improvvisamente il cappotto che porto sopra la canotta nera è diventato incredibilmente troppo pesante. L’uomo, quasi a leggermi nel pensiero, lascia cadere il coltello, presto raccolto da un suo collega, e mi sfila il cappotto con una facilità disarmante. Ricomincio a muovermi sotto di lui, a urlare, ma qualcuno mi tappa la bocca.
“Non toccatela, figli di puttana” sento la voce di Axl, seguita a qualche millesimo di secondo da uno sparo. Sbarro gli occhi. No. No, non può essere. Un altro. Il silenzio. I due uomini che mi tengono ferma guardano quello che tiene in mano la pistola, in controluce di fronte ai fari della macchina. Il profilo sottile di Axl appoggiato al cofano. L’uomo urla qualcosa e salgono tutti e tre in macchina, facendo una manovra improvvisata e sparendo in fondo al quartiere. Axl, non trovando più l’appoggio che aveva, cade a peso morto sull’asfalto. Mi alzo e, con la vista annebbiata e la testa pesante, arrivo fino a lui. Stramazzo a terra anch’io, infreddolita e persa. Abbraccio il rosso, che mi circonda le spalle e fa scivolare le sue mani sulle mie braccia nel tentativo di riscaldarmi, visto che quello stronzo si è fottuto il mio cappotto. Le dita di Axl sono incredibilmente fredde. Le luci di qualche casa cominciano ad accendersi, dei profili neri si stagliano contro le finestre, incuriositi. Sulla strada si proiettano tenui le nostre ombre, qualche colore comincia a definirsi. Axl tossisce. Macchie di sangue cadono sull’asfalto. Qualche serratura scatta, dei passi si avvicinano. Mi stringo più forte al rosso. Sento delle mani prendermi, di nuovo. Urlo, avvicino il viso a terra. Una coperta fredda viene appoggiata sulle mie spalle, un paio di persone mi sollevano di peso. Smetto di gridare e mi lascio accompagnare via. Tanto, ormai. Sento che mi portano dentro ad una casa, l’odore di gas che arriva da una stufetta e il tepore che provoca. Mi appoggiano su un divano soffice. Sento un parlottare concitato, che a poco a poco si affievolisce, lasciando spazio al silenzio.
 
Dopo che ci siamo accorti che Axl e Jeanette ci avevano lasciato a piedi, dopo averli insultati per bene e dopo aver recuperato Steve, il quale stava stranamente pomiciando con una bionda, ci siamo diretti in un pub poco lontanto dal Whiskey a gogo. Non mi ricordo cosa e in che quantità ho mandato giù, ma non sono ancora riuscito a togliermi l’amaro in bocca e il groppo alla gola che da ore non si decide a sciogliersi. Bevo un altro bicchiere di qualcosa appoggiato al tavolo e butto la testa all’indietro. Ecco, questo è stato il bicchiere di troppo. Velocemente, mi alzo ed esco dalla porta anteriore, seguito di corsa da tutti gli altri, che non si vogliono certo perdere la scena di me che vomito. Non è una cosa che si vede molto spesso, in effetti. Cado carponi sul bordo del marciapiede e butto fuori anche l’anima senza troppi sforzi. Ricevo qualche pacca sulla spalla e qualche grido di incoraggiamento da quelli che dovrebbero essere i miei amici, ma che si stanno ben divertendo a vedermi stare di merda. Steven, che non è mai stato molto forte di stomaco, si accuccia di fianco a me e completa l’opera. Mi alzo e appoggio una mano al muro, tentando di recuperare equilibrio e lucidità, anche se so perfettamente che ci vorrà del tempo. Cammino piano, seguito da tutti gli altri. Quando finalmente avvistiamo una panchina, ci fiondiamo sopra senza troppe congetture. Slash si siede per terra e appoggia la testa ad una mia gamba. Con non so quale talento si gira una sigaretta, nonostante sia ubriaco fradicio. Si tasta le tasche in cerca di un accendino. Tasta anche le mie a tentoni, soffermandosi per un bel po’ sul mio pacco, convinto di aver trovato la soluzione a tutti i suoi problemi. Poi sbuffa e getta via la sigaretta. Qualche minuto dopo se ne gira un’altra, ricominciando la ricerca del suo tesoro perduto e ricominciando quindi a farmi una sega. Appoggio la testa sulla spalla di chiunque sia seduto affianco a me. Quasi mi soffoco in mezzo ai capelli di Steve, ma bene o male riesco a rilassarmi e a sciogliere tutti i muscoli.
 
Sento qualcuno tastarmi le costole con fare interessato. Spalanco gli occhi e vedo un vecchio con degli occhialetti a mezzaluna sorridermi tranquillizzante, mentre in piedi dietro di lui una coppia dai tratti ispanici ci osserva in ansia. Sono steso su un divano morbido, con la camicia sbottonata e la testa che mi scoppia. Quello che deve essere un medico mi fa lentamente girare il capo. Vedo Jeanette seduta a gambe incrociate su un tappeto, mi guarda con uno sguardo perso. Ha gli occhi gonfi e una guancia nera, un labbro spaccato, una fasciatura accurata ad un lato del collo.
“Avevamo sentito degli spari” racconta l’uomo dietro al dottore, che probabilmente sta parlando da tempo. Il dottore annuisce con fare grave, sfilandomi delicatamente le maniche della camicia ed esaminandomi le braccia.
”Se ci sono stati, non hanno preso nessuno dei ragazzi. Siete stati graziati, belli”
Si alza e porge alla coppia un paio di pomate, spiegando loro brevemente l’uso e gli effetti miracolosi che dovrebbero avere, visto che sia io che Jeanette siamo rincoglioniti al massimo. Il medico saluta educatamente e se ne va, lasciando la coppia con due ragazzi pestati per chissà quale motivo in casa.

 
Mi trascino fino al divano, dov’è disteso Axl. Non ho la forza di alzarmi, quel cazzo di disinfettante in cui il medico mi ha annegata brucia da morire sulle ferite, soprattuto sul collo. Il rosso ha dei lividi neri all’altezza dello stomaco, le braccia graffiate come le mie, il viso incredibilmente intatto, a parte gli occhi rossi e gonfi. Io non voglio nemmeno pensare alle condizioni della mia faccia. Appoggio la schiena ai cuscini del divano. Axl posa una mano sulla mia spalla. La afferro. Accarezzo un po’ le dita sottili, facendo scontrare le nocche con noncuranza. Non vedo l’ora di tornare a casa e di restarci per sempre.
 
Dopo una rigenerante dormita su una panchina di un marciapiede, apro gli occhi e mi ritrovo con un capannello di gente che ci guarda incuriositi. Stiracchio le gambe svegliando Slash, ancora appoggiato addosso a me.
“Che cazzo avete? Non c’è niente da vedere” invita diplomaticamente la gente a spostarsi. Izzy e Steve si svegliano di colpo a tutto quel frastuono.
“Buongiorno. Come avete dormito?” domanda il biondo, sarcastico come suo solito.
“Di sicuro profondamente” commenta Izzy, indicando l’orologio di un campanile non molto distante che ci avvisa che sono le dieci del mattino.
Ci alziamo tutti e con la testa pesante e le gambe incerte, ci dirigiamo alla fermata dell’autobus più vicina, segnalata da un cartello blu con nomi di varie località stampate in bianco. Scorro velocemente tutti i nomi, non riuscendo a trovare il nostro quartiere. Quanto distante ci siamo cacciati?
“Quella è la zona dove abita Nicole, da là sappiamo arrivare a casa” ci informa Steve, che da sbronzo è riuscito a dire una cosa più intelligente di quando è sobrio.
“Il 15 quindi… E’ quello lì, quello che sta partendo?” chiede innocente Slash, indicando l’autobus che si allontana dal marciapiede per immettersi in strada.
“Merda” dico, cominciando a rincorrere il mezzo, imitato dagli altri.
In un modo o nell’altro riusciamo a salire e a scroccare quattro biglietti all’autista, che non molto contento della nostra presenza ci invita a toglierci dalle palle il prima possibile. Ci sistemiamo in fondo, Steven si addormenta appena appoggia il culo al sedile.
 

“E’ una cosa che succede abbastanza spesso, qui. Non dovete preoccuparvi, non è che cercassero voi” ci spiega la signora, che ci ha preparato un piatto di pasta.
“Sì, ma intanto ci hanno fregato la macchina e gli ultimi soldi che avevamo” rifletto mogio, giocherellando con gli spaghetti. Jeanette non parla, fissa il piatto. Non ha ancora preso in mano la forchetta.
“Capisco ragazzi, non siete i primi che ci capitano in casa. Dove abitate? Vi portiamo noi”
Spiego brevemente come arrivare a casa nostra. La signora annuisce, sembra conoscere alla perfezione tutta Los Angeles. Finita la spiegazione, ci dice che va a cercare suo marito. Sparisce dietro la tenda che separa cucina e salotto.
Guardo Jeanette, seduta affianco a me. E’ pallida.
“Ehi, che c’è?” le chiedo, appoggio la mia mano sulla sua. Lei risponde in un sussurro, senza smettere di fissare il piatto.
“Potevano ammazzarci”
Mando giù quella risposta, che mi fa rendere conto che effettivamente sì, potevamo rimetterci la pelle. Le mazzate che mi sono preso sullo stomaco fanno ancora male, e non poco.
“Sì, potevano. Ma siamo qua e stiamo bene. Non pensiamoci più. Adesso torniamo a casa ed è tutto finito”
“E se succede di nuovo e non siamo così fortunati? E se succede quando sono sola e nessuno viene a tirarmi su in tempo? Cioè, può capitare in qualsiasi momento. Se ne sentono tutti i giorni, in giro”
Di nuovo mi trovo costretto ad ammettere che la moretta ha ragione. Non capisci cosa significa una cosa del genere finchè non la vivi in prima persona. E’ che io l’ho già passata, e anche la paura di prendere qualche sberla ormai non mi fa alcun effetto. La paura che ogni colpo sia l’ultimo che senti, che ad un certo punto diventa pure una speranza.
Rientra nella stanza il marito della donna. Guarda strano Jeanette, che non ha toccato cibo. Ci dice che è ora di andare.

 
Axl mi prende per mano e insieme saliamo in macchina. Il signore accende il motore, partiamo. E’ circa mezz’ora di strada, durante la quale non faccio altro che guardare dal finestrino impaurita. Impaurita da tutta la gente lì fuori, che da un momento all’altro può buttarti a terra e prendersela con te senza motivo. Vedo in lontananza l’edificio dove abitiamo noi e tiro un sospiro di sollievo. Siamo arrivati.
Il signore posteggia di fianco al marciapiede. Ringrazio in fretta e mi fiondo dentro casa, mentre Axl si ferma a scambiare due parole.
 
Jeanette rientra e chiude silenziosamente la porta. Mi alzo dal divano e vado verso di lei, contento di vederla.
“Dove cazzo eravate finiti? Ci avete lasciati a piedi” la sgrida Slash, che al contrario di me è ancora schiantato sul divano. Lei non risponde, sembra persa. Ha un occhio nero e un labbro spaccato, il collo fasciato a metà. Faccio per abbracciarla ma si scosta, chiudendosi poi in camera di Axl. Slash, che ha assistito a tutta la scena insieme a me e Steve, mi chiede con aria stranita se lo strano comportamento di Jeanette sia stata colpa sua. Rispondo con un sincero ‘Non lo so’ e vado in bagno, proprio quando Axl sta rientrando.

 
Entro in camera e trovo mio fratello seduto sul suo letto, a cambiarsi le fasciature. Si volta e la sua faccia passa in un secondo dal felice al preoccupato, vedendomi nello stato in cui sono.
“Che è successo?” chiede tutto d’un fiato, il poco che gli resta. Scuoto la testa distrattamente e mi butto sul letto di fianco. Schiaccio la testa contro il cuscino. E’ tutto nero, tutto buio. E’ così sicuro, qui.
Sento una mano toccarmi la spalla e sobbalzo, stringo più forte il cuscino con le mani.
“Ehi, tranquilla. Che c’è?” mi domanda la voce rassicurante di Jeff, rotta dall’ansia nel vedermi in certe condizioni.
“Ho paura” mormoro, soffocata dalla stoffa nera. Lui si accontenta, non mi chiede altro.
“Vorrei restare da sola” aggiungo.
“D’accordo”
Dei passi si allontanano e la porta si chiude. Sono sola. Raccolgo le coperte da terra e mi copro, avvicino le ginocchia al petto. Sì cazzo, ho paura.
 
Jeff chiude la porta della nostra stanza e mi squadra da capo a piedi. Di sicuro ha già visto Jeanette.
“Con cosa siete tornati che non c’è la macchina fuori?” chiede Slash, affacciato alla finestra a fumarsi una sigaretta.
“Ci hanno fregato la macchina. E i cinquecento dollari che ci erano rimasti” rispondo secco buttandomi a peso morto sul divano, incredibilmente scomodo a confronto con quello della casa degli spagnoli. Tutti mi guardano a bocca aperta. Non li degno di una spiegazione finchè Duff esce dal bagno e si piazza davanti a me, che fisso il soffitto come se fossi fatto.
“Che cazzo avete combinato?” incalza Saul. Lancia la cicca dalla finestra e si posiziona di fianco al biondo.
“Dov’è Jeanette?”
“In camera” mi risponde Jeff. Senza dire una parola, tra le facce scocciate degli altri, mi chiudo nella mia stanza.

 
Di nuovo la porta si riapre. Qualcuno si siede sul bordo del letto. Sto ferma, immobile. Chiunque tu sia, vattene.
 
Sto zitto, seduto sul bordo del letto. Quando Jeanette vorrà parlare, me lo dirà. Non voglio metterle fretta, so che non è così simpatico sentirsi minacciati da qualcunque persona tu veda. Sospiro e guardo il soffitto. Bianco. Mi passo una mano sotto la camicia e sento i lividi sulla pelle. Quanto tempo. Sento la ragazzina muoversi sul letto. Mi volto, ha appoggiato la schiena al muro e mi guarda, in attesa di qualche frase che la rassicurerà in modo tale da farle passare qualsiasi paura.
“Forse non sono la persona più adatta con cui parlare” la avverto. Lei annuisce.
“Se non parlo con te non parlo con nessuno”
Sospiro di nuovo. Sinceramente, non so cosa dire. So perfettamente cosa prova. E che non c’è niente che possa farti sentire davvero al sicuro.
“Lo so com’è. Te l’ho detto, da piccolo mio padre… Cioè, capisco cosa senti. Capisco che hai paura. E’ che gli altri non possono farci niente, devi uscirci da sola. E’ tutta una cosa che hai dentro la tua testa. Nessuno vuole davvero farti del male”
“Infatti stanotte tre sconosciuti ci hanno pestati senza un motivo valido”
Chiudo gli occhi. Già Jeanette ha la risposta pronta per qualsiasi cosa, figuriamoci in situazioni come questa.
“E poi, tu dici che devo arrangiarmi. Devo sempre arrangiarmi, cazzo. Sono triste? Mi arrangio. Ho voglia di uscire? Mi arrangio. Vorrei anche un po’ di sostegno ogni tanto”
“No senti, noi ci siamo sempre stati per te, qualunque crisi isterica tu avessi. Puoi rinfacciarci che non facciamo sempre la cosa giusta, ma appena dici che stai male corriamo tutti da te. Vedi di non sparare cazzate per favore” sbotto, contrariato. Non sopporto di venire accusato per colpe che non ho.
“Infatti adesso tu mi stai dicendo di uscire in strada e fare finta che non sia successo niente. Io sono terrorizzata, non so se lo capisci. Perché a te da piccolo bastava uscire di casa ed era tutto finito, di sicuro non sarebbe arrivato un estraneo a prenderti a sberle” Jeanette urla, l’espressione persa che aveva prima ha lasciato il posto alla sua solita faccia da stronza.
“E secondo te io non ho mai pensato di scappare? Non ci ho mai provato, secondo te? E soprattutto, che cazzo vuoi saperne? Ti hanno dato uno schiaffo per caso per la prima volta nella tua vita e fai già la donna vissuta? Devi riceverne tanti altri, prima di poter parlare” mi alzo bruscamente ed esco, sento un ‘Vaffanculo’, attutito dalla porta che sbatte.
In salotto sono tutti a parlottare, probabilmente vanno avanti da quando sono entrato in camera. Appena sentono la porta sbattere, si zittiscono e mi fissano.
“Allora hai voglia di spiegarci o ti dobbiamo pregare come sempre?” chiede Slash, piuttosto impaziente.
“Che è successo?” ripara Jeff più dolcemente, salvando Saul da un pugno che ero già psicologicamente pronto a tirargli. Mi passo una mano tra i capelli, tento di riordinare le idee ed elaborare un riassunto il più breve possibile.
“Stavamo tornando a casa e a un certo punto un negro ci ha bussato al finestrino della macchina. Abbiamo provato a mandarlo via, ma sono arrivati altri due tizi che ci hanno pestati un po’. Niente di che, è solo che ci hanno fottuto sia la macchina che i soldi”
“Tutti i soldi?”
Ignoriamo Slash.
“Che vi hanno fatto? Jeanette è sconvolta” chiede spiegazioni Michael.
“Non è per niente sconvolta, è già tornata col suo tono da stronza. Dovrebbero farle ben altro per zittirla”
“No senti Axl, io ho provato a parlarle, è davvero strana” insiste Jeff.
“Prova ad andare adesso. E sta attento che se le gira non ci mette tanto a risponderti male” chiudo io. Vado in cucina, cerco qualcosa di dolce da mangiare, per buttare giù l’amarezza e non pensare a quell’acida del cazzo che crede di averle passate tutte, nella vita.

 
Jeff bussa piano prima di entrare nella stanza. Sono ancora appoggiata con la schiena al muro, a riflettere su quanto tempo ci avrei messo a morire se gli spagnoli non mi avessero portato in casa loro, stanotte. Alzo lo sguardo, mio fratello ha un sorriso timido sul viso. Si siede dove prima era seduto Axl, ma con lui non ho affatto voglia di fare la guerra.
“Come stai?” mi chiede, sempre con quel sorrisetto rassicurante.
“Fisicamente sto bene. Ho i graffi che bruciano un po’, ma niente di che”
“Ci cambieremo le fasciature a vicenda” scherza lui. Ridiamo, ma torniamo subito seri.
“Tu come stai?” tento di sviare il discorso.
”Io bene, ma non è quello l’importante” Jeff mi guarda in modo grave, un milione di domande in un solo sguardo. Faccio spallucce.
“Sinceramente, ho una paura assurda ad uscire. Perché stanotte ci hanno preso a botte così, senza un motivo. Un momento prima ero a consolare Axl e un momento dopo mi sono trovata un tipo con un coltello in mano sopra di me. Cioè, loro non sapevano che avevo cinquecento dollari nel cappotto. Ci hanno presi così, perché avevano voglia”
Tiro su col naso. Mi rendo improvvisamente conto che ora ho una paura nera e neanche un soldo. Nemmeno uno.
“Dai, vieni di là con gli altri. Almeno ti distrai un po’” mi invita Jeff. Si alza e mi tira su dal letto, che abbandono controvoglia.
Apre la porta e sbatte contro Steven, che a quanto pare non si è perso una parola della nostra conversazione privata. Che credevo privata.
“Sai una cosa? Forse se tu sapessi difenderti non avresti paura. Cioè, ti sentiresti più sicura” spara tutto d’un fiato, prima che io possa lanciargli qualcosa. Scuoto la testa e mi butto sul divano di fianco a Slash. Jeff va in cucina, dalla quale qualcuno sta spadellando; Steve si chiude nella sua stanza.
“Steven non ha tutti i torti. Se vuoi ti insegno qualcosa” propone Slash, che sta guardando il telegiornale alla tv. Dopo essersi accorto che il giornalista sta parlando da mezzo minuto di un’aggressione avvenuta nella periferia di Los Angeles, spegne il televisore e si alza. Mi alzo anch’io, mi metto di fronte a lui sopra il tappeto morbido del salotto.
“Tirami un calcio sulle palle” mi sento dire. Saul apre le braccia, lasciandomi campo libero. Assumo un’aria scettica. La porta del bagno si apre. Mi volto e vedo Duff con un asciugamano intorno alla vita. Mi guarda e mi sorride, si avvicina a noi. Torno a fissare Slash, ancora con le braccia semiaperte, in attesa della mia mossa.
“Dai, tirami un calcio sulle palle” mi incita nuovamente.
“Dai, non è così difficile” mi spiega Duff. Alza una gamba e colpisce il povero chitarrista esattamente come avrei dovuto fare io. Chiudo gli occhi, immaginando il dolore che sta provando Slash, che si lascia cadere a peso morto sul divano, tenendosi il pacco. Duff pensa bene di evaporare, mentre dalla cucina ricompaiono Jeff e Axl, attirati dall’urlo che Saul ha cacciato e da tutta quella serie di insulti che sta dedicando al bassista.
“Che è successo?” domanda il rosso, piuttosto divertito dalla scena di Slash che si contorce sul divano tirando giù tutti i santi del paradiso.
“Non ridere stronzo, vai a prendermi il ghiaccio” gli risponde il malcapitato.
Vado in cucina con Jeff, alla ricerca di quel ghiaccio che in due settimane non ho mai visto da nessuna parte. Apro il freezer, ma non ce n’è nessuna traccia. Una scatola di gelato, un paio di bistecche congelate, un cetriolo.
“Perché mettete i cetrioli in freezer? Non va bene che si congelino” avverto mio fratello, per poi prendere la scatola del gelato che funzionerà più che bene anche come borsa del ghiaccio. Vado verso il divano e porgo il barattolo a Slash.
“Ma che cazzo è sta roba?” si lamenta lui.
“Mettitela sulle palle e andrà più che bene” continua a ridersela il rosso, che riceve parte delle offese dedicate a Duff.
 
Quando mi decido a tornare in salotto non sento più schiamazzi da un pezzo. Apro delicatamente la porta della mia stanza e sbircio fuori. Tutte le luci sono spente. Jeanette si raggomitola sul divano. Esco e vado verso di lei, le poso una mano sulla spalla. Lei sobbalza e apre gli occhi di scatto, mi guarda.
“Tutto bene?” tento di fare conversazione. Annuisce.
“Bene” mormoro. “Buonanotte”
Torno in camera, dove Steven sul suo letto sghignazza ancora per quello che è successo a Slash.
  
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Guns N'Roses / Vai alla pagina dell'autore: Euachkatzl