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Autore: Fidaide    16/06/2008    5 recensioni
Corre l'anno 1955... Qualcosa di strano accade a Malfoy Manor.
"La tensione crebbe palpabilmente. Pensieri tumultuosi mulinarono nel cervello di Hilda, che, abbrancata da una fitta di paura, si voltò di scatto, mentre il viso del maggiordomo, ritto dinnanzi a lei, sembrava essersi impietrito. Nelle loro vene il sangue fluiva veloce e raggelato.
Alla servitù non era concesso di entrare nella stanza delle armi, la camera preferita dei signori Malfoy, Abraxas e Lysiart, che conteneva una sfilza di stemmi e fucili Babbani, insieme con un mucchio di stampe antiche provenienti da tutte le parti del globo. Ma l’infermiera, colta dal terrore e dall'ansia, dimenticò ogni divieto. Afferrò la maniglia e spalancò la porta della sala sfarzosa. Ai suoi occhi si presentò uno spettacolo agghiacciante..."
Scritta a quattro mani da Fidia e Alaide.
Genere: Drammatico, Mistero, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II

Quasi tutti gli abitanti del Manor si sentirono vincolati dalla leggera devozione, nata certo da obblighi morali piuttosto che da franchi slanci d’affetto, nutrita nei confronti di Adolar Malfoy, e radunati in una piccola folla, cooperarono per ritrovarlo. Quello che dapprima era un debole fermento si trasformò di sorpresa in un caotico pullulare di visi angustiati in ogni parte della magione. Gli abitanti sciamarono per gli anditi, scambiandosi talora taciti messaggi, cercando il modo più conveniente per trasmettere le cattive notizie. Era indubbiamente Hilda, l’infermiera del malato, la ricercatrice più accorata. I suoi gesti convulsi denotavano, più che angoscia, un forte senso di esasperazione. Si sentiva sul punto di esplodere quando scese al pianterreno, setacciando persino le crepe sui muri, mentre portava dietro le orecchie una ciocca solitaria che continuava a balzarle in maniera impertinente sul viso aguzzo. La caccia si dimostrò infruttuosa.
Stando al giudizio comune, quella di Hilda era un’indole quanto mai labile e malferma, e forse per questa ragione si ritrovò a incespicare ed ansimare sul tappeto persiano che foderava il pavimento del salone al pianterreno senza sapere quale direzione prendere. Conosceva parzialmente la dimora, poiché il suo misero alloggio si trovava nella cella piccola e cupa del degente, dove consumava interminabili giornate, tra il pallore che sembrava riflettersi dalle mura al viso del vecchio, e viceversa, e quell’aria malaticcia e squallida che riempiva ogni angolo della magione e ancor più si concentrava al cospetto del disabile, quasi fosse da lui misteriosamente evocata.
Comprese all'istante in che luogo si trovava: quello era il salotto dove era stata gentilmente accolta dopo l’assunzione. Lo dimostravano i mobili di mogano intarsiato, le pareti ricoperte di mussola bianca, il profumo dolce di erba fresca e terriccio che penetrava dall’esterno, e di cui ancora aveva memoria. Si piegò per scoccare una fugace occhiata al cavedio quadrangolare, oltre le tende bianche che alacri elfi avevano fissato, per mezzo di nappe dorate, ai lati della portafinestra. Sapeva che nel cortile non avrebbe trovato il suo paziente, ma contava di trovarvi perlomeno un briciolo di serenità. Spinta da questa convinzione, che alimentata dall’ansia si mutò in certezza, varcò la soglia, dimenticando per un attimo il compito gravoso di cui era tenuta a occuparsi.
Un vaso in stile geometrico, decorato con meandri e rigide volute che si snodavano su un fondo giallognolo, marcava il centro esatto del cortile interno. Hilda lo raggiunse e gli si appoggiò con entrambe le mani, firmandolo con le proprie impronte.
Il fragore dei tuoni era sempre più svigorito, e la pioggia ormai in declino. Persino quelle nuvole fosche che prima occultavano il cielo e parevano essersene impossessate volavano a sud, mosse da un vento feroce. Un denso profumo di terra bagnata investiva la zona reduce della turbolenta bufera, là dove fili d’erba e foglie vorticavano in una sinfonia di danze per posarsi delicatamente negli anfratti del cortile, profetando la rinnovata quiete. Gazze dalle code maculate riprendevano a sfarfallare di chioma in chioma, e il loro tetro gracchiare era ormai il suono più forte, dopo quello dei tuoni, a rompere la perfetta staticità del paesaggio, che se ne stava adagiato e sonnecchiante in un placido torpore crepuscolare.
Per poco Hilda non sobbalzò quando si imbatté in una figura squallida, o piuttosto quando una figura squallida si imbatté in lei. La nuova venuta aveva il viso segnato da screpolature che lo facevano apparire parecchio smunto, e movenze impacciate tanto singolari da renderla riconoscibile fra mille.
«Salve, signora Malfoy!» disse Hilda, cercando di apparire professionale anche durante quel momento di riposo ingiustificato.
La donna strizzò gli occhi corvini, che tanto somigliavano chicchi di caffè, e lasciò scivolare le labbra sulle ossa del volto, mostrando i due minuscoli incisivi.
«Non mi aspettavo di trovarla qui, infermiera. Tanta è stata la sorpresa, che mi ha spaventata.» disse lentamente e col tono capriccioso, benché nulla, sul suo volto, testimoniasse quelle parole.
«Non era mia intenzione, signora Malfoy.» replicò Hilda con leggero imbarazzo, facendo un cenno con la testa per rendere ancor più esplicito il messaggio, quasi stesse parlando a un essere irragionevole.
Era lì lì per riprendere fiato quando la moglie del dottor Abraxas la precedette: «Stavo dando uno sguardo agli arbusti e alla siepe. La trovo così arida che non mi meraviglierei di trovarla nel bel mezzo del deserto Sahariano. Vive, povera siepe, nonostante non le riserviamo molte cure. Invece le piante meritano assai più degli uomini, signorina O’Connor. Eppure mi chiedo a cosa serva la pioggia, se non le riverdisce. Porta solo fastidio, e un’inspiegabile monotonia.»
«Signora Malfoy, deduco dalle sue parole che non sa ancora ciò che è successo. »
«Avrei motivo di essere turbata? Beh, per dirle la verità, infermiera, ho notato un certo fermento, - rispose Megan, additando con l’indice scheletrico la portafinestra, – ma non ho interesse a scoprire quale ne sia la cagione.»
«Si tratta di suo suocero. – rispose l’infermiera, incurante delle sue parole. – Lo abbiamo cercato in ogni piano, eppure sembra essersi eclissato, stavolta.» Sottolineò intenzionalmente quell’ultima parola, anticipando una prevedibile risposta di Megan.
«Oh, che novità! – ripeté comunque la signora, con un mezzo sorriso negli occhi. – E’ la terza o la quarta volta che lo fa, e voi ne state facendo un dramma come al solito. Rispunterà nel momento più assurdo, signorina O’Connor. Lei saprà come sono fatti questi vecchi folli. Delle volte qualcosa li attira, si alzano e cercano un po’ di libertà. Ma poi tornano inevitabilmente al loro posto, perché la libertà non gli conviene affatto, e sono ancora desiderosi delle cure cui, forse troppo generosamente, noi persone normali li sottoponiamo.»
Hilda scosse la testa, contrariata di fronte a tale egoismo. «La prego di considerare la faccenda in modo più serio. Da troppo tempo è lontano dalla sedia a rotelle.»
«Adesso vuol farmi credermi che teme per lui? – rispose Megan Alcesti, ammiccando con una certa malizia. – Guardi, signorina O’Connor, sarà che sono scettica, ma non credo ai legami di affetto tra estranei. Se adducesse come pretesto il suo terrore di perdere il mestiere, allora sì, ci crederei.»
Hilda dovette giudicare la signora Malfoy una donna maleducata, perché, col volto arrossato, si costrinse a dire: «E’… è una questione di vita o di morte.»
A Megan bastò sentire quell’ultimo vocabolo per sbiancare, come in preda ad un sadico piacere. La morte… quale fascino esercitava sulla sua mente annebbiata! Se non fosse stata così innamorata della morte, certo non avrebbe collezionato stampe macabre nel proprio boudoir. Aveva sempre ritenuto il macabro qualcosa di attraente, e non certo perché, come tanti artisti, ne fosse affascinata. Megan amava la morte fisica nella maniera più bassa possibile.
«Sarò sciocca, signorina, ma in parte mi ha convinto. – riprese, persuasa ed estasiata dall’idea della morte come il Conte di Montecristo dall’hascish. – Non avendo niente di meglio da fare, mi offro volontaria per cercare Adolar Ma sia chiaro, è una pura cortesia. Francamente, non lo dica ad Abraxas, se quel vecchio squinternato ha deciso di gettarsi dall’ultimo piano in preda a un raptus di follia, scegliendo la fine della nuora, non mi riguarda affatto.»
Un’interiezione spasmodica proruppe dalle labbra dell’infermiera, che abbassò la testa, tentando di scacciare dalla mente quelle immagini orrende. «Dio… Dio gliene renderà merito, signora Malfoy, se ci aiuterà a trovarlo.»
Megan le batté sulla spalla, mormorando qualcosa sull’esistenza di Dio, prima che insieme attraversassero il colonnato e superassero in fretta la sala da pranzo, lanciandosi ad ogni passo occhiate di disagio.


Il maggiordomo Green arrancava così lentamente da dare l’impressione che il pavimento del corridoio del secondo piano gli scivolasse sotto i piedi mentre egli rimaneva immobile, lasciandosi alle spalle lo studio del dottor Abraxas. Nel suo studio, descrivibile come un immenso laboratorio quadrangolare, aveva trovato ogni cosa al suo posto, ma nessuna traccia del vecchio Adolar Malfoy: i vetri lucidati con maniacale impeccabilità, le provette cristalline riposte in una fila ordinata lungo il tavolo di marmo, le clessidre che il signor Malfoy collezionava accatastate secondo con un assetto incomprensibile dietro la porta, l’armadio rigorosamente chiuso a chiave. Persa ogni speranza, Green aveva saggiamente deciso di rivolgersi al gretto bibliotecario della magione, Zephyrus, che aveva l’aria di conoscere sempre tutto di tutti. Qualora Adolar fosse davvero passato dal secondo piano quel pomeriggio, senza ombra di dubbio lo aveva visto. Green proseguì lungo il corridoio, sempre più sicuro che Zephyrus gli sarebbe stato d’aiuto. Condottieri e grandi maghi di epoche passate lo scrutavano torvi dalle cornici dorate, biasimando tacitamente il suo camminare impettito e rigido, sussurrando di nascosto critiche che avrebbero indispettito non poco il maggiordomo, troppo lontano per udirle.
Il bibliotecario di Malfoy Manor alloggiava in una camera buia e lercia, molto più simile ad una cella monasteriale che ad una vera e propria stanza. La carta da parati, ingiallita dal tempo, si era scollata dalle mura e pendeva oscillante e grinzosa. All’interno del locale aleggiava un pesante odore di chiuso, condensato in un miasma tossico, e, quando i raggi di luce trapelavano dalle minuscole finestre imbrattate, si distingueva nell’atmosfera uno strato di pulviscolo misto a grumi di polvere. La ragione di quel disordine non era difficile da intendere: Zephyrus trascorreva le sue giornate in mezzo agli scaffali della biblioteca, e solo le notti in quel bugigattolo contaminato. Gli elfi non erano tenuti a ripulirlo, e la sporcizia si accumulava ogni giorno in misura maggiore. Non appena Green lo raggiunse, il bibliotecario, che stava fortuitamente sistemando una pila di libri sulla scrivania di quercia, lo adocchiò con piglio sgorbio.
«Green! – borbottò, zoppicando verso di lui. – E’ successo qualcosa o m’inganno? »
«Non lo immagina? – chiese il maggiordomo, sollevando appena la testa e inarcando le sopracciglia folte – Nient’altro che la sparizione di Adolar potrebbe spiegare questo viavai.»
«La sparizione di Adolar? E chi ha detto che è sparito? L’ho appena visto qui vicino.»
Green trasse un sospiro di sollievo. «Ne ero certo, signor MacNiemand. Ma a dirle la verità, ho attraversato or ora il corridoio in lungo e in largo, senza vederne l’ombra.»
Il topo di biblioteca aprì gli occhi cisposi, cosa che stupì Green, il quale aveva sempre ritenuto le palpebre dell’uomo inscindibilmente appiccicate. «Non è in corridoio? Ma se l’ho appena visto! Oh, accidenti!»
Uscì fuori la testa dalla sua gabbia, non senza palesare un certo senso di molestia, e guardò ora a destra, ora a sinistra, prima che gli venisse nuovamente rivolta la parola dal maggiordomo.
«Quanto tempo è passato, signor MacNiemand? E cosa stava facendo?»
«Sarà passata mezz’ora. – Tirò fuori un orologio da tasca e approvò con un cenno la frase appena articolata. – Era fermo a delirare, ma non ho udito ciò che dicevo. Stavo per chiamarlo, ma meglio considerando al distanza, vi ho rinunciato. Dopodiché sono entrato in camera, pensando che l’infermiera - non ricordo mai come si chiama - fosse nelle vicinanze.»
«Non l’ha meravigliata vedere Adolar Malfoy senza sedia a rotelle?, Il signore è gravemente malato, e non può allontanarsi di un metro dall’infermiera. Sono anni che lavora qui, signore, dovrebbe saperlo. – proferì il maggiordomo diplomaticamente. Si guardò intorno con fare circospetto, poi abbassò teatralmente il volume. – Glielo dico in maniera confidenziale: stamattina il signor Lysiart Malfoy si è lamentato di non trovarla in biblioteca. Non l’avevo mai visto così spazientito, certo lo sarà anche per problemi propri. Ma non sarebbe una cattiva idea scendere e rimanere giù, in biblioteca.»
«Al diavolo il signor Malfoy! Con questo tempaccio nessuno ha voglia di lavorare e mi sono concesso una pausa, per scorrere qualche pagina! Sono un bibliotecario, non uno schiavo.»
Il maggiordomo scrutò con aria cauta la scrivania, su cui era stato posto un libro dalla copertina spiegazzata. Il titolo, scritto in rilievo, lo colpì per la patina brunastra da cui sembrava ricoperto: Tradizioni magiche dell’Estremo Oriente.
Distolto lo sguardo e riordinati alla meglio i pensieri, continuò: «Non si agiti, signor MacNiemand. L’ho solo avvertita, e ricordi che “ambasciator non porta pena.” – Green tentò di abbozzare un sorriso, del tutto inadeguato all’occasione. – Qualora dovesse vedere Adolar, non lo lasci andare, e ci avverta subito.».
«Com’è mio dovere... – assentì il bibliotecario, infilando pigramente nel cassetto il tomo che stava leggendo. – Tuttavia, visto che si sono tutti mobilitati, mi do da fare anche io. Mi sono messo nella condizione di dover pretendere la clemenza del signor Malfoy.»
Sogghignò stupidamente, cercando di coinvolgere nella risata il suo interlocutore. Un attimo dopo, le loro strade si separarono. Zephyrus MacNiemand decise di ripercorrere il corridoio, per ispezionare la zona in cui poco prima aveva avvistato il vecchio ed accaparrarsi così la sospirata indulgenza, mentre Green accedette all’anticamera della stanza delle armi.


Come una statua in precario equilibrio, Megan si fermò di scatto prima di mettere piede sul pavimento levigato del secondo piano. Hilda, che le veniva dietro come una serva che segua docilmente la matrona, la guardò accigliata.
«Qualcosa non va, signora Malfoy?»
La donna si portò una mano alla testa con l’atteggiamento di chi ha scordato un trascurabile dettaglio. «Dio mio, ho lasciato il bambino da solo nella culla.»
«Completamente solo? – ripeté Hilda, sempre più irrequieta per proprio conto. – Lo raggiunga pure, signora Malfoy. Siamo già in molti a cercare il vecchio, e non serve un coinvolgimento generale.»
«Il piccolo Lucius è una canaglia. Ecco, mi sembra già di sentirlo strillare.»
Hilda abbozzò un sorriso fugace, strinse la lingua fra i denti e trasse dalla tasca una boccetta di liquido opaco. «Sette gocce al vecchio Adolar, se lo incontra per caso. Porto con me altre fiale.»
«Ci conti, infermiera.» Il tono era velato di sarcasmo.
Megan intascò l’ampollina e seguì il percorso inverso a quello che aveva intrapreso con l’infermiera, seguita dagli occhi di Hilda, che stette immobile e la guardò sparire oltre le scale. Il terrore che Adolar potesse essere già privo di vita le si avventò contro inaspettatamente, ma fu risollevata dal pensiero che, nel caso in cui fosse accaduta una simile tragedia, l’avrebbe già appreso in qualche modo. Si trovava dinnanzi alla stanza della armi, nel momento in cui, voltando lo sguardo quasi per caso, trasalì nel vedere il maggiordomo Green che sbucava dall’anticamera.
«Signor Green! C-ci sono novità?»
L’uomo parve spaurito, mentre lineamenti sanguigni gli rigavano il volto e perle di sudore freddo gli inumidivano la fronte. «Da parte mia, nessuna. Spero soltanto che gli altri abbiano avuto maggior…»
Si bloccò d’improvviso. Un’eco sottile e cavernosa saturava l’aria, simile al guaito di un lupo moribondo. La sua treccia schizzò a sinistra non appena Hilda proiettò lo sguardo sulla fonte di quel flebile suono. Green sgranò gli occhi, come in preda ad un’allucinazione, e per mettere a fuoco l’immagine impiegò diversi secondi. Proprio sul momento di deporre le armi, vedevano Adolar Malfoy che incedeva accanto a loro. In certi momenti barcollava, cercando un appoggio, in altri camminava con perfetta stabilità, mentre i pantaloni beige strusciavano contro il pavimento in un fioco stropiccio.
«Sia ringraziato il Cielo!» esclamò Hilda, precipitandosi verso il degente, felice come una figlia che abbia ritrovato il padre.
Green continuava a guardarsi intorno smarrito.
«Sono appena entrato nell’anticamera, ma lui non c’era.»
Gettò ancora uno sguardo alle sue spalle, come se sperasse di trovarvi la chiave dell’enigma.
«Doveva essersi nascosto dietro la porta dell’armadio. – gli venne in aiuto Hilda. – Forse non ha pensato di guardarci.»
Green dovette convenire con l’infermiera, ancora non troppo convinto. Nel frattempo l’anziano patriarca aveva smesso di farneticare e da bravo paziente ingeriva la medicina somministratagli dalla signorina O’Connor. «Non importa, Green. Lo abbiamo trovato. – La giovane donna carezzò il volto rugoso di Adolar con tocco delicato, poi riprese: - Si sente bene, signore? »
Nell’aria si levò un mugugno lamentoso, segno che Adolar Malfoy seguitava a sragionare. Presolo a braccetto, Hilda lo condusse giù per le scale, sussurrandogli gentilmente parole sincere.
Ma un urlo rapido, profondo e bieco ruppe la tensione, che sembrò abbattersi sul terreno e frantumarsi in mille pezzi con un riverbero cristallino. Non sarebbe stato un urlo tanto eclatante se fosse uscito dalle labbra di Adolar, anziché dalla stanza delle armi.
La tensione aumentò palpabilmente, tanto che Hilda sentì mulinare nel proprio cervello pensieri burrascosi. Dinnanzi a lei, scorse il maggiordomo impietrito dallo strillo, e nel medesimo istante le labbra di Adolar che si congiungevano. Nelle vene degli astanti il sangue fluiva veloce e raggelato. Dimenticando comprensibilmente ogni divieto, l’infermiera, abbrancata dal terrore, abbassò la maniglia. Ai suoi occhi si presentò uno spettacolo raccapricciante.
Sotto la stampa cinese di un delicatissimo gelsomino, Lysiart Malfoy aveva trovato il suo luogo di riposo. Ma si era addormentato nella peggior maniera concepibile. Il suo addome era ridotto in pezzi, fracassato fino alle costole, e stillava rivoli di sangue che gli impiastricciavano gli abiti. Un’espressione di limpido orrore era dipinta sul suo volto cadaverico, male aderente col collo squarciato, e le pupille azzurre, che ormai non emettevano alcun bagliore, apparivano dilatate, come a causa di uno sgomento improvviso. Una sorta di ghigno malizioso deformava la parte inferiore del viso. Era forse la smorfia di un urlo, un urlo che l’uomo, mentre il panico lo inghiottiva ingordamente, non era stato in grado di lanciare. Dinnanzi alla salma, come in preda ad una trance dello spirito, Abraxas Malfoy. Era rimasto quasi impassibile, come di suo solito, nonostante gli arti e la testa sembrassero paralizzati. Hilda sentì tanto crescere l’apprensione che dovette distogliere lo sguardo per non perdere i sensi. D'improvviso il silenzio si era fatto pesante, insopportabile, gravissimo, e sembrava far pressione sui timpani con violenza inaudita. Green boccheggiò, si avvicinò frettolosamente ad Abraxas e, in sua vece, diede disposizioni: «Chiamate in fretta Megan Malfoy! Il signor Lysiart è stato assassinato.»
Nessuno osò allontanarsi dalla stanza. Erano tutti soggiogati dallo sguardo incantevole del defunto.
Fu solo dopo un momento di sconquasso che Abraxas tornò del tutto in sé e corrugò la fronte in una smorfia di ribrezzo.
«Lasciate Megan al suo posto. Non porterebbe altro che impaccio.»
Adolar crollò sul muro, comprendendo la situazione pur nella sua follia, raschiando la vernice dalla parete come un uomo agonizzante che non voglia abbandonare le gioie terrene; Hilda affondò nelle mani un urlo di raccapriccio.br> «Non toccate nulla. – disse Abraxas, con una calma che stupì i presenti. – Ho discusso con mio fratello meno di un’ora fa, in mezzo ai ruderi. Non può essere deceduto prima di quell'orario.»
«Perché si trova qui, signore?» azzardò Green. «Sono entrato dalla porta che dà sul disimpegno.» rispose Abraxas, considerando la domanda legittima. «Questo avvenimento, - ribatté Green in tono confidenziale, - porterebbe a rivalutare la morte di Rachele Malfoy.» L'evento cui il maggiordomo alludeva era avvenuto il 14 Novembre dell’anno precedente, il 1954. Stando alle indagini, la donna, rampolla di una famiglia decaduta e andata in sposa all’ormai defunto Lysiart Malfoy, si era lasciata cadere dall’ultimo piano del Manor. Con lei aveva perso la vita il bimbo che portava in grembo. Le cause del suicidio non erano mai venute a galla. Diverse volte Lysiart aveva fatto accenno alla depressione cui sua moglie era soggetta. Malgrado lo sconvolgimento prodotto dalla morte improvvisa, la vicenda era caduta in poco tempo nel dimenticatoio.
«Non c’è un assassino a Malfoy Manor. Non è concepibile!» esclamò l'infermiera, la mano ancora sospesa dinnanzi alla bocca aperta.
«Oh, io… Temo di doverla contraddire, signorina...»
Dalla semiluce dell’anticamera era sbucato Zephyrus, il bibliotecario, lanciando occhiata pavide al cadavere, inorridito dalla vista del sangue e del corpo senza vita. Avanzò nella stanza delle armi con fare esitante, e raggiunse il crocchio di uomini assiepati attorno al morto, prima di riprendere a parlare: «Nessuno è venuto al Manor nel pomeriggio, nessuno si muoverebbe di casa con questo tempo. Senza dubbio l'omicida si è tra noi.
«Una fine atroce, il buon vecchio Lysiart.»
Si udì un rumore secco proveniente dal camino di fronte. Il vento si era insinuato nella canna fumaria, come a voler sancire la drammaticità e accrescere il pathos di quella sciagurata sera di Aprile.
Abraxas scosse la testa, costringendosi a rimanere calmo. «Sapevo che si sarebbe messo nei guai, prima o poi.»
«Abraxas! - urlò Hilda, scuotendo la testa, accorgendosi solo in ritardo di aver chiamato il padrone per nome. - Non parli così. Non adesso.»
Il volto dell’uomo rimaneva granitico. «Sto cercando di risalire a un possibile movente, invece di boccheggiare in maniera ridicola.»
Profondamente ferita, Hilda singhiozzò e sgusciò via, mentre Adolar arrancava al suo seguito.
Il maggiordomo si incaricò di avvertire gli altri abitanti di Malfoy Manor e lasciò la stanza. Quasi contemporaneamente, una donna esuberante, con capelli grigio fumo e occhi chiari, abbigliata in modo sobrio, entrò dalla seconda porta, quella per cui era passato Abraxas. Sia quest’ultimo che Zephyrus la riconobbero come Laureen Mallory, una vecchia cugina dei Malfoy, che, essendo caduta in disgrazia, non aveva più un soldo per vivere, e riusciva a campare solo grazie agli aiuti di Adolar. La sua camera si trovava non lontano dalla stanza delle armi.
Non appena scorse il cadavere, il suo bel viso fu alterato da un indicibile terrore.
«Lysiart! - esclamò stupita. – Gli hanno fracassato il ventre!»
Al terrore si sostituì uno scoppio di singulti e gemiti.
Zephyrus si strinse nelle spalle, preferendo, come Green, lasciare la camera. Abraxas e Laureen Mallory rimasero attoniti dinnanzi al cadavere.
«Ne so quanto te, Laureen.» esordì il fratello dell'ucciso, prevenendola.
La vecchia cugina annuì. «Oh, povero Lysiart! L'ultima cosa che mi aspettavo da questa giornata grigia era la morte di mio cugino.» Soffiò il naso su un fazzoletto di seta, continuando a gemere senza tregua.
«Non posso fare a meno di pensare che anche Rachele sia stata uccisa. In ogni caso, c'è un assassino interno alla casa.» disse Abraxas, le mani ai fianchi.
Calò il silenzio. Solo dopo un lungo minuto di pianto, Laureen riprese fiato.
«La pratica dell’harakiri prevede il fracasso dello stomaco. Sicuramente qualcuno l’ha usata su Lysiart.» esclamò la cugina.
«Harakiri?» ripeté Abraxas.
«E’ una tipologia di suicidio molto diffusa in Oriente: fa parte della legge dei samurai. - confermò Laureen, tirando su col naso ed evitando di fissare il cadavere. - I nobili guerrieri che hanno compiuto un’infrazione, o coloro i quali non vogliono andare incontro ai nemici, si spezzano l’addome, e poi da un compagno vengono decapitati, per far sì che il loro dolore, sfociante nel dissanguamento, non produca troppe sofferenze. Nel caso di Lysiart, qualcuno deve averlo immobilizzato. Dopodiché gli ha sfracellato le ossa dell’addome e l’ha lasciato moribondo. A meno che, - disse Laureen – non abbia deliberatamente scelto un suicidio tormentoso.»
«Nessun uomo si suiciderebbe in questa maniera. Tanto meno Lysiart.»
«So che è così, - ammise la cugina. - Ma ho la mente annebbiata dal dolore e dalla paura.»
Osservarono la stampa cinese del gelsomino che sovrastava il corpo morto.
«Più la guardo, più quell’immagine appesa al muro mi fa venire in mente una poesia che Lysiart aveva scritto. - notò Abraxas. - L’avevo trovata per caso sulla sua scrivania. In un primo momento non voleva che la leggessi, sostenendo che mi sarebbe risultata incomprensibile. Non ricordo più i versi, ma parlava di angoscia, profumi e fiori. Se non m'inganno, la elaborò dopo il suicidio di Rachele.»
Laureen chinò la testa, sopraffatta nuovamente dal dolore. Il suo respiro fu tagliato di netto da un gemito, e nuovamente la donna singhiozzò, guardando di traverso Lysiart come per trovare un senso a quell'assurdo rompicapo.
Il vento sferzò rabbioso, infiltrandosi nelle fessure della grande casa, rimbalzando e rimbombando cupo. La coltre di nubi si ispessì, divenendo fosca come l’interno di una campana nera. Quello fu, per gli abitanti, un colpo durissimo, destinato a mettere scompiglio in una casa nella quale l'armonia era stata minata già da tempo e la discordia serpeggiava infidamente nei cuori.




Eccovi il secondo capitolo! Un grazie particolare a:
Honey Evans: Su Abraxas non posso dire nulla, se non che hai colto quello che volevamo mostrare in questo capitolo. Grazie mille per la tua recensione!

Thiliol: Siamo contenti che l'epoca scelta ti piaccia! E che tu attenda con ansia il secondo capitolo!

Brilu: Siamo lieti che le descrizioni siano state efficaci! Sia quelle meteorologiche, che quelle di Malfoy Manor, così come siamo contenti che tu abbia colto come già adesso il mistero che aleggerà sulla storia. Hai capito perfettamente la differenza tra i due fratelli. Quanto alla reazione di Abraxas alla scomparsa del padre, ci chiudiamo in un rigoroso silenzio! Grazie mille anche per i complimenti sui nomi dei personaggi! Sappici dire cosa ne pensi di questo nuovo capitolo. P.S.: i capitoli li scriviamo uno a testa, ma ogni minima scelta la conduciamo insieme.

Madamina: Ti ringraziamo per i complimenti! Siamo contenti che tu dica che la fic promette bene fin dal primo capitolo! Speriamo vivamente che la tua impressione iniziale venga confermata dai capitoli successivi.

Un grazie a chi ha messo la storia tra i preferiti e a chi legge soltanto.

  
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