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Autore: liserc    16/06/2008    0 recensioni
Questa è la storia di Rebecca McLowers, una giovane che è destinata a morire, direbbero i cantastorie. Destinata a morire. Buffo, tutti lo siamo, ripeto. Eppure la morte può essere così sconcertante, per chi, ignaro, desidererebbe morire nella vecchiaia, e non nel fiore della propria giovinezza.
Tengo molto a questa storia, quindi vi prego di essere onesti nel commentare. Criticate anche le cose più piccole, ve ne sarò grata. ^.^
Per il momento il rating è Verde, ma potrebbe alzarsi! ;D
Genere: Generale, Commedia, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La Rosa della Morte

Capitolo 00; Prologo

Il primo approccio con la protagonista e la scoperta del suo male.

Il mio nome è Rebecca McLowers. Sono nata in una piccola città dell’Inghilterra nel 1823, esattamente vent’anni fa.

La mia vita, a partire da quando non ero altro che una bambina, è sempre stata monotona, nella sua inusualità.

Fin da quando ho memoria, sono sempre stata circondata dalle attenzioni di mia madre e di altre donne, che spesso vedevo spesso solo per il tempo necessario ad affezionarmici.

La mia infanzia l’ho vissuta segregata in una villa isolata e spoglia, avvolta in un paesaggio di brughiera che mia madre usava definire «Il tuo paradiso personale».

Per quello che mi riguarda, odiavo e odio tutt’ora il luogo dove sono costretta a vivere, il paesaggio brullo e desolato che fa da sfondo alla mia vita, e mia madre, con quel suo modo sciocco di cercare di distrarmi dal mio destino.

Fin da quando sono nata, infatti, sono destinata alla morte. Che c’è di strano, direte voi? La morte è una conseguenza della vita ovvia, in quanto nessuno può vivere per sempre.

Ma immaginatevi la vostra morte: in un letto, caratterizzati dai capelli ormai bianchi come la neve, il volto cosparso da una ragnatela di rughe. Magari con parenti e amici al vostro capezzale, lacrime e disperazione e via dicendo. Insomma, tutto quello che qualcuno sognerebbe come morte… Qualcuno sano di mente, almeno.

Ora immaginate la mia morte. Un giorno, neanche io so dire quando, così, d’improvviso, ovunque io sia, qualsiasi cosa io stia facendo, comincerò a sentire un dolore lancinante. E quest’agonia durerà fino al giorno della mia morte, che potrà distare minuti, giorni, ma anche anni.

Come diavolo puoi spiegare una cosa del genere ad una bambina di quattro anni? Mia madre l’ha fatto. Un giorno – è ancora ben impresso nella mia mente -, mia madre ha avuto il buon gusto di dirmi tutto ciò, per poi aggiungere quattordici anni dopo, il giorno del compimento dei miei diciotto anni, che la causa di tutto ciò era lei.

Questo ha definitivamente segnato la rottura fra me e mia madre, cosa che lei ha preso in maniera inaspettata: ha urlato, pianto, mi ha pregata di capirla. Io l’ho fissata a lungo, imperturbabile. Il giorno dopo ha fatto le valigie ed è sparita oltre il cancello di ferro battuto che delimita i confini del giardino di casa mia.

Da allora vivo in questa casa con l’unica compagnia dei domestici e della mia gatta, assieme alla sua cucciolata. Ormai ho vent’anni, e dal giorno della partenza di mia madre sono passati più di due anni; ciò nonostante ogni giorno ripenso alla scelta presa quella mattina, e sorrido, compiaciuta da me stessa. È stata senz’ombra di dubbio la decisione più appropriata.

Ma torniamo al discorso principale, quello per cui immagino voi vi siate incuriositi. Io dovrò, quindi, un giorno, morire. Tutti vi chiederete il perché di quest’assurda situazione, che mi conduce verso un’agonia lunga e dolorosa, che vede come unica fine la morte. Ebbene, il tutto è facilmente racchiudibile in un discorso breve e conciso.

Mia madre, poco prima della mia nascita, s’invaghì di un uomo straniero, che l’ammaliò con il suo modo di fare non consono all’attualità inglese. La pelle ambrata e non pallida come quella dei nobiluomini dell’epoca, gli occhi scuri e brillanti, il sorriso ammaliante, e la borsa piena di strani oggetti provenienti dal continente povero, l’Africa.

Mia madre, a quell’epoca, era promessa ad un uomo: James Geoffred Arcibald McLowers, mio padre. Ciò non le impedì, ovviamente, di perdersi in una notte d’amore con lo sconosciuto, che si rivelò più tardi essere uno stregone.

Oh, andiamo, vedo i sorrisi dipinti sui vostri volti: uno stregone? Tutti sappiamo bene che non esistono!

Illusi! Leggete ogni giorno storie di fantasia che parlano di streghe e maghi, e ancora oggi non credete alla loro esistenza?

Ebbene, continuando con il racconto; mia madre, dopo questa notte passata con quell’uomo, si rifiutò di seguirlo nei suoi viaggi. Egli, infuriato, impose una maledizione sulla dinastia che sarebbe discesa da mia madre, Margareth Demminton. Le diede un fiore, una rosa rossa.

Sorridendo maligno le comunicò che, al cadere dell’ultimo petalo di quella piccola pianta, la sua erede sarebbe morta.

Alcuni mesi dopo mia madre restò incinta di me. Inizialmente non aveva creduto a ciò che l’uomo le aveva detto, e aveva conservato la rosa per qualche ignota ragione, anziché distruggerla immediatamente.

Quella continuava a vivere, senza accennare ad appassire, cosa consona ad ogni rosa di questo mondo. Fu forse questo a preoccupare maggiormente mia madre, che alla mia nascita, un anno dopo l’incontro con lo sconosciuto, si ricordò della maledizione impostale da quello strano individuo.

Durante la mia prima infanzia, quando io avevo appena due anni, suo marito, l’uomo che avrebbe dovuto crescermi e farmi da padre, perse la vita. Morì di scarlattina, malattia facilmente contraibile nelle città della mia epoca, ormai ricoperte da una scura cappa di smog industriale, caratterizzate dalle vie piccole e piene di acqua ristagnante.

Dopo questo tremendo lutto, che sconvolse mia madre in modo irrecuperabile, ella decise di trasferirsi nella magione di famiglia, che si trovava a cento miglia da Londra, in un piccolo paese di campagna, dove l’aria non era ancora stata inquinata dalla pazzia dell’uomo.

Mi crebbe lì, lontana dalla civiltà, impedendomi di uscire dal cancello nero che segna il limite della mia vita.

Diciott’anni ho dovuto aspettare, prima di vedere il paese natio di tutte le persone che mia madre accoglieva in casa, come sguattere, cuochi, istruttrici severe e impassibili.

Alla scomparsa di mia madre, presi la decisione di visitare almeno quell’ignoto paese che mi pareva fatto di una realtà diversa da quella in cui vivevo io. Presi così una carrozza, e convinsi un giovane uomo della casa ad accompagnarmi a visitare il luogo. Dopo qualche minuto di viaggio arrivammo nella piccola piazza del villaggio, dove si stagliava la piccola chiesa. Scesi dalla carrozza con il cuore in gola: per la prima volta potevo visitare un luogo che non fossero le monotone stanze della mia villa!

La mia comparsa nel paese fu accolta da numerosi bisbigli, che crebbero in un brusio irritante per le mie orecchie, abituate alla pace della solitudine. Mi guardai attorno, imprimendo nella mia mente il ricordo di quel paese che mai più avrei rivisto.

Irritata dal comportamento dei paesani, risalì velocemente sulla carrozza, per tornarmene immediatamente al luogo da cui ero venuta. Lì mi rinchiusi, attorniata semplicemente da pochi fidi domestici, che vivono con me ancora adesso.

Questa, dunque, è la mia storia. Testimone è la piccola rosa che tengo al riparo sotto una campana di cristallo, posata sul comò che si trova accanto al mio letto, nella mia camera.

Questa è la storia di Rebecca McLowers, una giovane che è destinata a morire, direbbero i cantastorie. Destinata a morire. Buffo, tutti lo siamo, ripeto. Eppure la morte può essere così sconcertante, per chi, ignaro, desidererebbe morire nella vecchiaia, e non nel fiore della propria giovinezza.


Ed eccomi qui. È solo un’idea che mi è passata in mente mentre rileggevo una frase che ideai tempo fa. Non so ancora come procederà, o meglio, un’idea ce l’ho ma non è ancora ben definita. So che vorrei farne una storia a capitoli anche piuttosto lunga, ma il tempo e gli impegni non so fino a che punto me lo consentiranno. Bene, detto ciò, vi lascio.

Ah, un’ultima cosa: questo corto prologo è in prima persona, ma i capitoli seguenti saranno sempre narrati da un terzo ;).
  
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