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Autore: syontai    12/02/2014    12 recensioni
Un mondo diviso in quattro regni.
Un principe spietato e crudele, tormentato dai fantasmi del passato.
Una regina detronizzata in seguito ad una rivolta.
Una regina il cui unico scopo è quello di ottenere sempre più potere.
Un re saggio e giusto da cui dipendono le ultime forze della resistenza.
Una ragazza capitata per il volere del destino in un mondo apparentemente privo di logica, e lacerato dai conflitti.
Una storia d'amore in grado di cambiare le sorti di una guerra e di tutto questo magico mondo.
This is Wonderland, welcome.
[Leonetta, accenni Pangie, LibixAndres e altri]
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leon, Un po' tutti, Violetta
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Capitolo 23

Podemos

Le lacrime scorrevano più veloci di quanto correva. Avrebbe voluto fermarsi, capire dove stesse andando, ma la visuale gli risultava sfocata, e i piedi non avevano intenzione di ascoltarla. Come aveva potuto trattarla in quel modo? Si era sentita ferita: il modo in cui le si era rivolto, lo schiaffo che aggiungeva un’umiliazione fisica a quella provocata dalle sue parole. Tutto aveva improvvisamente perso un senso, e sebbene avesse creduto che in fondo Leon potesse nascondere un animo generoso e bisognoso d’amore oltre quella scorza dura e ruvida, adesso si rendeva conto di aver sbagliato. O meglio, forse Leon avrebbe potuto cambiare, ma non con lei. Un giorno avrebbe potuto incontrare davvero la persona in grado di rivoluzionare il suo essere egoista e crudele, ma quella persona non portava il suo nome. Non era Violetta. Andò a sbattere contro qualcuno involontariamente, e sperò con tutto il cuore che non fosse Lena: non voleva farsi vedere in quello stato pietoso. Peggio ancora sarebbe stata Lara, che avrebbe potuto solo ridere di fronte alle sue lacrime. “Ma che modi!” borbottò colui che sfortunatamente, o nel suo caso fortunatamente, si era messo involontariamente sulla sua strada. “Scusi, io…”. Ma le parole furono interrotte dai singhiozzi provocati dal pianto. “Violetta! Ma cosa…stai piangendo?” chiese Thomas, riscossosi dal colpo, e recuperando l’orologio dorato che era caduto a terra durante lo scontro. Controllò che fosse ancora funzionante, quindi lo inserì nella tasca del giacchetto, lasciandolo ticchettare al suo interno. “N-no” cercò di dissimulare la ragazza, asciugandosi prontamente il viso con la manica del vestito. Gli occhi arrossati e lucidi per il pianto erano tuttavia impossibili da nascondere. “Cos’è quel segno rosso? Chi ti ha fatto questo?”. Thomas si avvicinò premuroso, mentre i brividi si impadronivano del suo corpo. Sapeva cosa volesse dire provare del dolore fisico, sapeva cosa volesse dire quando nemmeno il tuo corpo ti appartiene più. Sapeva cosa volesse dire perdere qualsiasi tipo di libertà. Violetta si portò la mano alla guancia, e abbassò lo sguardo intimidita: “N-niente, non è niente”. Thomas scosse la testa, quindi le sollevò delicatamente il viso scoprendo il segno rosso. “E’ stato Leon, vero?”. Nessuna risposta. “E’ stato Leon” si rispose con aria stanca. “Quell’uomo è una bestia! E’ un animale” aggiunse dopo furioso. “Devi stargli lontano, per il tuo bene. Leon non è in grado di controllarsi, a volte, ma cerca di capirlo, lui…”. “Lui?” chiese Violetta, cercando di soffocare i singhiozzi. “Lui ha passato alcune situazioni orribili. Non lo giustifico per il suo comportamento, lo capisco” disse Thomas, per poi abbracciarla forte. Violetta si lasciò cullare dalle braccia esili del giovane. Era tutto molto diverso: sentiva un fievole e confortante tepore, ma non era nulla di paragonabile alle fiamme vive che provava anche solo perdendosi per un secondo negli occhi di Leon, nel verde oscurato da una perenne ombra misteriosa. E per quanto cercasse di odiarlo, non ci riusciva, qualcosa glielo impediva. “Ti aiuterò a fuggire da questo posto maledetto, te lo prometto” concluse il ragazzo, stringendola più forte. Violetta annuì debolmente e scoppiò finalmente a piangere liberamente. Sperava di poter uscire da quella prigione il prima possibile, non ce la faceva più. L’unica persona che avrebbe potuto trattenerla era la stessa che l’aveva ferita così profondamente, e adesso non le era rimasto più nulla che la legasse a quel castello definitivamente. Le dispiaceva non poter più rivedere Lena e Humpty, ma quella era la sua scelta definitiva.
Leon era rimasto da solo nella stanza da letto, ripensando alle azioni da lui commesse. Non la smetteva di osservare quella mano, colpevole. Il senso di colpa lo stava attanagliando, sebbene la ragione continuasse a ripetergli che avesse ragione, come un disco rotto. Si mise la testa tra le mani, sentendola scoppiare, e cercò di piangere, di sfogarsi, ma non ci riusciva. Qualcuno bussò prepotentemente, interrompendo il suo dolore; riacquistò subito un aspetto fiero e distaccato, prima di dare il permesso di entrare. Lara si fece avanti lentamente, aprendo la porta: aveva gli occhi arrossati, simulando un falso pianto. “Oh, mio principe!” singhiozzò la ragazza, sedendosi al suo fianco e abbracciandolo forte. Leon rimase con lo sguardo fisso contro la parete, mentre la ragazza continuava a dirgli quanto male avesse fatto a fidarsi di quella serva, che invece vedeva in lui solo un oggetto di scherno. “Ti ha preso in giro. Sempre! Non come me…” gli sussurrò, diventando improvvisamente audace. Si abbassò la spallina del vestito, convinta che il principe avrebbe ceduto al richiamo di un dolce conforto, e così fu. Leon non capì più nulla, si voltò verso di lei, e la baciò selvaggiamente: non c’era amore o passione in quel bacio, solo un profondo bisogno di dimenticare, e ancora una volta Lara si stava prestando a quello scopo nel modo più squallido possibile. Continuarono a baciarsi, arretrando sul letto, e si trovò sopra di lei, senza quasi più comprendere come avesse fatto. La ragazza, gli accarezzava il volto, ma per lui non significava nulla: era come se al posto delle mani di Lara ci fosse uno spiffero inconsistente. Era debole, ferito, vulnerabile, tutto ciò che odiava essere, e la sua unica consolazione risiedeva nel corpo di Lara. Si separò per prendere aria, e abbassò lo sguardo per slacciarsi la cintura velocemente, e togliersi i pantaloni, ma quando lo rialzò si scostò terrorizzato. Per un momento, un maledetto istante, aveva avuto l’impressione di scorgere il viso puro ed innocente di Violetta al posto di quello compiaciuto di Lara. Cominciò a sudare freddo, mentre la ragazza, non rendendosi conto del suo stato d’animo stava cercando di togliergli rapidamente la maglia. Tentò di baciarla nuovamente, ma ancora la sua mente gli giocò lo stesso scherzo; quello che doveva essere un modo per dimenticare stava diventando un incubo. “No!” esclamò deciso alla fine, allontanandosi e sedendosi al bordo del letto, incapace di credere a quello che stava facendo. Il vecchio Leon non avrebbe mai perso un’occasione del genere, non si sarebbe lasciato fermare in alcun modo, avrebbe dato sfogo a tutti i suoi istinti e bisogni. Ancora una volta Violetta gli stava mettendo i bastoni tra le ruote, e non riusciva ad accettarlo. “Leon, che ti succede?”. La voce di Lara, quasi stridula, venne avvertita da lui come dolce e melodiosa. Era la voce di Violetta che lo stava chiamando. Sembrava una maledizione quella che stava vivendo: destinato a rivedere in ogni persona l’oggetto della sua crudeltà…aveva un amaro sapore di favola, eppure lo stava vivendo in quel preciso istante sulla sua pelle. “Vattene, ti prego” la implorò, cominciando a tremare come una foglia. Quando sentì la mano di Lara toccarle la spalla, abbandonò la lucidità e si voltò verso di lei furioso: “Vattene, ho detto!”. La ragazza rimase sconvolta da tale reazione, e annuì debolmente, rivestendosi al meglio, e correndo fuori dalla stanza. Non ce l’aveva fatta, aveva la fallito la prova, che una volta superata gli avrebbe dimostrato che non era affatto cambiato. Si buttò sul letto, dando finalmente libero sfogo alle sue emozioni: rabbia, lacrime, odio, disprezzo e…amore. Qualcosa di assolutamente nuovo che non sapeva come trattare, ma che sentiva ormai parte di sé.
Il sole era alto all’orizzonte, con la sua luce mattiniera, quando Violetta si presentò in biblioteca. Proprio come aveva supposto, Leon non era nei paraggi, e questo la consolava non poco. Humpty era immerso in qualche sua solita lettura, ed alzò il capo non appena ebbe sentito la porta aprirsi. “Buongiorno” salutò allegramente, abbassando gli occhialetti per studiare la persona appena entrata. Si rese subito conto che qualcosa non andasse, e infatti si alzò preoccupato richiudendo il libro di botto. “Che cosa ti è successo?” chiese, notando che Violetta cercasse di nascondere qualcosa con la mano all’altezza della guancia. “Niente…sono solo stanca. Molto stanca, e…”. Humpty le diede una botta al braccio costringendola a mostrargli quello che adesso era diventato un livido di un tenue colore violaceo. “E’ stato Vargas?” chiese con voce incolore. Violetta non rispose, ma abbassò il capo, mordendosi il labbro inferiore incerta. Gli occhi di Humpty, di quel rassicurante azzurro acquoso, ardevano di rabbia. Sembrava un’altra persona, tanto gli tremavano le mani strette in pugni saldi come l’acciaio. “Figlio di una meretrice!” imprecò l’anziano, montando su tutte le furie. “Humpty!” lo riprese sconvolto, non avendo mai sentito un insulto provenire dalla bocca del pacifico uomo-uovo. “Ma questa volta mi sente” sbottò il bibliotecario, infilando gli occhiali per la lettura nel taschino della giacca, e correndo talmente veloce fuori dalla stanza sulle sue gambe piccole ed esili che sembrava sarebbe finito a rotolare da un momento all’altro. Violetta voleva seguirlo per fermare quel folle proposito che aveva avuto Humpty. Aveva paura che se la sarebbe potuta prendere anche con il povero uomo-uovo, e non voleva che accadesse.
Leon stava tranquillamente facendo colazione, anche se il cibo aveva un odore nauseante. Tutto aveva un odore nauseante quel giorno, perfino la sua stessa presenza. Non aveva chiuso occhio tutta la notte, ripensando al vergognoso gesto che aveva segnato la sua colpa. Quello schiaffo gli era uscito dalla parte peggiore del suo essere, e non sapeva se sarebbe stato capace di perdonarselo. Nonostante il ricordo del busto distrutto continuasse a tormentarlo, non poteva negare che il suo tentativo di rompere ogni rapporto con Violetta stava miseramente fallendo. O meglio, materialmente era riuscito ad allontanarla, a farsi temere come un tempo, ma dentro sentiva che i sentimenti per quella ragazza non si erano solo duplicati, ma addirittura si erano triplicati. E quella morsa non accennava ad allentare la sua presa, anzi, più il tempo passava più la situazione peggiorava. Cominciò a giocare con il cibo sul piatto, muovendo la forchetta con un moto circolare, e guardando il tutto in modo distaccato. L’uovo lo guardava colpevole, mentre la pancetta sembrava indicarlo allo stesso modo. Perfino il cibo lo giudicava adesso. “Non è stata colpa mia” sibilò rivolto al piatto, ben consapevole di stare parlando da solo. Un cameriere gli rivolse un fugace sguardo confuso, quindi tornò a fissare davanti a sé, immobile come una statua, in attesa di un qualsiasi ordine. Leon alzò gli occhi e si ritrovò a fissare il suo riflesso sulla caraffa argentata posta di fronte. Gli occhi incavati, il viso pallido come la luce lunare…non si riconosceva più. Una notte senza dormire lo aveva ridotto in uno stato pietoso. Aveva anche la carnagione più olivastra del solito, dovuto alla sua alimentazione quasi del tutto assente e disordinata. Aggiungendoci anche gli allenamenti che quel giorno lo aspettavano si chiedeva se sarebbe arrivato alla fine di quella dura giornata. Le porte si spalancarono e Humpty avanzò velocemente. Leon alzò un sopracciglio: il vecchio bibliotecario non lasciava mai il suo regno di libri, se non per un motivo della massima importanza. “Humpty” salutò con voce spenta il giovane, alzandosi e facendo cenno alla servitù di lasciarli da soli. Aveva proprio bisogno di un amico, qualcuno su cui fare affidamento per superare la terribile delusione. Quando anche l’ultimo cameriere fu uscito, si sciolse in un sorriso triste, a si preparò per sentirsi ricevere parole di conforto di cui aveva un disperato bisogno. “Leon Vargas! Tu sei un mostro” esordì Humpty indiavolato. Il sorriso gli morì sul volto, e fu presto sostituito da una sorta di smorfia. “Come ti sei permesso, eh? Come anche ha solo potuto pensare di alzare le mani su Violetta? Mi disgusti, come amico e come essere umano” continuò imperterrito, senza quasi nemmeno prendere fiato. “Ma, amico…” cercò di spiegarsi Leon, invano. “No, Leon! Io per te non sono più un amico, sono solo un vecchio conoscente…io non intendo avere più nulla a che fare con te! Pensavo che grazie a quella ragazza saresti cambiato, avresti imparato qualcosa sull’umiltà, sull’amore, e invece siamo punto e a capo! Che razza di uomo è colui che non è in grado di provare un sentimento d’affetto? Dimmi: che razza di uomo è?”. Il principe indurì la mascella, ispirando lentamente. Quelle parole non facevano altro che rendere più dolorosa la ferita che sentiva alla base del petto. “Non lo so, dimmelo tu” disse sprezzante, incrociando le braccia, e mostrando così la sua ostilità. “La risposta che mi sarei dovuto aspettare da un ragazzo arrogante come te, che pretende di capire tutto meglio degli altri. Ma ti avviso: forse ho sbagliato a riporre fiducia in te, ma di certo non sbaglio nel voler proteggere l’unica persona che non è stata inghiottita dall’oscurità di questo posto, che nonostante tutto ha mantenuto il sorriso e una vitalità che mi fanno quasi ringiovanire. Tu prova ancora a muovere un dito per farla soffrire, e parola dell’ultimo Uomo-uovo non avrò pace finché non avrò ottenuto vendetta”. “Mi stai forse minacciando?” chiese Leon, infastidito. “No, sto solo prendendo le giuste precauzioni perché un evento del genere non si ripeta”. “Non puoi darmi ordini, vecchio. Sono io che comando qui dentro” ghignò il principe Vargas, recuperando la sua autorità. Humpty resse il suo sguardo crudele, quindi si voltò pensando di aver detto tutto. “Ti stai sbagliando sul suo conto” lo fermò il ragazzo, poggiandogli una mano sulla spalla. “Lei ha distrutto tutto ciò che provavo cancellando il ricordo di mio padre. Ha distrutto il busto nella sala dei trofei”. “Penso che sia tu a sbagliare se la credi capace di una cosa del genere” disse l’altro. Il tono di Leon si fece quasi supplichevole all’improvviso, cercando un appoggio: “Mi ha ferito profondamente”. “Ti infliggi ferite non necessarie. Hai forse parlato con lei? Le hai chiesto spiegazioni? No, Leon, perché in fondo a te piace soffrire, ne provi un sadico piacere. Soffrendo pensi di essere sempre tu la vittima, di essere l’incompreso…Ma io ti comprendo benissimo e la tua rabbia insensata è dettata solamente dalla paura che stavi provando nell’innamorarti. Appena hai potuto hai fatto un passo indietro, come il più vile dei conigli”. “Io non sono vile!” sbottò il principe offeso. “Lei ha distrutto ciò a cui più tengo”. “Il che è tutto da provare…e se anche fosse? Lei ti stava donando ben di meglio di un semplice pezzo di pietra! Continuo a ripetere che non la credo capace di un atto del genere. Non farebbe mai una cosa così volontariamente. Può essere stato anche un incidente…e a quel punto che faresti? Metteresti tutto da parte per un incidente? Metteresti da parte l’affetto che lei ti ha donato incondizionatamente, senza che tu gliel’avessi chiesto, senza che te ne fossi dimostrato degno? Se fossi in grado di comportarti in questo modo, allora in te non c’è nulla che mi permetta di chiamarti uomo. Il passato è stato doloroso, lo so quanto te, ma non permettere che delle pietre rovinino qualcosa di tanto forte e bello. Non permettere al vecchio Leon di prendere il sopravvento su quello che io vedo essere il vero Leon. So che senti il senso di colpa per le tue azioni, e che in fondo sei pentito”. Leon arretrò lentamente. Si sentiva come un libro aperto per quell’uomo: indifeso come un libro tra le sue mani. Humpty sfogliava le pagine avidamente e ne leggeva il contenuto, leggeva le sue emozioni come solo un’altra persona era ormai in grado di fare. E ancora una volta il pensiero di Violetta tornò con prepotenza nella sua mente. “Cerca di capirmi, non posso. Sarebbe come insultare la memoria di Javier Vargas…”. “Se queste sono le tue ultime parole, allora la conversazione tra noi è finita” concluse duramente Humpty, rivolgendogli uno sguardo severo e comprensivo allo stesso tempo. Era lo sguardo di un padre, quel padre che non aveva mai avuto. Lo vide allontanarsi, il braccio ancora teso in aria, senza fare nulla per fermarlo nuovamente.
Thomas raggiunse Violetta nella biblioteca e i due cominciarono a parlare tranquillamente. Violetta doveva molto a quel ragazzo: cercava in tutti i modi di non farle pensare a Leon, e dovette ammettere che stava facendo un ottimo lavoro. Le risate dovute alla buffa caduta del ragazzo da una delle scale che portava ai ripiani più alti per qualche minuto avevano offuscato i tristi pensieri sul suo futuro in quel castello. “Invece di darmi una mano, lei ride!” scherzò il ragazzo, tirandosi su con un balzo, e facendole la linguaccia. “Scusa, ma eri talmente buffo!” ribatté Violetta con le lacrime per il ridere. “Macché buffo e buffo, io sono terribile. Interi eserciti si ritirano alla mia vista” continuò Thomas, dandosi alcune pacche sui pantaloni. “Senti…ma perché invece di stare qui dentro, al buio e in mezzo ai libri polverosi, non andiamo a farci una bella passeggiata?” propose poi, indicando le vetrate che promettevano una giornata soleggiata e ventilata. Violetta guardò incerta il paesaggio, lasciandosi tentare dai rami degli alberi che frusciavano invitanti, mossi da un leggero venticello. “Vorrei davvero, ma dovrei finire di pulire ancora quella sezione” disse indicando una parte della biblioteca. Una lunga libreria posta in fondo mostrava con dei minuscoli caratteri dorati la scritta ‘Animali fantastici e trappole mortali’. Thomas sbiancò di colpo: “Non ti conviene avvicinarti a quel postaccio!”. “Come mai?” domandò curiosa Violetta. “E’ solo che…l’ultima volta ci hanno trovato una tarantola enorme…non vorrei che ti spaventassi anche tu” balbettò lui, cominciando a picchiettare impaziente per il nervoso. “Comunque non posso uscire, devo finire un sacco di cose che…”. “Che posso tranquillamente fare io”. La voce di Humpty apparve lontana, e il bibliotecario in persona sbucò fuori da una libreria. “Ma non posso lasciarti questi lavori!”. “Certo che puoi! Oggi sarà meglio che ti divaghi un po’”. Le fece un occhiolino rassicurante, e alla fine la giovane, con qualche riserva, accettò.
Le piaceva passeggiare in compagnia di Thomas: insieme ridevano e scherzavano come due che si conoscevano da una vita, ma temeva di illuderlo. Il modo in cui la guardava ben si discostava da quello di un semplice amico; lo sguardo di un innamorato perso era difficilmente confondibile con altro. Però sembrava comunque rispettoso nei suoi confronti, non faceva alcuna pressione, semplicemente stava al suo fianco nella speranza che lei incoraggiasse i suoi sentimenti. “Mi piace stare a contatto con la natura” sorrise Violetta; alzò lo sguardo e socchiuse gli occhi accecata dal sole. “Anche a me… e in più a me piace stare con persone come te” mormorò Thomas, piuttosto imbarazzato. “Come me?” chiese incuriosita la ragazza con un sorriso. “Intendo solari, dolci…simpatiche. Insomma, in questo castello di solito ci si diverte ben poco” spiegò il Bianconiglio grattandosi il capo. Una campanula bianca sporgeva dal terreno, diffondendo il suo profumo; subito Violetta se ne sentì attratta, si chinò e la colse con cura. “Ti piacciono i fiori?”. “A chi non piacciono i fiori?” rispose naturalmente la ragazza. “Beh, alcuni fiori a me fanno venire l’allergia, non potrebbe mai piacermi in alcun modo!” ribatté Thomas. I due si guardarono per qualche secondo quindi scoppiarono a ridere. “Disturbo?” li interruppe qualcuno, con una voce fredda e distaccata. Leon era di fronte a loro, e li guardava dall’alto in basso. La mano era serrata intorno all’elsa della spada, e nessuno poteva sapere che l’avrebbe volentieri fatta calare sulla testa dell’accompagnatore di Violetta. “Nessun disturbo, principe Vargas” rispose frettolosamente il Bianconiglio facendo un lieve inchino. Violetta lo imitò suo malgrado, e sul suo viso si poteva leggere tutto il risentimento che provava per il ragazzo di fronte a lei. Leon si passò una mano sulla fronte sudata. “Avrei bisogno di un bagno caldo dopo questo faticoso allenamento. Porta gli ordini a una delle mie domestiche di farmi trovare dell’acqua calda nella vasca". “Sarà fatto”. “Bene…”. Fece saettare lo sguardo da una parte all’altra e poi si concentrò sul viso di Violetta, come se intendesse studiarlo a fondo. Cosa avrebbe dato per capire cosa stesse pensando di lui. Non che ci volesse un genio: lo disprezzava. E anche lui in parte si disprezzava per quello che aveva fatto, per le dure parole che le aveva rivolto. “Mi dispiace aver interrotto la vostra uscita…di piacere” disse, marcando bene le ultime parole. “Avete detto bene. Ogni tanto è bello poter rilassare la propria mente con persone gradite” rispose a tono Violetta, con aria di sfida, trovando quel coraggio che pensava non avrebbe mai avuto. “Deduco quindi che la mia intromissione mi renda una persona sgradita”. Lo sguardo del principe era duro, ma si leggeva qualcosa di diverso dal solito. Le sue parole erano affilate come coltelli e sembravano sfidarla ad un duello verbale. “Lo avete insinuato voi, non certo io” concluse la ragazza, inchinandosi per poi congedarsi. Thomas aveva colto la freddezza che regnava tra i due, e non poteva dimenticare il modo in cui quel ragazzo aveva fatto soffrire Violetta, quindi si mostrò altrettanto freddo e distaccato. Tutti e tre tornarono al castello, ognuno a distanza di sicurezza dall’altro, senza proferire parola. Finalmente al salone di ingresso le strade si divisero e Violetta provò una sorta di gioia nel percorrere da sola i corridoi che portavano alla sua stanza. Almeno non doveva più sentirsi lo sguardo di Leon puntato addosso come quello di un’aquila.
Era una giornata soleggiata, e le papere emettevano i loro versi striduli. Violetta era seduta e osservava la superficie di un lago, persa nei suoi pensieri quando una strana melodia le giunse alle orecchie, delicata e potente allo stesso tempo:
No soy ave para volar,
Y en un cuadro no se pintar
No soy poeta escultor.
Tan solo soy lo que soy.
Si alzò in piedi, guardandosi intorno, senza riuscire a capire da dove provenisse quella musica, unita alla voce più dolce che avesse mai sentito. Su una possente roccia ai lati del lago erano seduti due individui, uno di questi a lei ben noto. Leon era affianco a una donna vestita di bianco, dal volto coperto da un velo dello stesso colore del vestito, i capelli biondi e lisci che volavano disordinatamente. Era lui a cantare in quel modo, a donarle quella dolcezza nel cuore. Aveva paura ad avvicinarsi, ma non ne ebbe bisogno. Non appena la vide, Leon scese dal rocce sorridendo e le venne incontro.
Las estrellas no se leer,
Y la luna no bajare.
No soy el cielo, ni el sol…
Tan solo soy.
Le prese la mano speranzoso, mentre continuava a cantare, dipendente dai suoi sguardi. La fece volteggiare improvvisamente per poi stringerla a sé senza interrompere il dirompente contatto visivo che si era creato.
Pero hay cosas que si sé,
Ven aquí y te mostraré.
En tu ojos puedo ver…
Lo puedes lograr, prueba imaginar.
Era strano lasciarsi andare in quel modo. Almeno nei sogni sentiva che lei e Leon erano fatti per stare insieme; era una convinzione tanto assurda nella sua mente quanto certa nel suo cuore. “Leon…” sussurrò, mentre i loro visi si avvicinavano. Leon poggiò la fronte sulla sua, continuando a cantare.
Podemos pintar, colores al alma,
Podemos gritar iee eê
Podemos volar, sin tener alas…
Ser la letra en mi canción,
Y tallarme en tu voz.
Scolpirsi nella sua voce: era ciò che desiderava fare lei in quel momento. La donna misteriosa era ormai passata in secondo piano, anche se lei li osservava attenta. “Violetta, io ti amo” le disse il principe, sfiorandole lentamente una guancia, per poi ridurre lentamente ogni distanza. I loro corpi si attraevano irrimediabilmente, e allo stesso modo agivano le loro labbra, quasi tremanti. Quando si unirono in quel bacio tanto atteso, ogni fibra del suo essere avvertì una scossa. Violetta sentì il sapore che aveva un bacio vero, un bacio sentito da entrambi. Un bacio che assumeva solo la forma di un ricordo sbiadito nei suoi sogni, ma che lì, in quel momento, era talmente reale da poterlo avvertire.
Leon teneva in mano il pugnale sporco di sangue con sguardo inorridito. Tutt’intorno era buio, vi erano solo delle panche di legno in fila. Ma al centro della stanza giaceva riverso un ragazzo. Morto. Lì era tutto finito; con quel cadavere aveva messo fine anche alla sua vita. I tentativi di piangere erano inutili, perché la sua crudeltà glielo impediva. Gli usciva solo un pericoloso e inquietante ghigno, mentre osservava il sangue farsi lentamente strada sul pavimento. Quello era un incubo per lui ricorrente, era abituato a convivere con quel crudele passato che aveva forgiato Leon Vargas. Una mano lieve si poggiò sulla spalla, facendolo voltare di scatto con un ringhio e gli occhi iniettati di sangue. Una donna con un velo bianco e dai lunghi capelli biondi che le ricadevano ordinatamente sulla spalle, gli indicò un lato della stanza. Leon seguì la direzione che indicava il dito e dall’oscurità emerse una figura esile. “Violetta…” mormorò, lasciando cadere il pugnale a terra, che rimbombò vendicativo. “N-Non mi guardare così…” cercò di difendersi Leon, perdendo tutta la malvagità che aveva mostrato fino ad allora. Si sentiva indifeso come un bambino, e per poco non sarebbe scoppiato a piangere per il rimorso.
No soy el sol que se pone en el mar,
No se nada que este por pasar.
No soy un príncipe azul…
Tan solo soy.
Quella musica stava risuonando nella sua testa, ma nessuno intorno a lui stava cantando. Che stesse completamente impazzendo?
Pero hay cosas que si sé,
Ven aquí y te mostraré.
En tu ojos puedo ver…
Lo puedes lograr, (lo puedes lograr…)
Prueba imaginar.
Adesso invece Violetta cantava; la sua voce era limpida come l’acqua, le parole smorzavano il dolore nel cuore. Quella non era musica, era semplicemente amore tramutato in note, e non poteva sfuggire più. Perché adesso si sentiva schiavo, lui che era padrone di tutto. Si sentiva schiavo di un solo sguardo di Violetta, di un suo solo sorriso. La testa gli scoppiava, eppure i piedi si trascinavano faticosamente avanti.
Podemos pintar, colores al alma,
Podemos gritar iee eê
Podemos volar, sin tener alas…
Ser la letra en mi canción…
Un abbraccio era tutto ciò che desiderava avere in quel momento, e quando sentì Violetta fiondarsi tra le sue braccia, come se non aspettasse altro, si sentì in pace. Una pace che non aveva mai provato, che sentiva solo al suo fianco.
No es el destino,
Ni la suerte que vino por mi.
Lo imaginamos…
Y la magia te trajo hasta aquí…
“Se anche fosse stata la magia a portarti fin qui, sarò io a farti restare” le sussurrò mentre le accarezzava il capo, concedendosi il piacere che provava nel fare quelle carezze. E rafforzò la presa per farle capire che le sue non erano solo parole, ma una promessa. La promessa fatta in un sogno che si sarebbe conservata anche quando il sole sarebbe sorto.
Podemos pintar, colores al alma,
Podemos gritar iee eê
Podemos volar, si tener alas…
Ser la letra en mi canción…
Podemos pintar, colores al alma,
Podemos gritar iee eê
Podemos volar, si tener alas…
Ser la letra en mi canción…
Y tallarme en tu voz.
I due si svegliarono all’improvviso. Leon tremava, Violetta sentiva un gelo innaturale intorno al suo corpo. La notte oscurava le loro espressioni ma non le travolgenti emozioni che provavano. Quei sogni erano troppo vividi, troppo innaturali, per essere normali. Il principe volse il capo verso la finestra e si incantò a guardare il riflesso lunare e solo allora gli venne in mente, proprio come venne in mente a Violetta, che si rigirava nel letto cercando di prendere nuovamente sonno. La domanda che avevano non trovava risposta, la stessa identica domanda.
Chi era la misteriosa donna apparsa nei loro sogni?









NOTA AUTORE: E anche io vi faccio questa domanda: chi è la misteriosa donna che è apparsa nei sogni dei due innamorati, quasi fosse lei che voleva farli ricongiungere? E qui mi aspette le ipotesi più svariate (detective Dulcevoz non mi deludere, lo sai che Pablo ha in te molta fiducia :P). Ecco che carico un nuovo capitolo, ricco di dolcezza (?). 
Allora, mentre Violetta trova una sorta di amichevole conforto in Thomas, che poverino si trova involontariamente coinvolto in un triangolo che non si aspetta (Thomas in questa storia mi fa tenerezza, MA RIPETO: NO. VIOLETTA NO), Leon ha capito che ormai può fare ben poco, perché si sente costantemente con un senso di colpa opprimente, dovuto al suo diverso modo di essere. SCUSATE, ma la parte che io amo su tutti è Humpty incavolato con Leon, che impreca furioso. Io amo questo uomo-uovo, che cerca di svegliare anche quel capoccione di Leon. Ma senza di lui, noi Leonetta come faremmo? Non faremmo proprio xD E mentre Leon manifesta apertamente la sua gelosia nei confronti di Thomas (amo anche la scena dello scambio di fredde parole tra Leon e Violetta...io li amo sempre XD), e DOPO CHE HA RIFIUTATO LARA (LA GIOIA PURA), ecco che i due si ritrovano a fare due sogni che più diversi non potrebbero essere: lei in una radura felice e piena di sole, lui in una stanza buia con un pugnale in mano (COSA IMPORTANTE)...eppure le note della stessa canzone appare nei loro sogni...fatalità? Destino? O forse...o forse che? La misteriosa donna potrebbe avere a che fare con tutto questo. Ma di chi si tratta? Ipotesi? Considerazioni? Voglia di uccidermi per tutto questo mistero? Fate pure XD 
Detto ciò, vi auguro a tutti buona lettura, anche se questo capitolo non mi convince particolarmente...però alcune scene/espressioni mi piacciono :3 Vabbè, insomma, buona lettura, e alla prossima! :D
  
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