“So chi sei e ho intenzione di rivelarlo all’interessata. Se non vuoi, chiama immediatamente al 3** *******.
- F.”
Anche la sua fronte era madida. Le immagini di Toki e Hayami si confondevano in un vortice che le dava la nausea. Strinse i denti e represse un conato. Lo sapeva perfettamente: Toki era morto e Hayami no.
Avrebbe dato molto per avere la morte alle calcagna anche lei. Se ne rendeva conto da tempo, ma solo in quel momento aveva ammesso a se stessa che era così. Non voleva piangersi addosso. Aveva sbagliato molte cose in vita sua e non avrebbe accettato che altri percorressero gli stessi passi senza avvertirli del rischio. Sarebbe intervenuta nella sua plateale ed insolita maniera.
La tempesta aveva scelto il profumo dei fiori per essere annunciata, si ripeteva Amina Forks come una nenia, mentre riponeva il portafogli dopo aver allungato al ragazzo le banconote. La tempesta avanzava tra petali di fiori danzanti, cantava a se stessa mentre attraversava la strada diretta al suo squallido bar preferito, dove il barista la attendeva, tranquillo, su quel sudicio bancone mezzo lercio. Le aveva già posato una birra e arricciava il naso con un sorriso sghembo.
La donna si trascinò fin dove voleva. Il puzzo di fumo e stantio aveva un che di rilassante. Odorava di casa, di quel tabacco scadente che suo padre fumava poco dopo il funerale della defunta signora Forks. Spalancò gli occhi quando recuperò quel ricordo. Il sorso di liquore tardò a scendere dalla sua gola. In quel momento fu consapevole che anche suo padre aveva sofferto per un amore spezzato.
Che la sua famiglia di portasse dietro una qualche fattura o maledizione? Poteva essere stata lanciata da qualche vecchio collega irlandese, geloso del successo lavorativo di suo padre? In fondo, ce n’erano tanti di pazzi nelle campagne di Dublino. Posò la bottiglia e chiese un bicchiere. Stava diventando impaziente. Il piede calzato nello stivale di cuoio riprese a ticchettare, nervoso, contro il pavimento di legno. La figlia del generale stava recuperando le forze, allora. Meglio, sarebbe stato più divertente vedere dove l’amore e la follia possono arrivare.
Aveva ordinato, oltre la birra, anche un assaggio di quel whiskey forte che suo padre vantava tanto. Rise sorniona mentre sentiva il telefonino vibrare, nella tasca del giubbotto nero, di pelle. Sì, certamente si sarebbe divertita. Con un gesto rapido aprì il cellulare. Si passò la lingua sulle labbra come il lupo che pregusta la preda mentre la voce professionale di una giovane donna le chiedeva di venire subito, per un colloquio privato col principale.
“Amina, ti sei decisa a cambiar lavoro e vestirti da donna?”
James, il barista che la conosceva da una vita, aveva captato parte della conversazione.
“Io? Per chi mi hai presa?”
L’uomo scosse la testa riccioluta e piegò la bocca in quella maniera strana, dovuta a un tic.
“Allora vai solo a divertirti. Sai, per un attimo mi eri sembrata quella prima del fattaccio.”
Conosceva lei e Toki e avevano una certa fiducia reciproca, dovuta al fatto di aver svolto per lungo tempo le stesse mansioni e aver frequentato lo stesso giro.
Amina, annuì. Pareva più serena.
“Dopo, però, prenditi una vacanza. Hai una cera da schifo. Sembri un fantasma.”
La ragazza rise di gusto e lasciò le banconote per pagare il conto, che l’amico rifiutò. Egli era contento di vedere che si stava riprendendo. Per lei, offriva la casa.
Neppure mezz’ora dopo, la detective si trovava a percorrere i corridoi asettici e bianchi della società Daito. Essa aveva sempre detestato ambienti simili. Li trovava soffocanti. Parevano infinite corsie di ospedali, budelli di giganti ciechi. Incurante delle sopracciglia alzate dei colletti bianchi che incrociava al suo passaggio e del risolino di qualche bella impiegata con i tacchi a spillo, infilò una mano in tasca a con l’altra sollevò il giubbotto che si era tolta dal colletto, per poggiarlo sulla spalla e sulla schiena, come il dannato dei peggiori film di serie b.
Non aveva mai visto un concentrato simile di cinismo ed ipocrisia dal funerale del suo amato e il disgusto le stampò in faccia la peggiore delle espressioni. Riuscì a calmarsi solo poco prima di raggiungere l’ufficio principale. Quando fu davanti la scrivania di quella che aveva identificato come Mizuki, si esibì nel migliore finto sorriso di circostanza. Era venuta con l’intenzione di fare casino in una stanza sola, contro una sola persona, l’unica che, forse, avrebbe potuto essere un avversario degno.
Pretese di essere lasciata da sola col capo e, suo malgrado, Mizuki fu obbligata a farlo.
Era la prima volta che la solerte impiegata, per davvero, non aveva la minima idea di cosa si sarebbe dovuta aspettare.