Capitolo
Diciotto: l’Aquila
Il
volto marmoreo di Kiku rimase immobile mentre la tempesta
rabbiosa vomitata dal consigliere si abbatteva su di lui. Le parole
sferzanti
dell’uomo non riuscirono graffiare il suo viso di porcellana,
né a incrinare il
suo sguardo di onice.
Il
consigliere infilò seccamente le mani nelle maniche,
mettendo fine all’inutile conversazione.
«Non
conosciamo la malattia che affligge il nostro sovrano,
e non sappiamo come risvegliare il Portavoce del Sole dal suo torpore.
Questo
fa di te l’unico sopravvissuto tra i vertici del potere, e
l’ultima immagine
carismatica per il popolo. Ma questa situazione non è stata
volontaria, Kiku
della Settima Prefettura. Se solo uno di loro fosse cosciente, saresti
immediatamente bandito dal castello. La tua incompetenza è
intollerabile: hai
permesso che l’incolumità del nostro regnante
fosse compromessa e, con essa,
quella di Chugoku. Tuttavia…» l’uomo gli
lanciò lo sguardo che avrebbe
riservato a un cumulo di sporcizia da stalla. «…
sei l’unico in grado di
ispirare fiducia nel popolo. È solo per questo che non sei
stato rimosso dalla
tua carica. Né tu né la... Stella
Polare.»
Il
consigliere gli voltò le spalle, senza nemmeno aspettare
la replica che non era intenzionato ad ascoltare: qualunque cosa
potesse dire
quel deprecabile Samurai, non era degna del suo tempo e della sua
attenzione.
La
katana cantò,
scivolando fuori dal fodero e solleticando la preziosa stoffa della
tunica del
consigliere.
«È
Honda» la voce del guerriero risuonò fredda e
affilata
come la spada che sfiorava delicata la schiena dell’uomo.
«Il nostro sovrano mi
ha regalato un cognome, il giorno in cui sono stato nominato Samurai.
Per
rispetto al Figlio del Cielo, vi prego di usarlo, quando vi rivolgete a
me.»
Il
consigliere fece un passo avanti per distanziarsi dalla
lama, e raddrizzò la schiena per sovrastare in altezza il
soldato, il cui
fisico non era cresciuto quanto le sue leggendarie capacità
in battaglia; gli
anni di malnutrizione all’orfanotrofio avevano lasciato la
loro impronta su
quelle membra acerbe.
«Il
Figlio del Cielo ti aveva anche assegnato una missione,
assieme al titolo e al cognome: proteggerlo. E adesso è
preda di un morbo
sconosciuto, contratto durante un attacco che il suo guerriero
personale non è
riuscito a gestire. Oserei dire che non hai rispettato i voleri del
nostro
sovrano fino in fondo.»
Le
labbra di Kiku si asserragliarono in una linea stretta,
mentre la spada tornava al suo posto. Il soldato abbandonò
il consigliere senza
sprecare una sola parola, e si diresse verso la stanza del Portavoce
del Sole.
L’uomo
scrollò la testa con disapprovazione, e fece per
imboccare il corridoio quando un metro e ottanta di guerriero ben
addestrato
gli sbarrò la via.
Le
sopracciglia brizzolate del consigliere si incontrarono
in un cruccio sdegnoso. Quello straniero era un’altra delle
bizzarrie apportare
dal Figlio del Cielo. Lui e tutti gli altri nobili lo avrebbero
volentieri
raschiato via dal palazzo se non fosse stato tanto popolare tra il
volgo.
Il
popolo lo acclamava come “l’Aquila”.
Nessuno aveva mai
capito come fosse nato quell’epiteto. Alcuni ritenevano che
fosse un modo per
elogiare la sua capacità di arrivare sempre al momento
giusto e nel posto
giusto, come un’aquila che scansiona il mondo
dall’alto per planare solo sulle
prede più succulente. Altri ritenevano che fosse un modo per
sminuire
indirettamente quello che, fondamentalmente, rimaneva uno straniero: il
paragone al rapace dalla vista formidabile risultava sarcastico, se
associato
agli occhiali che sellavano il naso del giovane.
Il
consigliere lo superò in fretta, ma non abbastanza da non
sentire l’affronto dell’uomo, pronunciato con quel
suo accento sbiascicante.
«Il
sovrano non è ancora morto. Finché il Figlio del
Cielo
avrà respiro, il Samurai combatterà per salvarlo.
E lo farà. Vedrete.»
L’uomo
esalò tra i denti un respiro tremendamente simile a
“selvaggi” prima di sparire nei corridoi tortuosi
del palazzo.
Una
nebbia di compatimento appannò gli occhi
dell’Aquila, e
fu costretto a battere le palpebre per scacciarla. Provava pena per
quei nobili
abituati a snocciolare sentenze senza avere la minima esperienza del
mondo al
di fuori delle loro suntuose tuniche. Gli davano
l’impressione di essere dei
pesci da acquario, convinti che la loro misera boccia di vetro fosse
l’oceano.
Si
appoggiò allo stipite cremisi, contemplando in silenzio
la scena fraterna all’interno della stanza del ragazzo di
Kankoku. Il Portavoce
del Sole giaceva dinoccolato sul suo trono, come una marionetta senza
fili dimenticata
su uno scranno troppo grande, gli occhi spaventosamente fissi e
l’espressione
tragicamente assente. Kiku era inginocchiato davanti a lui, le palpebre
chiuse
e le mani insensibili del fratello poggiate alle labbra. Le uniche cose
realmente esistenti per il Samurai, in quel momento, erano le nocche
ghiacciate
premute sulla sua bocca e il bisogno viscerale di vedere di nuovo il
sorriso spensierato
del giovane. I ricordi dei bei tempi passati insieme diventavano
angoscianti
come fantasmi, quando si rimaneva soli. Kiku aveva paura di quegli
spettri: lo
avevano tormentato quando Heracles era morto, e non voleva cadere di
nuovo tra
le loro grinfie. Aveva tremendamente bisogno che suo fratello gli
dicesse che
tutto sarebbe andato bene come se fosse davvero
possibile che tutto andasse bene.
«Young
Soo, se solo tu potessi consigliarmi…»
L’affetto
che scorreva in quelle parole non riscosse il
Portavoce dalla sua immobilità; il calore dimostrato dal
Samurai scivolò a fatica
sulle sue membra raggelate, come una goccia d’acqua su una
lastra di ghiaccio.
Kiku
sussultò a malapena quando l’Aquila gli
appoggiò una
mano sul capo.
«La
Stella Polare attende ordini» comunicò.
Il
Samurai si rialzò velocemente, ricompose la sua posa
militare e si preparò a una nuova giornata di lavoro. Il
giovane straniero lo afferrò
per una spalla, trattenendolo vicino al proprio petto.
«Posso
sostituirti io, per un giorno» si offrì.
Kiku
mosse pochi passi per sottrarsi a quella stretta
accorata e recitò, veloce e inflessibile come una scarica di
frecce:
«Hai
sentito il consigliere: sono l’unica figura autorevole
rimasta al momento. Chugoku non può fermarsi. E lo stesso
vale per me.»
Il
Samurai guadagnò velocemente l’uscita, lasciando
dietro
di sé solo l’eco dei suoi passi dal ritmo militare.
L’Aquila
lo seguì, il cuore pesante come il piombo.
Il
consigliere non avrebbe mai estrapolato la sofferenza
seminata nelle profondità di quegli occhi di pietra. Nemmeno
lui ci sarebbe
riuscito, se il loro passato non fosse stato così simile.
Solo
chi aveva udito il proprio mondo crollare in pezzi
poteva riconoscere lo stridio di un’anima in frantumi.
***
Il
ricordo della sua prima missione era vivido nella sua
mente come se il suo cuore lo irrorasse di nuova vita a ogni battito
Ricordava
le divise tutte uguali, le facce tutte uguali, le
espressioni tutte uguali. Tutto era grigio e senza vita, come se i
soldati
fossero morti nel momento stesso in cui avevano indossato la propria
uniforme.
Solo uno era diverso da tutti gli altri: un soldato che si sentiva
ancora vivo,
e aveva voglia di dimostrarlo sorridendo contro il grigiore del mondo.
Lo
stomaco di Alfred si era contratto in modo bizzarro:
guardare quell’uomo era come vedere il proprio riflesso allo
specchio - un
riflesso rivestito di carne, con un nome diverso dal suo e i capelli
lievemente
più lunghi-, entrambi intrepidi soldati di Britannia che non
avevano ancora
voglia di dichiararsi concime per le margherite.
Si
era immediatamente avvicinato a lui, e avevano fatto
amicizia in poco tempo. Si chiamava Matt, e si era arruolato qualche
anno prima.
Il
ricordo più intenso che aveva di quell’uomo era il
discorso che avevano fatto insieme sull’eroismo.
«Come
mai sei entrato nell’esercito?» gli aveva chiesto
una
volta Alfred.
La
striscia di carne conficcata sul suo spiedino rudimentale
si era quasi carbonizzata mentre Matt pensava a una risposta
convincente.
«So
sparare, so combattere. E ci sono tanti demoni, là
fuori, pronti a divorare chiunque non sappia fare altrettanto. Penso
che sia
giusto che io li sconfigga per proteggere chi non è in grado
di difendersi da
solo.»
«Quindi
ti sei arruolato per salvare le persone.»
La
faccia di Alfred aveva scintillato più del fuoco
lì
vicino, mentre elogiava il collega più anziano. Matt aveva
sgonfiato le spalle
in un sospiro greve, e aveva ammesso, con una certa vergogna:
«No.
Mi sono arruolato per uccidere i demoni.»
«Ma
tu hai detto…»
«Non
riusciamo a salvare tutti, Alfred. Anzi, raramente
riusciamo davvero a salvare la gente. La maggior parte delle volte
arriviamo
troppo tardi, o i nostri sforzi non sono sufficienti.»
«Ma,
allora, qual è lo scopo di un soldato?»
Matt
aveva osservato con tenerezza quel ragazzino che
fissava il suo grezzo spiedino con un cruccio quasi comico. Invidiava
la prima
fase dell’adolescenza, in cui si aveva ancora la sensazione
di poter afferrare
i sogni. Ben presto anche quel piccoletto dal labbro imbronciato
avrebbe
scoperto che le utopie non crescevano sull’albero della vita,
e, se lo
facevano, erano su rami troppo lati per essere raggiunti dagli esseri
umani.
«I
soldati uccidono i demoni. E cercano di prevenire altri
massacri» aveva cercato di calibrare Matt.
Alfred
non era parso per nulla soddisfatto da quella
risposta approssimativa. L’altro aveva spostato la carne
– che ormai aveva
assunto il colore e la consistenza della suola di uno scarpone
– dal fuoco, e
aveva tentennato, sperando di soddisfare la sete di speranza del
giovane:
«Gli
eroi. Gli eroi salvano la gente.»
Gli
occhi blu di Alfred tornarono a gareggiare con il fuoco
per luminosità. Il ragazzo si era spostato verso di lui,
curioso come un
animale che sente l’odore di una traccia inesplorata.
«E
come si diventa eroi?»
«Oh,
devi fare molte cose difficili» Matt aveva agitato
vagamente lo spiedino nell’aria, mentre elencava:
«Devi salvare tutti, nessuna
esclusione. Devi perdonare chiunque ti faccia un torto, e difendere i
deboli
anche quando la situazione appare disperata. E, soprattutto, devi
mantenere un
cuore puro e rimanergli sempre fedele.»
«Questo
è facile!» aveva declamato Alfred, gonfiando il
petto con orgoglio.
Matt
aveva scosso mestamente la testa.
«No.
Quella è la parte più difficile. Il mondo conosce
mille
modi per contaminarti il cuore.»
Ipocrisia,
invidia, opportunismo. Matt aveva visto i lati
peggiori degli esseri umani durante tutti quegli anni. Non riusciva
più a
credere che le persone di cuore esistessero ancora.
La
risposta di Alfred fu di quanto più lontano
dall’umano e
vicino all’eroico avesse mai udito.
«Il
mio cuore è solo mio. E solo io posso decidere se voglio
che sia inquinato o no» Alfred aveva strappato un pezzo di
carne stopposa e
l’aveva masticata con forza, come per rimarcare le sue
parole. «Vedrai»
biascicò a bocca piena.
A
Matt sarebbe piaciuto vederlo scintillare nelle sfere
degli eroi, ma non poté farlo. I demoni attaccarono a
sorpresa il villaggio in
cui erano alloggiati, e le strade si tinsero di sangue e di morte.
Urla,
scoppi, ruggiti, mescolati in un vortice nauseante. E,
in quella confusione polverosa, la cruda immagine del corpo di Matt, e
della
porta che gli inchiodava una gamba al suolo. I suoi compagni correvano
veloci
di fianco a lui, senza nemmeno guardarlo. Se si fossero fermati ad
aiutarlo, i
demoni li avrebbero divorati, e ogni soldato sapeva che dieci vite
valevano più
di una. Ma per un eroe ogni vita valeva più della propria:
Alfred si fermò, e cercò
di liberare il suo amico.
Le
sue orecchie non recepirono le urla accorate di Matt, le
sue mani non si accorsero di come le schegge della porta divelta le
stessero
martoriando. Le uniche cose che ricordava di quell’inferno di
caos e panico
erano il braccio che lo aveva afferrato per lo stomaco, trascinandolo
via, e le
labbra di Matt che si muovevano a formare un ringraziamento.
Matt
non versò nemmeno una lacrima, nel vedersi abbandonato
al proprio destino. Alfred lo fece per lui; pianse finché i
suoi occhi non diventarono
rossi come i suoi palmi feriti e sanguinanti.
«Era
il suo primo giorno» sentì un soldato vicino a lui
che
lo giustificava con un superiore. «Prima o poi si
abituerà a queste cose.»
Alfred
inghiottì un boccone di muco e amarezza, disgustato. Le
labbra tremarono in un respiro malfermo, frustato dalla rabbia che gli
incendiò
le parole.
«No.
Io non mi abituerò.»
L’intera
divisione si voltò, sconvolta da
quell’ammutinamento solitario. Alfred inalberò il
mento, tremante di un’emozione
sconosciuta e potente: la sentiva propagarsi dal midollo alle ossa,
avvertiva
il cuore che la pompava frenetico nelle vene, facendogli ribollire il
sangue.
La sua anima entrò in risonanza con quella vibrazione
terribile, che fece
fremere le sue parole con una furia maestosa:
«Nessuno
può ammaestrarmi il cuore. Io non voglio diventare
un soldato che uccide i demoni. Voglio diventare un eroe che salva la
gente.»
Per
quanto lodevole, per le orecchie di ferro dell’esercito
quella dichiarazione equivaleva a un atto di tradimento.
Il
giovane Alfred fu quindi allontanato con disonore e abbandonato
su Chugoku, il primo pianeta sulla loro rotta, e le navi Britanniche
ripartirono senza di lui.
Sistemò
gli occhiali, rimboccò le maniche e inghiottì le
lacrime. Non si fece intimidire dal terrore che vide serpeggiare negli
occhi
della gente al suo passaggio: i suoi lineamenti, su quella terra, erano
stampati sui libri di storia di fianco alla scritta
“oppressori”.
Erano
trascorsi secoli dalla guerra sino-britannica, ma gli
orrori di quelle battaglie erano passati dalla bocca dei superstiti
alle
orecchie dei successori, che le avevano poi impresse su carta e cantate
nelle
ballate belliche.
Alfred
non abbassò mai le spalle nonostante i continui
bisbigli che strisciavano sulla sua schiena, e non piegò la
testa sotto la
pressione del pregiudizio. Era un eroe, e glielo avrebbe dimostrato.
Cominciò
salvando la piccola Lin. La madre lo guardò carica
di sospetto, come se lo avesse visto gettarla dentro il pozzo e non
tirarla
fuori da esso. La bambina provò di avere il cuore
più grande di tutti gli
adulti presenti: si sporse verso il giovane dalle braccia della madre e
appoggiò
un bacino su quelle guance ancora sporche di acqua limacciosa.
Poi
aveva salvato un adolescente da una carrozza in corsa,
aveva messo in fuga un pericoloso lupo, aveva contribuito alla
costruzione di
un sistema per l’irrigazione dei campi, aveva consegnato
innumerevoli criminali
alla giustizia.
Aveva
scalzato il mosaico di preconcetti che gli avevano
fissato addosso un tassello per volta, finché la gente non
era finalmente
riuscita a vedere Albert, e non lo “straniero di
Britannia”.
Tutto
il suo corpo era diventato una papilla gustativa
quando per la prima volta una signora gli aveva portato degli onigiri in segno di ringraziamento: quei
chicchi di riso gli erano sembrati la cosa più gustosa che
avesse mai
assaggiato. Era la spezia della vittoria a renderli così
squisiti.
Quegli
anni erano stati un susseguirsi di piccoli e grandi
successi, e poteva vantarsi giustamente di aver rispettato i canoni
dell’eroe:
aveva mantenuto un cuore puro ed era rimasto fedele ai suoi principi,
perseguitando i malfattori e salvando gli innocenti.
L’appellativo
“l’Aquila” era sorto spontaneamente: non
si
sapeva chi fosse stato il primo a pronunciarlo ma tutti lo conoscevano,
come
fosse se stato generato dalle strade della città.
L’ex-soldato di Britannia si
era inorgoglito per quell’epiteto: essere paragonato a un
rapace così nobile
era un grande onore, e si sarebbe impegnato affinché
l’Aquila volasse sempre
più in alto.
Il
pallido sole di marzo osservò Alfred mentre si imbatteva
nel suo destino. Alcuni pericolosi criminali erano stati condotti alla
loro
città per essere giustiziati tramite impiccagione. Erano i
fautori della strage
nella Piazza della Pace, in cui avevano perso la vita numerosi
innocenti, per
la maggior parte studenti. I familiari delle vittime erano in prima
fila,
vestiti di bianco e con una furia cieca negli occhi affogati di
lacrime:
bramavano di vedere quegli uomini penzolare dai cappi, e allo stesso
tempo
sapevano che la loro morte non gli avrebbe restituito i loro figli.
Perfino
il Figlio del Cielo era presente: per quella
tragedia era stato dichiarato il lutto nazionale, e i drappeggi del
Palazzo
erano stati incupiti in un nero funereo dal Portavoce del Sole in segno
di
cordoglio.
I
criminali sfilarono lungo la stretta passatoia che li
avrebbe portati alla loro ultima meta. Il tempo sgroppò come
un cavallo
imbizzarrito quando quella stasi si ruppe: i polsi nerboruti dei
criminali
furono improvvisamente liberi dalle catene, e spalarono brutalmente la
folla per
guadagnare la libertà.
L’Aquila
non fece in tempo a spiccare il volo che un guizzo
bianco pose fine a quel putiferio. La folla ebbe solo
l’impressione di una
piuma di luce che fluttuava con una grazia spietata tra la folla,
aprendo
eruzioni di sangue con un sibilo argentato. Quell’apparizione
durò solo pochi
secondi. Quando finalmente il tempo riprese a scorrere normalmente, la
piazza
si rese conto che l’esecuzione non sarebbe più
stata necessaria: i criminali giacevano
al suolo, esangui, ognuno colpito una sola volta in un unico punto
vitale. Heracles
gocciolava sangue per terra, e qualche spruzzo cremisi aveva insozzato
la
divisa immacolata del Samurai e il suo viso latteo.
Alfred
aveva sentito i polsi tremare, a quella vista.
Quell’uomo, più piccolo di lui di tutta la testa,
era la personificazione della
dignità guerresca: aveva il volto fermo, ma non assente, gli
occhi solidi
eppure in movimento, l’animo saldo e vibrante al contempo.
Era la bellezza
contraddittoria e terribile della battaglia che riviveva in quei
lineamenti
d’acciaio.
«Mi
dispiace per non aver permesso al boia di fare il suo
dovere» si scusò cortesemente il giovane,
scrollando la katana prima di
pulirla velocemente su un panno e tornare al fianco
del sovrano.
I
più malevoli avrebbero detto che aveva pedinato il Samurai
tutto il giorno finché non lo aveva finalmente trovato da
solo; Alfred
preferiva dire che aveva fatto un appostamento mirato per non perderlo
d’occhio.
Seguire
assiduamente l’incaricato ufficiale alla sicurezza
del regnante e pensare di non essere scoperti era come pretendere di
guadare un
fiume e uscirne asciutti. Alfred avvertì le spade che il
guerriero aveva per
occhi trafiggerlo non appena mise piede nella sala da the. Il Samurai
era
seduto a un tavolo, schiena dritta, gomiti stretti e la testa appena
inclinata
in un’esternazione di aspettativa. Alfred impiegò
qualche secondo per capire di
essere l’oggetto di quell’attesa.
«Ho
notato il suo inseguimento» il soldato parlò con
calma
adamantina, mentre gli indicava la sedia di fronte a sé.
«Ma non ho notato
intenti bellicosi. Deduco quindi che non mi stai seguendo per uccidermi
o per
ferire il sovrano. Tuttavia, i miei sensi deduttivi non sono abbastanza
affinati da permettermi di capire cosa tu voglia da me, nello
specifico.»
Alfred
si sentì improvvisamente fuori posto di fronte a
quella scultura umana. Il Samurai sedeva con una compostezza
impeccabile, come
se fosse nato in quella posizione austera, e lo fissava con la calma di
chi sa
di poter sistemare qualunque inconveniente con la propria
superiorità fisica e
intellettuale. Al contrario, Alfred non riusciva a stare fermo su
quella sedia
troppo rigida o ad avere la stessa aura affascinante e intimidatoria.
In fondo,
erano un mito forgiato dalle sfere regali e un eroe sorto dai fanghi
popolari.
Nonostante
l’abissale divario tra loro, Alfred racimolò la
sfrontatezza
necessaria per chiedere al Samurai:
«Mi
alleni, per favore.»
Un
sopracciglio si arcuò, indeciso se deriderlo con
discrezione o valutare seriamente quella richiesta. Si
livellò di nuovo in
un’espressione neutra quando le labbra si aprirono per
formulare:
«Per
quale motivo?»
«Vorrei
combattere anche io come lei.»
«Cioè
in che modo?»
«Con
la stessa velocità, con la stessa precisione. Colpendo
solo i colpevoli e salvando gli innocenti…»
La
parte finale della frase sfumò nel delicato scroscio del
the versato nelle due tazze. Il Samurai appoggiò il corpo
panciuto della teiera
sul tavolo, si servì di un lungo sorso e rispose.
«Lo
stai già facendo, mi risulta. Ti chiamano
l’Aquila, non
è così?»
«Voglio
fare di più!» Alfred quasi si morse la lingua; non
aveva alzato la voce più di tanto ma, se paragonato al tono
pacato dell’altro,
aveva praticamente urlato. Rimase qualche secondo in silenzio mentre le
parole
udite per la prima volta tanti anni prima si cristallizzavano sulla sua
lingua.
«Voglio
diventare un eroe che salva le persone.»
«Perché?»
Non
si aspettava una domanda così diretta, né
così
immediata.
Alfred
fissò il liquido scuro nella sua tazza. Il passato si
ripresentò come un’allucinazione sulla superficie
nera del the: la porta
crollata sulle gambe di Matt, e la terribile rassegnazione con cui lo
aveva
guardato mentre lo portavano via, sapendo che non si sarebbero visti
mai più…
«Perché
nessuno dovrebbe morire senza poter dire addio.»
Quell’ultima
frase sembrò destare l’interesse del Samurai;
una minuscola scintilla crepitò per un istante
all’interno delle sue iridi
d’ebano. Il giovane sorbì di nuovo il suo the,
appoggiò la tazza e lo fissò con
un sottile velo di curiosità sul viso.
«Questo
è un buon motivo.»
Si
alzò dal tavolo con eleganza marziale, e Alfred si
sentì
di nuovo inadeguato per il modo grossolano in cui si separò
dalla sedia. Per
essere un eroe non importava essere aggraziati, per cui non aveva mai
dato
troppa importanza ai suoi gomiti che atterravano puntualmente sul
tavolo
durante il pranzo o al modo in cui colava
sulla sedia quasi fosse senza ossa. Cominciava a pentirsi di quella sua
disattenzione all’etichetta: accostato al Samurai, pareva un
sacco di tela che
tentava di assomigliare a un drappo di seta.
Il
giovane lo aspettò finché non ruzzolò
fuori dal locale.
«Cosa
vedi?» fu l’inaspettata domanda che gli rivolse.
Alfred
equilibrò gli occhiali sul naso, e osservò lo
spazio
intorno alla ricerca di una risposta soddisfacente. I negozi
effondevano un
piccante odore di cibo e spezie, l’acciottolato schioccava
sotto le scarpe
della gente, il vociare delle famiglie scrosciava dalle finestre
semiaperte
delle case. Ma non trovò la risposta nel profumo di cucina,
e nemmeno nel
marciare sulle strade; seguì lo sguardo del soldato,
appuntato su un cielo nero
come le sue iridi.
«Non
ci sono stelle» notò.
«Su
Britannia ci sono?» Kiku non distolse lo sguardo dalla
volta celeste inanimata, mentre lo interrogava.
«Sì»
confermò Alfred, disturbato da quella cappa di carbone.
Era la prima volta che fissava il cielo di Chugoku così
intensamente, e non
vedere nemmeno una capocchia di luce era quasi soffocante.
«La più importante
di tutte è la Stella Polare, per orientarsi durante le
navigazioni.»
Alfred
scostò gli occhi da quel cielo perturbante, e quasi
trasalì nel vedere due iridi ancora più nere che
lo scrutavano, pronte a
giudicare le sue successive parole.
«Sei
disposto a lottare per riportare le stelle nel cielo di
Chugoku?»
L’Aquila
non comprese quella domanda, ma annuì comunque.
Voleva diventare forte e temibile come quel piccolo combattente.
Avrebbe sparso
una manciata di stelle in cielo, se fosse servito a raggiungere il suo
obiettivo.
Kiku
inclinò il capo, accondiscendente.
«Allora
seguimi, Aquila.»
***
Con
suo enorme disappunto, Alfred scoprì di non essere il
solo privilegiato scelto dal Samurai. Il giovane aveva allestito una
specie di
accampamento fuori dalle mura del Palazzo, dove tutti coloro disposti a
lottare
per le stelle di Chugoku erano stati riuniti.
In
onore della conversazione avuta la sera prima,
quell’esercito anonimo di volontari assunse il titolo di
“Stella Polare”,
poiché sarebbe divenuto l’astro guida per il sogno
di Chugoku.
Il
Samurai aveva imposto una ferrea disciplina ai suoi
uomini: la loro giornata iniziava col sorgere del sole e finiva dopo il
tramonto. I loro allenamenti non riguardavano solo il fisico: Kiku
aveva stilato
un rigido codice di comportamento, con pene estremamente severe in caso
di
trasgressione.
«Un
buon guerriero deve avere muscoli di ferro e spirito
d’acciaio, altrimenti è solo un animale
forzuto» aveva spiegato, quando Alfred
gli aveva chiesto il motivo di quella disciplina inflessibile.
Erano
inoltre incaricati della pulizia delle proprie armi e
divise, che venivano meticolosamente ispezionate ogni giorno.
Alfred
sapeva che esistevano camerate e cucine comuni per
aumentare lo spirito fraterno tra le reclute, ma non ne faceva parte:
era il
solo cui era stato concesso l’onore di risiedere a Palazzo.
«Il
mio spirito di squadra non ne risentirà?» aveva
commentato scanzonato.
«Non
farai parte di una squadra. Ne comanderai una» Kiku lo
aveva inchiodato con quel suo sguardo quieto e temibile, articolando
con calma:
«Se te ne dimostrerai degno.»
«Perché
io?» la sorpresa fece ammuffire la mente di Alfred
in un pantano colloso, e quello fu l’unico pensiero coerente
che riuscì a
pescare.
«Perché
nessuno dovrebbe morire senza poter dire addio.»
Fu
tutto ciò che il Samurai gli consegnò prima di
sparire,
lasciandolo basito e confuso nell’enorme corridoio del
Palazzo.
Alfred
tolse gli occhiali, li pulì sulla maglia, li
posizionò di nuovo sul naso e sospirò:
«Beh,
Aquila, non ti resta che volare alto. Le stelle non si
raggiungono stando a terra.»
***
No,
le stelle non erano facili da raggiungere. Il cielo era
ancora più nero degli incubi di un assassino.
Alfred
tolse gli occhiali e li appoggiò sul comodino.
Era
passato qualche anno dalla prima volta che aveva messo
piede nel Palazzo.
Kiku
gli aveva fatto sputare sangue e anima prima di
assegnargli finalmente il ruolo di Caposquadra. L’Aquila
aveva condotto i suoi
sottoposti in mille imprese eroiche, accrescendo la fama della Stella
Polare in
tutto il Paese. Il Figlio del Cielo aveva riconosciuto la loro
organizzazione
come esercito di sostegno paramilitare; Chugoku aveva festeggiato
un’intera
giornata per quella dichiarazione.
Era
abbastanza soddisfatto, in fondo: quello che era partito
come un piccolo gruppo di volontari era diventato uno stendardo di
speranza per
la capitale e per tutte le città del pianeta. Tuttavia, non
erano riusciti ad
avanzare di un solo passo nella loro missione principale: il cielo di
Chugoku
era ancora un pezzo di carbone.
Sospirò
e si lasciò cadere sul futon,
badando di non schiacciare la persona stesa su un lato.
Alfred
si girò veloce sul fianco per accarezzare quelle
spalle, coperte appena dal kimono
che
il giovane indossava per la notte. La seta scorse sul braccio niveo,
lambito
dalle labbra dell’Aquila.
Kiku
non emise suono; si voltò di lato e gli porse la bocca,
che Alfred coprì con la sua.
Da
qualche mese, il suo rapporto con il Samurai era
cambiato.
Aveva
capito perché il giovane lo avesse preferito agli
altri nel momento in cui aveva scoperto il nome della sua spada:
Heracles.
Sapeva che molti guerrieri davano un titolo alla propria arma
preferita, ma mai
dei nomi propri. Doveva essere collegato a quel
qualcuno che aveva estinto il fuoco delle iridi scure del
Samurai,
spegnendole in una cenere mesta.
Alfred
aveva fatto il primo passo parlandogli di Matt, il
suo mentore, l’uomo che aveva abbandonato in pasto ai demoni
e che aveva
rafforzato il suo desiderio di diventare un eroe e non un soldato. Kiku
aveva
telegrafato il nome del suo migliore amico, accennando al fatto che
erano stati
all’orfanotrofio insieme. Il Samurai centellinava le
informazioni, e ad Alfred
erano occorse settimane per costruire un quadro approssimativo del
rapporto tra
il guerriero e l’orfano straniero.
Si
sollevò sui palmi per fissare il giovane steso sotto di
lui. I bordi del kimono erano
allentati sul petto, e gettavano penombre lascive sulle linee dei
muscoli non
del tutto denudati. Alfred risalì con gli occhi il profilo
eburneo del
guerriero finché non approdò in quelle iridi che
lo facevano sempre sentire
inadeguato.
Non
gli era occorso molto tempo per capire di essersi
innamorato del Samurai, e aveva accettato la propria
omosessualità con un
enorme sorriso, come era solito fare per la maggior parte delle
sorprese che la
vita gli proponeva. E si era dichiarato in un modo forse troppo
spregiudicato,
per i canoni forbiti del Palazzo. Nonostante tutto, Kiku aveva
accettato.
A
volte, però, Alfred faticava a capire perché il
Samurai
gli concedesse il corpo, se non era disposto a fare altrettanto con il
cuore.
Le emozioni di Kiku erano sempre fossilizzate negli occhi o barricate
nella
gola, e non trapelavano nemmeno nei momenti di intimità con
il suo amante.
Questa sua tendenza si era acuita quando era rimasto orfano di nuovo,
senza
padre e senza fratello.
Alfred
strinse i pugni sul materasso sottile. Che senso
aveva essere amanti, se aveva accesso solo al suo fisico e non alla sua
anima?
Che razza di eroe non era in grado di salvare nemmeno la persona di cui
era
innamorato?
Si
domandava con quali sentimenti Kiku giacesse con lui.
L’Aquila si sentiva ogni volta travolto dalle emozioni, con
gli organi
scombinati tra di loro: il cuore nelle orecchie, lo stomaco in gola, i
polmoni
nel naso. Si univa a lui per amore, e non aveva nemmeno bisogno di
dimostrarlo:
il suo battito forsennato parlava per lui. Al contrario, Kiku sembrava
più
sollevato che partecipe, come una persona che spalma un balsamo su
un’ustione.
Alfred
morse un sospiro sulle labbra. Non voleva essere un
rimedio conveniente; voleva essere l’unica persona
indispensabile per il
Samurai. Voleva essere… Heracles.
Forzò
un sorriso mentre accarezzava il volto liscio del suo
compagno, cercando di esiliare quei pensieri tortuosi.
«Kiku»
lo chiamò, ostentando allegria. «Dimmi
qualcosa.»
Il
giovane volse il viso all’interno del suo palmo,
solleticandogli il polso con le labbra morbide.
«Non
fermarti» sussurrò.
Una
risatina incespicò sulla bocca dell’Aquila. Non
era
quello che sperava. Avrebbe preferito sentirsi dire “non
lasciarmi solo” oppure
“ho bisogno di te”. Ma Kiku non chiedeva mai aiuto,
nemmeno agli eroi che
esistevano appositamente per salvare gli altri.
Sciolse
la cintura del kimono
del giovane, e le mani scivolarono automaticamente sul corpo nudo che
tanto
desideravano. Sapeva che il Samurai non provava i suoi stessi
sentimenti, e
sapeva che avrebbe dovuto rifiutare e aspettare che le loro emozioni
fossero
reciproche. Ma sapeva altrettanto bene che non avrebbe sopportato di
vedere
Kiku scivolare in un baratro di solitudine da solo, asserragliato nel
silenzio.
Non
poteva ancora essere un appiglio per prevenire la sua
caduta, ma poteva essere almeno la medicina che avrebbe lenito la
ferita.
Cercò
di fare del suo meglio, mentre si impossessava di quel
corpo tanto amato, che si inarcava contro di lui.
L’Aquila
avrebbe dovuto volare ancora più in alto, per
salvare la sua unica stella dal cielo nero in cui si era
avvolta…
Troppo
veloce? Volete saperne di più sull’Aquila e sulla
Stella Polare, sui dovecomequandoperché? I prossimi capitoli
spiegheranno ogni
cosa<3 E ciò che non spiegheranno loro
sarà spiegato negli spin-off.
Sì,
ormai è ufficiale: quando Caleidoscopio avrà
termine,
partiranno gli spin-off XD Saranno una serie di one-shot o brevi long
(tre o
quattro capitoli massimo) sull’infanzia dei fratelli Vargas,
sugli Hellsing, i
Marauder, i Carriedo e così via. E approfitto per lanciarvi
un appello riguardo
gli spin-off: se c’è qualcosa su cui desiderate
ulteriori informazioni, o un
pezzo che vi piacerebbe leggere, fate richiesta<3
Segnerò tutto su un foglio
di Word e vi accontenterò un capitolo per volta *yep*.
E
ora, qualche piccola precisazione storica<3 Gli
avvenimenti della Piazza della Pace Celeste sono un riferimento al
massacro di
piazza Tienanmen (1989, conosciuta anche come
“l’incidente del quattro giugno”),
in cui studenti e civili protestarono contro la classe politica cinese;
questa
rivolta pacifica venne soppressa nel sangue. Il governo cinese
proibì qualunque
fuga di notizie su questo incidente, per cui i dettagli sulle vittime o
sulle
modalità dell’attacco militare sono
tutt’oggi piuttosto confuse.
In
Caleidoscopio ho rimaneggiato la storia in modo che il
massacro fosse opera di un gruppo di terroristi; tuttavia, per rispetto
alle
vittime, mi è sembrato giusto mantenere simile il nome della
piazza (in
originale: “il Cancello della Pace Celeste”), e
ricordare che la maggior parte
delle vittime furono studenti.
Altra
nota: il codice ferreo imposto da Kiku è ispirato al
kyokuchuu hatto di Hijikata Toshizo, ossia il rigido codice di
comportamento
della Shinsengumi, che prevedeva il seppuku (suicidio rituale mediante
sventramento e decapitazione) come punizione per chi trasgrediva le
regole. Il
nostro Kiku non è così estremista, ma la fonte
storica è questa<3
Ultima
nota, la più leggera di tutte: gli onigiri
sono le palline di riso<3
E
dopo questo papiro, vi saluto e vi do appuntamento tra due
settimane, senza ritardi questa volta<3
E
ricordate: se avete richieste per gli spin-off, non siate
timidi<3
A
presto!