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Autore: youbleedtoknowyourealive    20/02/2014    0 recensioni
Adam non era uno dei ragazzi che si considerano “normali”.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Adam non era uno dei ragazzi che si considerano “normali”.
Fin da quando era piccolo, quando io e suo padre avevamo divorziato, si era dimostrato alquanto strano.
Passava le sue giornate chiuso in camera, a scribacchiare sul suo block notes.
Quando bussavo per entrare, lui mi respingeva e mi gridava di andarmene, quando gli chiedevo cosa scriveva sul suo blocco appunti, lui mi diceva con toni scorbutici di farmi gli affari miei.
Lui ha sempre amato scrivere, anche quando era quasi maggiorenne, preferiva buttare inchiostro su dei fogli bianchi piuttosto che uscire a divertirsi con gli amici o a giocare a pallone.
Ovunque andava, portava con sé un foglio e una penna.
Quando mi arrivò quella telefonata dalla polizia, quella tanto attesa telefonata, quella in cui mi aspettavo di sentire “Abbiamo trovato suo figlio, tra poco lo riportiamo a casa, stia tranquilla”, mi crollò il mondo addosso.
Mi dissero che Adam, mio figlio, il mio bambino, si era suicidato.
So solo, da quel che mi dissero, che ero svenuta vicino alla cornetta del telefono. 
Mi risvegliai in ospedale, con una flebo attaccata al braccio, un forte mal di testa e con un gran profumo di pulito.
Ho sempre avuto paura degli ospedali, mio padre morì quando ero molto piccola, dopo mesi di ricovero.
Da bambina odiavo quell’odore, mi faceva sentire inquieta.
Forse era la flebo, forse era il fatto che mi ero appena svegliata, ma non avevo paura, mi sentivo terribilmente rilassata.
Ora quell’odore mi piaceva, ma non sapevo che in seguito l’avrei odiato ancora.
Arrivò il medico, che mi chiese come stavo.
-Bene-, risposi, -Ma perché sono qui? Cos’è successo?-
Lui per un momento mi fissò, poi disse:- Non si preoccupi, l’importante è che ora stia bene.
Mi guardavo intorno con aria interrogativa, non ricordavo della telefonata della polizia, forse mentre svenni battei la testa.
Feci per accendere la televisione, ma il medico mi tolse il telecomando di mano.
-Meglio se per ora si riposa, signora, torni a dormire.- e uscì. 
Non volevo dormire, volevo solo aspettare che Adam chiamasse, che mi dicesse
–Mamma, sono a casa, non preoccuparti.
Poi ricordai. Ricordai della telefonata della polizia, di come per un momento non avrei voluto crederci. Ricordai del’attimo in cui svenni. 
Scoppiai a piangere, singhiozzi disperati uniti a gemiti di dolore.
Entrò un’infermiera, e quasi urlando le chiesi:-Mio figlio? Dov’è mio figlio? Non è morto vero?
Non dimenticherò mai il suo sguardo, aveva gli occhi posati su di me, quasi in un’espressione di pena.
Non sapeva cosa rispondermi, arrivò il medico, la mandò via e mi disse:-Signora, le ho già detto di stare calma, su non si preoccupi.-
Io non volevo stare calma, volevo solo sapere se mio figlio fosse vivo.
                                     ˜˜˜
Caddi in depressione, non mangiavo più, non dormivo più, ero quasi un vegetale, più morta che viva.
Mi chiusero in un ospedale psichiatrico, ci passai anni, ero schiacciata da quell’odore di pulito, che ora odiavo come mai.
Mi davano pillole su pillole, da ingerire come fossero caramelle.   
Non capivo a cosa servissero, di certo non mi facevano stare meglio.
Ci fu un periodo in cui ricominciai a mangiare qualcosa, ma quando passò un anno dalla morte di Adam, ricaddi nello sconforto.
Fingevo di stare bene, solo per uscire da quell’orribile posto, volevo tornare a casa, nella solitudine più totale.
Dopo 5 anni lì dentro, finalmente dissero che potevo andare.
Misi nella valigia le poche cose che avevo, e mi avviai verso casa. 
Una volta lì, fu come se non fosse cambiato nulla, facevo finta che Adam fosse ancora vivo, cucinavo, parlavo con lui.
In realtà, sapevo che era morto, che non poteva rispondermi, ma comportarmi in quel modo mi faceva stare, se non bene, meglio. 
Ma dopo solo qualche mese, ricaddi in depressione, mi rinchiusero di nuovo in ospedale, e intanto stavo sempre peggio.
Non mangiavo, il mio peso era calato a dismisura, nascondevo le pillole nel vaso di fiori, pur di non prenderle io, e per non farle trovare dagli infermieri. 
I giorni trascorrevano lenti, e cercavo di stare meglio, mi ripetevo che mio figlio era morto, ma che comunque era sempre con me, che mi voleva bene.
Ricominciai a mangiare, stavo meglio, anche i medici lo dicevano, ma questa volta me ne rendevo conto io stessa.
Rimisi i chili che avevo perso, guardandomi allo specchio mi sentivo bella, stavo veramente bene. 
Finalmente uscii, determinata a trascorrere gli anni che mi restavano in maniera spensierata, felice.
Ci furono diversi alti e bassi, ma niente di grave.
Ora sono rientrata nella camera di Adam.
Ci sono tutti i suoi block notes, da un lato voglio leggere cosa scriveva, ma dall’altro mi sembra di irrompere nella sua privacy.
Mi faccio coraggio, ne prendo uno e comincio a leggere.
E’ pieno di scritte come “vorrei farla finita, ma mi dispiace per mia madre, so che starebbe male se non fossi più accanto a lei” o ancora “non ce la faccio a vivere così, domani mi uccido”.
Cuore in mille pezzi. Pugno nello stomaco.
Perché, figlio mio? Cosa ti faceva stare così? Forse avevi bisogno di una figura paterna, ma io ero convinta che se mi fossi risposata mi avresti odiata.
Figlio mio, sto venendo a chiedertelo.
Vado in cucina, prendo un coltello.
E la faccio finita, la faccio finita a tutte le preoccupazioni, a tutti i dispiaceri, a tutte le domande a cui non so trovar risposta.
Aspettami, figlio mio, sto arrivando.
  
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