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Autore: DarkPenn    21/06/2008    2 recensioni
La carne dell'uomo non è che un bozzolo da cui escono mostri. Alcuni di essi sono atroci forme biomeccaniche, ma altri mantengono aspetto umano... Esperimento cyberpunk in due capitoli. A seconda dell'accoglienza si deciderà di proseguire o meno.
Genere: Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Guts, Puck
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: Contenuti forti
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CAPITOLO 2: REQUIEM ELETTROMECCANICO


Una volta uscito dal locale il cyborg si dileguò confondendosi nella notte, abbastanza sicuro di essersi guadagnato un po’ di tempo dopo il macello che aveva provocato. In un vicolo buio si concesse di prendere ampie boccate di un’aria che sapeva di bruciato e di decadenza. Lanciò un rapido programma diagnostico per assicurarsi che tutto il suo hardware funzionasse bene, ma qualcosa andò storto. La musica che proveniva dalla sua iSword attraverso gli auricolari crepitò e si scisse in un insieme di note casuali prima di essere sostituita da una vocina acuta che l’uomo aveva già sentito di recente.
“Wow, certo che li hai sistemati per le feste quegli zoticoni!” gli trillò nelle orecchie l’elfo.
Soffocando una sequela di imprecazioni il cyborg si guardò circospetto attorno prima di cominciare a parlare sottovoce nel microfono della spada. “Esci subito dal mio hardware!”
“Cosa?”
“Esci dal mio hardware!”
“Ah, sì, scusa se non ti ho chiesto il permesso, ma non potevo certo restare in quel rottame di portatile in attesa che qualcuno finisse il lavoro che mi avevano iniziato! Hai un cervello elettronico integrato, vero?”
“Sì, ma non ti azzardare neanche…”
“Perfetto!”
Prima che il cyborg potesse finire la frase una minuscola figurina luminosa si era materializzata di fronte ai suoi occhi: era un umanoide nudo, dai capelli verde-azzurri e dalle ali di un insetto, che gli sorrideva sfacciato. L’uomo tentò inutilmente di afferrarlo, ma l’esserino gli sgusciò tra le dita.
“Così si sta molto meglio,” disse la figura, volteggiando beata nel suo campo visivo.
“Non ti ho dato il permesso neanche di installarti nel mio cervello, né di inserirti nel mio circuito visivo, dannato virus!”
“Ehi, modera il linguaggio,” lo rimproverò l’altro, la cui voce ora sembrava effettivamente provenire dalla creatura volante. “Io non sono un virus, sono un elfo!”
“Un che?”
“Electronic Life Form: Forma di Vita Elettronica, E.L.F. Elfo,” spiegò la creatura, come se stesse spiegando a un bambino di essere un professore universitario. “E mi chiamo Pak. Tu invece…”
“Non esistono forme di vita elettroniche, sono solo cazzate,” replicò l’altro, sempre meno paziente. “Sei solo un programma megalomane che presto sarà cancellato dal mio antivirus.”
“Non credo proprio,” rispose Pak, gongolando. Effettivamente, l’ologramma non scompariva, e il cyborg si stava decisamente arrabbiando.
“Cosa diavolo hai fatto al mio antivirus, brutto…”
Le parole dell’uomo gli morirono in gola quando sentì il rombo dei motori in avvicinamento: la sua trappola stava per chiudersi…
Pak si voltò allarmato verso l’origine del rumore. “Muoviti,” ingiunse al cyborg, “altrimenti ci prenderanno!”
“Loro vengono qui per me, piattola. Tu non sei neanche vivo, quindi non possono farti niente. Ora vedi di scomparire e non disturbarmi più.
Contrariato, l’elfo scomparve dal suo campo visivo. Il cyborg si concesse finalmente un sorriso.

Ogni fibra del suo essere era dolorante. Gli avevano messo dei blocchi neurali che gli avevano interrotto tutti gli impulsi verso il suo hardware, sicché ora giaceva immobile nella cella, incapace di muovere un muscolo. Poteva solo ripensare alle scariche elettriche che quei sadici di merda gli avevano rifilato, solo perché aveva smaltito un po’ della spazzatura che gravitava nella loro giurisdizione. Certo, avevano ammirato la sua Ammazzadraghi, l’iSword piuttosto primitiva che si portava appresso, come anche il suo armamentario tecnologico, da cui avevano giustamente dedotto che lui non era un semplice vagabondo. Tuttavia non si era scucito sulle sue motivazioni, se non per mandare al diavolo i suoi aguzzini e suscitare ancora di più la loro ira. Ma in fondo aveva visto di peggio…
Ora però si era cacciato in un guaio. Non aveva previsto che gli avrebbero bloccato i circuiti neurali: se Koca fosse arrivato a vederlo morire in quel momento non avrebbe avuto speranze. Se non fosse stato per quel lurido ammasso di byte difettoso, il suo antivirus non avrebbe fatto cilecca ed ora non si sarebbe trovato in quella situazione pericolosa… Doveva inventarsi qualcosa alla svelta, poiché era sicuro che presto Koca sarebbe arrivato.
Il cyborg di guardia passò sferragliando davanti alla porta magnetica della cella. Era un vecchio modello, non avrebbe avuto problemi a disfarsi di lui, se solo non avesse avuto i blocchi…
“Come ci si sente senza il controllo del proprio corpo, eh?” lo prese in giro il guardiano.
“Fottiti,” rispose a denti stretti l’altro, l’unico movimento di cui era ancora capace.
All’improvviso il guardiano si irrigidì e perse ogni espressione dal suo volto. La luce sfavillò prima di tornare normale, e i blocchi neurali erano svaniti. Il cyborg era di nuovo proprietario del proprio corpo. Una fitta di dolore lo fece contorcere sul pavimento, mentre il suo sistema nervoso si riassestava attorno agli impianti elettronici. Quando le orecchie finirono di ronzargli sentì, proveniente dal terminale delle celle, una voce fin troppo familiare canticchiare una canzoncina banale.
“Ancora tu…” ringhiò dal dolore rivolto al computer.
“E così siamo pari,” gongolò Pak dall’altoparlante.
“Come diavolo hai fatto ad hackerare il sistema?”
“Noi elfi siamo pieni di risorse, bello.”
“Non chiamarmi ‘bello’. Il mio nome è Gatsu.”
“Ah, e così finalmente posso chiamarti con un nome decente invece che ‘quel grosso omone che mi ha salvato la vita’. Certo, non che Gatsu sia granché, come nome, ma… Ehi, dove vai??”
Durante il soliloquio dell’elfo Gatsu si era alzato, aveva aperto la porta della cella, ormai non più sbarrata grazie all’intervento di Pak, e si era diretto verso l’interno dell’edificio.
“Guarda che l’uscita è dall’altra parte!” gli fece notare Pak.
“Lo so,” fu la risposta, “ma il mio equipaggiamento è per di qua.”
“Non ti servirà a niente il tuo equipaggiamento se sarai morto. Sicuramente Koca starà venendo qui, e non basterebbe un bombardamento orbitale per tenergli testa. Tu non lo sai, ma quello è un mostro…”
A quelle parole Gatsu si impietrì. Lentamente, si voltò a guardare la webcam del monitor, che nel frattempo aveva seguito tutti i suoi movimenti. La mano organica si sollevò a sfiorarsi l’occhio cibernetico, il destro. “Credimi,” disse, gelido. “Lo so bene.”
Pak era rimasto senza parole per la seconda volta quella giornata. Non si era aspettato che quel tizio, per quanto truce potesse essere, fosse capace di esprimere una tale ferocia con un solo sguardo. Senza neanche pensarci su, si trasferì nel cervello elettronico del cyborg. Quasi istantaneamente, la figura eterea dell’elfo gli comparve davanti agli occhi.
“Dannazione,” imprecò a denti stretti, “levati di mezzo o mi farai ammazzare!”
“Promettimi che non tenterai di cancellarmi e ti riattivo l’antivirus, così eviterai che ti facciano altri giochetti al cervello,” lo interruppe Pak, stranamente serio. Gatsu sembrò rimuginare per un attimo, poi prese una decisione.
“Potresti essermi utile, vista la tua facilità ad hackerare i sistemi integrati, compreso il mio. Hai disattivato anche gli altri cyborg di guardia della prigione, vero?”
“Sì…” Pak era titubante ora, perché avvertiva una strana sensazione provenire dal nucleo emotivo del suo ospite. Non sembrava affatto spaventato dalla prospettiva di incontrare il mostruoso Koca. Anzi, sembrava eccitato.
“Bene,” disse Gatsu con un sorriso feroce, “allora rilassati e goditi lo spettacolo.”

Il quartiere era a ferro e fuoco. Quando a Koca fu giunta la notizia che il Guerriero Nero era arrivato e aveva ucciso i suoi uomini, aveva mobilitato tutto il resto delle sue forze per andare incontro alla sua nemesi. E sulla strada, perché no, avrebbe fatto una strage. Si era sempre divertito ad uccidere, anche quando era un semplice essere umano. Poi aveva sentito di un guerriero misterioso che girava le Midlands uccidendo i suoi simili, e da allora smaniava di incontrarlo. Non vedeva l’ora di assaggiare la carne di un uomo tanto forte da uccidere un Apostolo.
Nell’armatura biomeccanica che si era fatto costruire, Koca era mostruoso: alto quasi due metri, non si sforzava di nascondere la sua natura inumana. Gli occhi brillavano di una luce inquietante e i denti che sfoggiava erano naturalmente appuntiti. In sella alla sua motocicletta, stringendo la sua lancia ad energia, sembrava un vero demone.
“Non lasciate anima viva,” ordinò ai suoi uomini con un sorriso selvaggio. “Tanto i morti di oggi verranno sostituiti dall’immigrazione. Stanate quel guerriero e portatemelo vivo, ad ogni costo!”
I suoi mercenari obbedirono all’unisono all’ordine, poiché sapevano bene qual era il destino di coloro che non lo soddisfacevano.
Un gruppetto si avvicinò ad una casa in lamiera, già avvolta dalle fiamme prodotte dalla benzina.
“Dai, non sarà rimasto nessuno vivo dentro, andiamocene,” disse uno di loro, ma il più basso dei mercenari voleva insistere. Non appena aprì la porta, un gigantesco blocco di ferro lo aprì in senso verticale come se fosse burro. Prima che i suoi compagni potessero puntare le armi, il blocco di ferro si trasformò in un disco argenteo, mentre il proprietario roteava su se stesso, e li falciò all’altezza della vita. Quando il mulinare si fu fermato, Gatsu riprese subito l’equilibrio, cercando con lo sguardo il suo avversario pregustato.
Gli altri soldati di Koca caricarono subito in sella alle loro motociclette, emettendo sottili lame di luce elettrica dalle punte delle lance, ma il Guerriero Nero non li guardò neanche. Fulmineo, sventagliò di fronte a sé il braccio sinistro, la cui mitragliatrice ad alta energia fece scempio dei soldati e dei loro mezzi.
L’ondata di piombo arricchito lasciò in piedi un solo uomo nello sfacelo cremisi che aveva provocato. Koca rise di gusto, mentre accarezzava le ammaccature che i proiettili avevano provocato sulla sua armatura. Persino la ferita provocatagli da uno di essi sul volto sembrava non impensierirlo.
“E così tu sei il famoso Guerriero Nero,” si limitò a dire.
Gatsu non rispose. Una nuova raffica, questa volta concentrata, investì il capo dei mercenari, scaraventandolo nelle rovine del bar in cui poche ore prima Gatsu aveva reso nota la sua presenza.
“L’hai sconfitto, sei un grande!” ronzò Pak nella testa del guerriero.
“Zitto,” lo rimproverò l’altro. “Non è finita.”
Dalle macerie dell’edificio eruppe una colonna di fuoco, mentre il ruggito delle fiamme circostanti veniva superato da un ruggito tutt’altro che umano. Il fuoco si acquietò mentre dal fumo emergeva una figura immensa, molte volte più alta di Gatsu. La trasformazione non era ancora completa, e Pak emise un verso stridulo di orrore quando vide l’armatura di Koca fibrillare come una cosa viva e fondersi con la carne sottostante, diventando simile alle scaglie di un serpente. Si udì distintamente il rumore delle ossa spezzate mentre le macchine interne al corpo del mostro ne modificavano la morfologia. Il suo volto, sbiancato, era contorto in un ghigno crudele, mentre dalle labbra gli spuntava una lingua lunga e biforcuta.
“Finalmente, mi stavo stancando,” mormorò Gatsu, impugnando l’Ammazzadraghi.
Koca non esitò un secondo; la sua immensa massa scattò in avanti ad una velocità incredibile e colpì il cyborg con la coda muscolosa, spedendolo contro un muro semi-diroccato.
“Non sei poi così forte,” disse il mostro, la cui voce resa cupa dalla trasformazione usciva da un altoparlante alla base del volto. Quando lo vide rialzarsi, però sollevò un sopracciglio. “Però sei resistente. Ma di sicuro non puoi resistere all’infinito!”
Koca tese il braccio destro verso Gatsu ed il suo artiglio si allungò all’inverosimile, affondando il Guerriero nel muro. La sua risata sovrastò di nuovo le fiamme. Notando che il suo nemico non si muoveva più, ritrasse l’artiglio, chiudendolo sul corpo esanime di Gatsu.
“Ma come, è già finita?” si lamentò. “Stento a credere che tu abbia già ucciso tanti Apostoli… forse la tua fama è tutta una montatura, creata ad arte da qualche musicista rock da strapazzo per vendere più canzoni…”
Borioso com’era, Koca non si era accorto che Gatsu, tutt’altro che morto o svenuto, gli aveva puntato al collo il suo braccio cibernetico.
“E’ inutile!” trillò Pak angosciato, “i tuoi proiettili non gli fanno niente!”
Ma non era la mitragliatrice che il cyborg intendeva usare. La mano meccanica si abbassò e un fascio di luce concreta trapassò il collo di Koca con un rombo in grado di frantumare i timpani. Il rinculo e l’effetto sorpresa permisero a Gatsu di liberarsi dalla presa del mostro. Non appena ebbe toccato terra il guerriero, impugnò con entrambe le mani l’iSword e si lanciò contro il nemico. Troppo stupefatto dall’orrore di essere stato colpito così duramente, Koca non poté evitare il fendente che gli staccò la parte superiore del torso dal resto del corpo.
Urlando per il dolore, l’Apostolo non poteva fare altro che dibattersi nel proprio stesso liquido interno, formato da sangue e lubrificante, mentre Gatsu, ansimante, si avvicinava a lui.
“Un cannone a particelle da artiglieria!” gemette il mostro. “Come facevi ad avere un’arma così potente in quel braccio?!”
Per tutta risposta Gatsu gli scaricò una raffica di proiettili sulla testa, che lo fece strillare di dolore a dispetto della sua presunta invulnerabilità.
“Non sono affari tuoi,” disse il cyborg dopo avergli pestato la testa con un piede. “Rispondimi. Dove si trova la Mano di Dio?”
La risposta di Koca dovette essere sollecitata da un’altra scarica di proiettili. “L-loro non appartengono a questa realtà!”
“Il loro mainframe!” rincarò Gatsu. “Dove si trova il mainframe che li ospita?!”
“Loro… Loro non hanno un mainframe… Non esiste un hardware in cui sono confinate le loro essenze! Sono del tutto al di fuori della nostra portata!”
Dopo un breve attimo, il cyborg tolse il piede dalla testa di Koca. “Sei fortunato,” disse solamente.
“C-che cosa stai dicendo?”
“Il mio cannone si è appena raffreddato. Ora puoi morire.”
Dopo queste parole l’uomo puntò il braccio sinistro contro la testa del mostro e fece fuoco. Il rinculo lo fece scivolare all’indietro e gemere di dolore, ma di Koca non erano rimaste che ceneri e pulviscolo atmosferico.
Dopo aver spento la vibrazione dell’Ammazzadraghi, se la issò sulla schiena, cercò una motocicletta ancora funzionante e vi salì sopra. Mentre si allontanavano a tutta velocità dal panorama di distruzione che si erano lasciati alle spalle, Pak, non osando fiatare né manifestare il proprio ologramma, non poté che rabbrividire di fronte alla folle rabbia mista al terrore e alla gioia feroce che Gatsu provava nella parte meno elettronica del proprio cervello.


Fine
  
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