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Autore: Amens Ophelia    23/02/2014    8 recensioni
[SasuHina]
Hinata ha poche certezze, dietro quegli occhi chiarissimi: sa che il sole sorge e tramonta sempre, anche dietro le nuvole, e che il suo astro personale è un ragazzo biondo, in classe con lei. Purtroppo è anche a conoscenza del fatto che lui non lo saprà mai.
Troppe sono le cose che ignora pericolosamente, come il posto che occupa nei pensieri di Sasuke Uchiha.
(NB: accenno SasuKarin)
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hinata Hyuuga, Naruto Uzumaki, Neji Hyuuga, Sasuke Uchiha | Coppie: Hinata/Sasuke
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun contesto
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16. Tessere di un mosaico

 

 
Non appena lui varcò l’ingresso della struttura, una donna, da dietro al bancone, riagganciò la cornetta del telefono e, preoccupata, chiamò un infermiere per fargli medicare quella bocca ferita e deturpata; così, ora, Sasuke si ritrovava con due graffette sul labbro superiore. Nonostante esse pizzicassero, non riusciva a provare abbastanza dolore, non quanto ne desiderava.

 L’ambiente asettico, le luci prepotentemente puntate addosso, così bianche da abbagliarlo, lo facevano sentire persino peggio che al cantiere. Immaginava che quella potesse quasi essere la stessa sensazione opprimente che colpiva gli indiziati interrogati a tappeto dal padre, nella fredda stanza della stazione di polizia, ma lui, forse, era ancora più colpevole di un criminale. Non era stato in grado di salvarla, quando lei, invece, era riuscita a soccorrerlo inconsapevolmente più volte, in quel breve arco di tempo.
            «Giovanotto, voi tre potete rimanere qui ad attendere i vostri familiari, a patto che non facciate baccano, d’accordo?», gli strizzò l’occhio il giovane primario, rientrando nel corridoio da cui era appena sbucato fuori.
             Sasuke, per tutta risposta, sospirò profondamente, facendo aderire la colonna vertebrale al gelido schienale della poltroncina, in quella sala d’attesa spettrale, deserta e incredibilmente nauseante. Fissò gli occhi nella lampadina bianca che lo puntava a mo’ di occhio di bue, cercando consolazione nella cecità; se non fossero giunti i rapidi passi di Neji e Itachi, a distrarlo, probabilmente sarebbe riuscito a compromettere le sue pupille e a bearsi del buio. Per una volta, avrebbe trovato salvezza nel nero, annullando quegli sprazzi di colori che aveva cominciato a conoscere da poco tempo, ma che erano stati devastanti, nella loro vivacità. Doveva tale brillantezza solo a una persona, la stessa che ora riposava – sorvegliata dai medici - nella stanza che, da quella posizione, riusciva a intravedere, di fronte a lui.

«Sapete esattamente cosa dovete fare, adesso, vero?», domandò il ventitreenne, sedendosi stancamente accanto al fratello.
            Lo Hyuga annuì meccanicamente, fissando le due piante che ornavano il tavolino della sala. Non trovava il coraggio per farlo, ma si rendeva conto che doveva chiamare casa e comunicare quella notizia a Hiashi.
            «Come posso dirglielo, senza ferirlo?», chiese quasi a se stesso, ignorando gli altri due.
            «Per quanto tu possa zuccherarla, la pillola resterà amara. Non servono giri di parole, devi solo avvertirlo. Hinata è ancora minorenne e, inoltre, ha bisogno di suo padre, in questo momento», lo spronò Itachi, rialzandosi e poggiandogli una mano sulla spalla.
             Gli faceva male osservare quell’insicurezza nel ragazzo; era maturato al suo fianco, durante i duri allenamenti e gli scontri sul tatami, e Neji non aveva mai concesso spazio ad alcun tipo di emozione, sul volto. Certo, in cuor suo gioiva per una vittoria o s’adirava per una sconfitta, ma i suoi lineamenti – nell’uno o nell’altro caso – non erano mai mutati. Covava dentro le sue sensazioni, per lasciarle esplodere placidamente, come una colata lavica che dal cuore si spargeva lentamente negli arti, per poi solidificarsi senza strepitii. Era la rappresentazione vivente della disciplina e dell’autocontrollo, ma, in quel frangente, la sua impassibilità era scomparsa. Itachi poteva contare le rughe formatesi sulla sua fronte, o ammirare con apprensione l’incedere delle lacrime, dietro le sue iridi; non avrebbero trovato sfogo, ne era sicuro, e questo, anziché rassicurarlo, lo fece preoccupare ancor di più. Lo Hyuga era preda del disarmo, della paura, dell’impasse di quel tremendo martedì notte, e non sembrava trovare abbastanza ragionevolezza, nei propri pensieri, per smuoversi.
            «Non posso dirgli una cosa del genere», mugugnò sottovoce, trascurando la vicinanza del ragazzo dal lungo codino.
            «Devi, Neji! È un obbligo morale, oltreché la miglior cosa da fare», insisté quello, scuotendolo per le spalle.
            Il giovane si ridestò, seppur ancora visibilmente turbato, e assecondò quelle parole con un cenno del capo. Si allontanò velocemente da lì, prima che il timore potesse rapirlo ancora, e fece tintinnare nella tasca dei jeans le monete ricevute come resto al bar. Si ricordò di non avere con sé il cellulare, perciò si diresse verso il pianerottolo dove, infissi ai muri, c’erano ancora dei vecchi telefoni a gettoni.
            Quella sarebbe stata la telefonata più faticosa della sua vita, pensò, mentre cambiava qualche ryo in fiches.
            Sollevò la cornetta, fece cadere tre gettoni nella fessura, e digitò velocemente il numero di casa. Una parte di lui sperava che nessuno rispondesse, soprattutto Hiashi, ma l’altra, fortemente ligia al dovere, lo incitava a tener duro e affrontare la situazione di petto, per il bene di Hinata. Era necessario che lo zio fosse messo al corrente di tutto, nonché naturale, dal momento che era il genitore della vittima.
            Aveva sempre giurato a se stesso che non avrebbe mai deluso, né tantomeno addolorato, quell’uomo già provato da dure sofferenze, ma, ora, a causa di forze maggiori, avrebbe dovuto spezzare quella promessa. Ciò faceva di lui un fraudolento? Forse, semplicemente, questo venir meno al patto con la propria mente induceva il cuore a salire a galla, costringendolo a ricredersi sulla propria natura: Neji Hyuga non era un automa, ma un essere umano.
 
***
 
Il tempo passava lentamente e in silenzio, come sempre, fra loro. Due fratelli che, oltre ai tratti somatici e il cognome, condividevano ben poco, apparentemente: uno intelligente, prossimo alla laurea, e sensibile come pochi, l’altro non meno brillante negli studi, ma poco incline alle relazioni umane. Eppure, erano proprio quelle parole mancate a legarli in maniera così profonda, permettendo loro di comprendersi in un batter d’occhio. E quel legame sincero, viscerale, imperituro nonostante i litigi e le palizzate che l’uno aveva eretto contro l’altro, in quegli anni, era stato ciò che aveva spinto Sasuke a chiamare Itachi, anziché quel numero che chiunque avrebbe composto, di fronte alla scena in cui si era imbattuto al cantiere. La persona in cui riponeva più fiducia al mondo era l’aniki; la polizia, per quanto suo padre ne fosse un illustre membro, rimaneva per lui una pura istituzione, fredda e meccanica quanto le altre, con la sua burocrazia, i metodi brutali e le mille, lente procedure che la contraddistinguevano. Nel momento del bisogno, le dita erano corse nella rubrica del cellulare, alla ricerca disperata di quell’àncora di salvezza che, ora, lo guardava con preoccupazione.
            «Grazie per essere arrivato tanto tempestivamente», asserì Sasuke, una volta ripresosi dal subbuglio interiore.
            Il maggiore nemmeno fece caso a quelle parole. Si limitò a risedersi di nuovo accanto al ragazzo, intrecciando le lunghe dita e osservando la stanza illuminata, di fronte a loro. Non v’erano rumori, né meccanici, né umani. Le apparecchiature non erano in funzione, apparentemente, e i medici stavano monitorando con tacita perizia la situazione della degente.
            «Va meglio, ora?», chiese all’otouto, notando quanto fosse più calmo e presente.
            «Sì... Almeno adesso so che è al sicuro».
            L’aniki annuì, per poi prendere un respiro profondo. «Devi chiamarlo. Prima che se ne occupino loro, devi telefonargli», affermò, puntando i gomiti sulle ginocchia e portandosi le mani giunte alla fronte.
            «Fallo tu!», protestò l’altro, a bassa voce.
            «Come, prego?», quasi scoppiò a ridere per l’inattesa replica. Si sarebbe aspettato un insulto o un rifiuto sonoro, non di certo quell’infantile lamentela. Solo quando erano bambini lui se ne usciva con quelle lagnanze a denti stretti, con tono stanco; Itachi, allora, gli pizzicava amorevolmente una guancia o gli assestava un buffetto affettuoso sulla fronte, e l’altro sorrideva, dimenticandosi del broncio.
            «Non intendo parlare con lui».
            «Ti è dato di volta il cervello? È il capo della polizia…», sgranò gli occhi Itachi.
            «È nostro padre e tu sei il suo prediletto! Non ho voglia di sentirlo. L’ultima volta che ci siamo rivolti la parola, mi ha detto che non combinerò mai nulla di buono», sbottò Sasuke, alzandosi in piedi. Stringeva i pugni e poteva sentire il sangue ribollire nelle vene, sopraffatto dalla frustrazione. Inspirò profondamente, per poi girarsi verso il ventitreenne e regalargli un sorriso tirato. «Non che si sia sbagliato più di tanto, in effetti», concluse amaramente, alludendo alla vicenda di Hinata.
            «Non è stata colpa tua», lo rassicurò l’altro, incrociando le braccia.
            «Ah no? E perché quel bastardo ha chiamato proprio me? Cosa c’entrava lei, poi? Poteva vedersela direttamente con me!». Era furente, ma straordinariamente lucido.
            «È la mentalità dei criminali. Non spetta a noi entrare nella loro psiche; ecco perché dovresti fare quella chiamata».
            «Puoi benissimo farlo tu… o l’ospedale. Magari l’hanno già contattato, no?», mormorò incerto, quasi ignorando il fratello.
            «Sicuro, il commissariato sarà stato avvertito…».
            «Benissimo, allora qual è il problema?», lo interruppe il ragazzo, spazientito.
            L’aniki sbuffò, scuotendo la testa. «Sasuke! – lo richiamò, alzandosi in piedi – Come pensi che reagirebbe, nostro padre, trovandoci qui e non avendo ricevuto uno straccio di chiamata? Lo deluderemmo, soprattutto tu. E poi, Hinata ha passato tutto quest’inferno e tu non trovi il coraggio di alzare una cornetta? Ti sembra una cosa giusta, nei suoi confronti? Ha messo a repentaglio la propria vita per motivi che noi ignoriamo e tu ti stai rifiutando di riordinare i pezzi del puzzle! D’accordo, se davvero non te la senti, lo chiamerò io…», annunciò, estraendo di tasca il proprio telefonino. Raramente aveva adottato un tono tanto sostenuto e autoritario, specialmente di fronte all’otouto, ma ora era necessario per indurlo a ragionare correttamente. «…Anche se questa era la tua occasione per soccorrerla», concluse, accingendosi a comporre il numero.
            «Lascia perdere, me ne occupo io». Aveva compreso che, in fondo, quello era davvero il minimo sacrificio che poteva compiere per il bene della Hyuga.
 
Il diciottenne si allontanò verso l’uscita del reparto, stringendo spasmodicamente fra le dita le pieghe del pantalone. Itachi aveva dannatamente ragione, come sempre, e più il tempo passava, più pensava che, in fin dei conti, la sua famiglia non sbagliava a ritenerlo il genio di casa. Sempre posato, calmo, razionale e scrupoloso osservatore di persone e situazioni, non si lasciava mai prendere dalla rabbia, né annebbiava il cervello con altre sensazioni devastanti, a sua differenza. Non l’aveva mai visto furioso o irritato, nervoso o malinconico, e delle volte si chiedeva se fosse umano, se davvero condividessero lo stesso patrimonio genetico.
             Anni addietro, estingueva ogni dubbio relegandolo a semplice damerino perfezionista e covando una sottospecie d’invidia, nei suoi confronti, ma negli ultimi tempi aveva trasformato quella sottile concorrenza in leggera ammirazione, consapevole di quanto l’aniki fosse inevitabilmente irraggiungibile. Non poteva che stimarlo, soprattutto in quel momento perché, se non fosse stato per lui, Sasuke sarebbe probabilmente rimasto impietrito al cantiere per altri minuti di vitale importanza, per Hinata.
             Nello spiazzo che conduceva all’ascensore, inspirò profondamente e scosse le spalle, cercando di risvegliarsi dal torpore. Impugnò il cellulare e, combattendo quel maledetto orgoglio che era sempre stato fonte di guai, selezionò dalla rubrica il contatto di Fugaku. Niente centrali, niente poliziotti, niente commissari: aveva bisogno di suo padre.
            «Temo tu abbia sbagliato numero, Sasuke», esordì l’uomo, con voce piatta.
            Il ragazzo ingoiò la saliva che gli impastava la bocca, nonché il desiderio di voler subito riattaccare. «No, papà, cercavo te».
            «Ah», fu tutto ciò che riuscì a dire, non troppo sorpreso. «Ti servono soldi? Hai combinato qualche cazzata?».
            Il figlio strinse i pugni, respirando a fatica. Quasi rimpianse di aver seguito il consiglio del fratello, dopo quella frecciatina del genitore, ma capì che non era il momento d’innervosirsi. D’altronde, il padre non aveva tutti i torti: solitamente, quando lo contattava, era perché si ritrovava a corto di denaro o nei guai con qualche rissa fuori dai pub. Nemmeno quella volta era stata una circostanza fausta a spingerlo a cercarlo, ma, sicuramente, non era andato a procurarsi rogne con le sue stesse mani.
             «No. Non so se ti hanno già informato, in commissariato, ma sono all’ospedale con Itachi e…».
            «Cos’è successo? Si è fatto male? C’è stato un incidente?». La preoccupazione fece raggiungere alla sua voce un tono quasi stridulo, fastidioso, inaspettatamente umano.
            «No, stiamo entrambi bene», si affrettò a rassicurarlo, appoggiando la schiena al muro. «Si tratta di una mia compagna di classe… lei…». Non riusciva più a proseguire, ora che la sua mente gli riproponeva l’ennesima rievocazione dell’incubo. Si portò l’avambraccio sinistro sugli occhi, scoprendoli improvvisamente umidi, e si scostò una ciocca nera dalla fronte, massaggiandosi una tempia, in un gesto di stizza. Aveva una voglia matta di vendicare quel crimine, era assetato di giustizia, ma nella sua forma più errata. «Prima che possa fare una stronzata delle mie e prendere a pugni un passante qualsiasi, vieni!», crollò, alla fine.
            «Che stai dicendo, Sasuke? Ti senti bene?», domandò il padre, per niente tranquillo.
            «Ti prego, ho bisogno di te», riuscì a mormorare, scivolando con la schiena lungo la parete, prima di lasciarsi andare a un silenzioso pianto.
            «Va bene, arrivo subito, ma tu resta lì, chiaro?». Non ricordava tanto smarrimento e afflizione nel figlio, pensava che non avrebbe mai più udito tali richieste d’aiuto, nei suoi confronti, da quando era entrato nella piena adolescenza, ma si sbagliava. Da una parte, la cosa lo spaventava, costringendolo a intuire quanto la situazione fosse delicata, ma, dall’altra, il suo spirito paterno aveva appena ricevuto una formidabile scarica elettrica, tanto poderosa da fargli afferrare le chiavi e costringerlo a salire nella volante.
 
***
 
Il medico era appena uscito dalla stanza, accompagnato da due infermieri, quando fu letteralmente bloccato da Hiashi, che gli tratteneva con vigore una manica del camice. Il dottore si era subito accorto dell’incredibile somiglianza tra lui, la ragazza di cui si era appena occupato e quel giovane dai capelli lunghi che se ne stava qualche metro dietro il nuovo arrivato, con gli occhi bassi. Gli stessi colori di chioma, carnagione e iridi spazzarono via in un secondo qualsiasi dubbio di parentela, smorzandogli in gola la fatidica domanda di rito: “Lei è un familiare?”. Appoggiò una mano sulla spalla dell’uomo, sorridendogli con tranquillità.
            «Sta bene, sta riposando ed è cosciente, nonostante il dormiveglia in cui versava quando è stata portata qui», lo rinfrancò.
            Lentamente, lo Hyuga allentò la presa sul braccio dell’interlocutore, sbattendo le palpebre. Non trovava la forza per porre interrogativi, ma, nella mente, gliene vorticavano un’infinità.
            «Ha riportato qualche escoriazione di poco conto e degli ematomi, ma nessun trauma o frattura. L’unica condizione che ha destato qualche preoccupazione è stata la lieve ipotermia. Quando l’abbiamo condotta in camera, la sua temperatura corporea era di poco inferiore ai trentacinque gradi; come di regola in questi casi, abbiamo provveduto con il riscaldamento passivo, attraverso delle coperte e l’aumento del calore ambientale. Siamo fiduciosi che, nel giro di qualche ora, la termoregolazione sarà completa», affermò il medico, facendo cenno ai suoi collaboratori di potersi allontanare. Secondo la prassi, poi, fece firmare al padre delle carte sul consenso alle cure ospedaliere.
 
Hiashi accolse quelle notizie con stupore, sgranando gli occhi e tremando. Subito pensò che si trattasse di un miracolo e non poté evitare di ricordare Haiko, l’inutile corsa dell’ambulanza in ospedale, quando lei era già morta sulla lettiga. Quel giorno aveva perso fiducia nella medicina, nella polizia, nel destino, in qualsiasi cosa che non fosse la giustizia personale.
             Non aveva idea di cosa fosse accaduto un’ora prima, né aveva chiesto chiarimenti a Neji. Non appena aveva sentito dal nipote che Hinata si trovava in ospedale, si era rapidamente vestito, aveva chiesto a Shimoko di badare ad Hanabi, in sua assenza, se ce ne fosse stata la necessità, e si era fiondato in auto. Hizashi, turbato e stretto nella vestaglia scura, l’aveva bloccato poco prima che lui potesse immettersi in strada, ed egli gli aveva riferito ogni cosa, con il fiato corto. Il gemello l’aveva rassicurato che tutto si sarebbe risolto, ma Hiashi, carico di preoccupazione, aveva messo in moto la vettura, non riuscendo ad ascoltare una sola parola.
            Ora che era là, violentemente messo davanti alla realtà – ben più rosea delle tragiche aspettative, per fortuna – non riusciva comunque a credere che tutto fosse davvero accaduto, né era capace di chiedere delucidazioni, temendo che potessero distruggere la calma che il dottore aveva restaurato nel suo cuore. Eppure, doveva, voleva sapere.
            «Cosa le è successo?», domandò con il tono più calmo che poté recuperare.
            Il suo interlocutore spaziò con lo sguardo alle spalle dell’uomo, in lontananza, guardando i ragazzi seduti sulle poltroncine della sala d’attesa, le pareti color verde acqua, le piante sul tavolino, per poi tornare a osservare Hiashi.
            «Ha subìto un’aggressione, probabilmente un tentativo di stupro, ma non è stata violata. Quei giovanotti laggiù l’hanno portata qui, mezz’ora fa, scongiurando possibili peggioramenti. Questo è tutto ciò che posso dirle, signore. Attenderemo il resoconto della polizia, in questi giorni, per conoscere la dinamica dei fatti direttamente da sua figlia», spiegò.
            Il padre della vittima si sentì mozzare il fiato, da quella rivelazione. Hinata aveva rischiato una violenza sessuale, ma se l’era cavata miracolosamente con leggere ferite. Il pensiero di ciò che avrebbe potuto esserle accaduto lo turbava oltre ogni dire; gli si era creato un nodo in gola, mentre sentiva un macigno gravargli sullo stomaco e, nel petto, addensarsi il desiderio di scovare al più presto il maniaco.
             «Posso… posso entrare da lei?». L’incertezza di non saper bene cosa dirle e come reagire, nel trovarsela davanti, lo fece tentennare un secondo.
            «Purché la mantenga tranquilla, mi raccomando», gli sorrise il dottore, facendosi da parte e lasciandogli libero accesso alla porta.
            Hiashi lo ringraziò, stringendogli la mano, e l’osservò allontanarsi verso la guardiola. Prima di entrare nella stanza, si soffermò sui ragazzi della sala d’attesa. Quello dai capelli più lunghi stava parlando con Neji, l’altro, invece, aveva la testa appoggiata al muro, e lo fissava con gli occhi socchiusi, inespressivamente. Il quarantacinquenne non sapeva cosa fare, se ringraziarlo o condannarlo, capendo al volo chi fosse. I tratti somatici, d’altronde, corrispondevano perfettamente a quelli del commissario di Konoha e degli Uchiha in generale.
            Decise che ci avrebbe pensato più tardi perché, ora, il suo cuore gl’imponeva di occuparsi solo della figlia. Si girò di scatto e oltrepassò la soglia con un magone soffocante, obbligandosi a non lasciarsi prendere dal panico.
 
***
 
L’aria della camera era calda, quasi soffocante, per lui. Hiashi si sfilò il cappotto con lentezza, cercando di provocare meno rumore possibile, e si sorprese nel notare quanto quel gesto banale, quotidiano, risultasse tanto difficile, in quel momento.
              Fece qualche passo in avanti, in direzione del letto, e intravide la chioma scura di Hinata, sparpagliata sul cuscino. “Sta solo dormendo, in fondo”, ricordò a se stesso, cacciando via quel doloroso paragone che gli ronzava in testa da quando aveva messo piede in ospedale. Haiko aveva i suoi stessi capelli blu notte effusi in tal modo, sul guanciale, quando si trovava sul lettino dell’ambulanza.
             “Hinata è viva”, ripeté fra sé diverse volte, come un mantra, mentre si avvicinava al capezzale. Si sedette con incertezza sulla sedia alla sua destra e tirò su le maniche del pullover nero, scoprendo i chiari peli delle braccia irti a causa dei brividi, nonostante il microclima più che tiepido.
              Il respiro leggero della ragazza, visibile grazie al regolare alzarsi e abbassarsi del torace, riuscì a calmare la rabbia del padre, che invece era esplosa quando aveva notato il pallore inquietante del suo volto. Voleva sfiorarle quella mano che s’intravedeva da sotto le coperte, ma non trovava la forza per farlo, temendo di svegliarla.
             «Non mi sono mai comportato come avrei dovuto, con te. Tua madre ti amava, diceva che eri un angelo, il regalo più bello mai capitatole, insieme con Hanabi, ed aveva ragione», sussurrò, soffermandosi con lo sguardo sul suo viso pacifico. «Mi rendo conto sempre troppo tardi della mia fortuna, sono così… così insensibile e stupido! Non dovrei confessarti ora queste cose, quando ero a un passo dal perderti, Hinata».
             Le sue dita dissentirono dal blocco della ragione, arrivando a toccare con delicatezza quelle morbide della diciassettenne. Erano più tiepide del previsto e Hiashi non riuscì a trattenere un sorriso, dopo quella lieta constatazione.
            «Ma grazie al cielo stai bene, ed è questo ciò che conta, ora. Farò di tutto per proteggerti, per restarti accanto, per vendicare questo misfatto», sussurrò, lasciando che una lacrima precipitasse in caduta libera dal suo volto.
 
Quasi gli venne un colpo, quando avvertì le falangi della ragazza muoversi sotto i suoi polpastrelli. Riaprì gli occhi e la vide sorridere, mentre dischiudeva le palpebre.
            «Papà», mormorò, cercando di non piangere.
            Quella parola non le era mai parsa tanto meravigliosa e pregna di vitale importanza come in quel momento. L’avrebbe ripetuta ancora un centinaio di volte, se solo avesse retto l’emozione. Suo padre era lì, nonostante i muri di silenzio che li avevano sempre divisi e la glaciale indifferenza che, a casa, solcava il suo volto. Lui era al suo fianco, le stringeva le dita, cercando di fare del proprio meglio per farla sentire al sicuro, protetta. Meritava tanta comprensione?
            «Mi dispiace». Non riusciva a perdonarsi il fatto di averlo costretto a rimettere piede là dentro.
            Hiashi scrollò il capo, contrito, ma sollevato, alzandosi. Le sfiorò la fronte con una mano, per poi baciargliela dolcemente, come faceva quando lei era bambina e si svegliava urlando nel cuore della notte, in preda a un incubo. Troppi anni erano trascorsi da quando l’amore fluiva liberamente, in maniera naturale, fra loro.
            «È tutto finito», la tranquillizzò, come era solito fare in quelle circostanze.
            «Mi dispiace», ripeté lei, guardandolo risedersi accanto. Stavolta non era riuscita a trattenere le lacrime.
            Non poteva credere che fosse davvero lì, che le avesse dimostrato quella tenera forma d’affetto che apparteneva solo ai ricordi. Essenzialmente, non riteneva possibile che il male appena vissuto potesse essere spazzato via in un secondo dal bene che più aveva agognato.
 
Le scene dell’aggressione le attraversarono la mente, ausiliate, nella loro rimembranza, anche dai dolori che cominciavano ad acuirsi al torace. Quel calcio del malvivente le aveva mozzato il fiato e aveva cambiato le sorti della serata, mettendo fine alle sue speranze di poter tornare a casa e tentare di salvare Neji in un altro modo.
            Ricordava vagamente anche l’arrivo di Sasuke, il suo tentativo di farle provare calore, nonché la propria insistenza a volerlo allontanare; sforzi sciocchi e inutili, dal momento che era grazie all’Uchiha se ora, salva, si trovava in quel letto d’ospedale.
            Improvvisamente, provò vergogna e ripugnanza per se stessa. Lei, che voleva strappare qualcuno dal pericolo, era stata sopraffatta ancora una volta dagli eventi, uscendo sconfitta. Lei, che desiderava essere utile e riscattare la propria dignità, era stata quasi totalmente denudata, si era gettata in una vasca d’acqua gelida e aveva miseramente vaneggiato davanti al suo salvatore. Lei, che aspirava a ottenere un minimo segno di stima da parte della sua famiglia, si trovava ad essere ancora più meschina di prima, davanti agli occhi del padre.
             «Ti ho fatto preoccupare, ancora una volta. Mi dispiace, papà. Non sono la figlia… anzi, il figlio che volevi», sussurrò, nascondendo il viso fra le mani. Non era vittimismo, davvero se ne doleva. Si era ripromessa tante volte che avrebbe riempito il cuore del padre di orgoglio, dimostrandogli di essere cresciuta; aveva sognato di poter eguagliare anche solo minimamente Neji, di regalare al genitore le stesse emozioni positive che il nipote gli procurava, ma aveva fallito.
            Sentì Hiashi sospirare profondamente e aprì una fessura fra l’indice e il medio, da dove poteva osservarlo; sembrava sereno, nonostante tutto.
            «Dicono che i figli non si scelgono, proprio come i genitori», affermò lui, afferrando con dolcezza il suo polso sottile e costringendola ad abbassare una mano dal volto.
            Voleva guardarla negli occhi, dirle in faccia ciò che da sempre pensava, ma che non era mai stato in grado di comunicarle, un po’ per paura di perdere la propria autorevolezza, un po’ per timore di non essere pienamente creduto. Stavolta non avrebbe esitato; quella notte aveva deciso che avrebbe sempre fatto il possibile per essere sincero con lei, che si sarebbe comportato da padre, finalmente.
            Scoprire il suo viso intimidito e ancora scosso gli fece quasi estinguere le parole in gola, ma l’uomo inspirò profondamente e le accarezzò una guancia.
            «Non avrei potuto ricevere un dono più grande di te e Hanabi».
            Hinata sfiorò incredula la mano del padre, ancora appoggiata sulla sua gota. Era reale? Hiashi non si era mai sbilanciato in quel modo, dando dimostrazione dei propri sentimenti, e sentirsi dire tali parole amorevoli e inattese, su quel letto, dopo aver provato un assaggio di quanto il mondo potesse essere oscuro, pericoloso e profondamente malsano, le sembrava ancora più paradossale. Si aspettava uno schiaffo per averlo fatto preoccupare, un rimprovero, un segno di diniego nei suoi confronti, non certo tutto il contrario.
            «Siete la cosa più preziosa che mi resta, al mondo. Se ti fosse successo qualcosa, io… non so cosa avrei fatto, sono sincero. Ho già perso anche tua madre, senza poter nemmeno muovere un dito per soccorrerla…». La voce gli si abbassò di diversi toni, fino a mozzarsi completamente, lasciando posto a fastidiose lacrime nelle sue iridi chiare.
            «Mi dispiace, papà. Anche per quel giorno!». Era esplosa in un pianto irrefrenabile, che si portava dietro da cinque anni.
            Ricordava tutto alla perfezione, non si sarebbe mai scordata neppure un dettaglio riguardante l’accaduto. Il suono del clacson premuto dal corpo di Haiko le rimbombava ancora nelle orecchie, il tutù di seta, macchiato di sangue, era costantemente davanti ai suoi occhi, insieme con il volto sfregiato ed irriconoscibile di sua madre, che respirava con fiacchezza e le prometteva silenziosamente - con uno sguardo quasi inespressivo - che sarebbe andato tutto per il meglio.
             Quando mai, nella sua vita, quel pronostico si era avverato? Le cose difficilmente avevano preso la piega giusta, per Hinata, ma, da una settimana a quella parte, la sua intera esistenza si era lentamente mossa verso un livello superiore, sospingendola in direzione della serenità. Persino suo padre era lì, ora, a darle prova che ogni cosa si sarebbe aggiustata.
             «Non è stata colpa tua. Non lo è mai stata, Hinata», la rassicurò il quarantacinquenne, abbracciandola. «Sono stato terribile a fartelo in qualche modo credere, ma non era mia intenzione. Volevo solo che tu diventassi forte… una Hyuga. Non mi sono accorto che lo sei sempre stata, molto più di tutti noi», le sussurrò all’orecchio.
              Lo abbracciò con tutte le proprie forze, ignorando le fitte al torace, stringendo i denti e congiungendo le mani dietro al suo collo. Il profumo dell'uomo, finalmente, le penetrò le narici, ed era totalmente diverso da come lo ricordava, incredibilmente più soave della scia che si lasciava dietro quando la sorpassava con indifferenza.
              «Grazie», riuscì solo a mormorare, sopraffatta dalle emozioni.
 
Un leggero bussare sul vetro della porta scosse entrambi, obbligandoli a sciogliere quella stretta. Il padre sorrise lievemente, asciugando una lacrima alla figlia.
              «Scusate, è appena arrivato il commissario Uchiha», annunciò una giovane infermiera, sbucando fuori dal piccolo varco che si era aperta.
              Hiashi annuì, regalò alla figlia uno sguardo dolce e deciso allo stesso tempo, nel tentativo di infonderle coraggio. Sapeva che la verità che lui non aveva avuto il coraggio di chiedere direttamente ad Hinata, nel giro di pochi giorni, sarebbe venuta a galla sotto le incalzanti domande dell’ufficiale, ma non riusciva ancora a sperare.
 
***
 
Fugaku stava parlando con i propri figli, spronandoli a tornare a casa e ad accompagnare anche Neji all’auto, ancora posteggiata fuori dal bar.
            Era un uomo alto, dall’aria severa, ma capace di ispirare fiducia anche semplicemente con uno sguardo. Solo Hiashi, però, non era dello stesso avviso.        
            Si avvicinò a grandi falcate all'ispettore, senza prendere in considerazione i ragazzi, che lo fissavano con aria mesta.
            «Tipico vostro, farsi vivi quando ormai il crimine ha compiuto il suo corso», accusò il padre della vittima, rabbioso oltre ogni dire.
            «Signor Hyuga, a nome dell’ufficio le pongo le mie…».
            «Può benissimo immaginare cosa me ne faccia, io, delle vostre scuse!», tuonò l’altro, allontanandosi dalla porta. «Dov’erano i vostri uomini, un’ora e passa fa? Perché un luogo come quel maledetto cantiere è ancora aperto? Perché nessuno sorveglia i posti malfamati di Konoha?». Le furibonde domande che voleva porre a Fugaku erano ancora numerose, ma i nervi tesi e il fiato corto gli impedivano di proseguire oltre. Poteva solo guardare negli occhi il commissario e accrescere il proprio odio verso un’istituzione che non aveva mai tutelato la sua famiglia.
            «Ha ragione», cercò di rabbonirlo l’ufficiale, con tono dispiaciuto. Non poteva farsene una colpa personale, ma il sentimento di delusione verso la giustizia che lui stesso incarnava, indossando quell’uniforme, era forte. Vedere un padre amareggiato, adirato per un reato mosso verso la giovane figlia, lo sconvolgeva, ma, allo stesso tempo, gli trasmetteva la forza per voler far luce.
            «La ragione è dei fessi!», constatò Hiashi con rassegnazione, pronto ad uscire dal reparto.
            «Lasci fare a noi, abbia fiducia», cercò di rassicurarlo l’Uchiha, appoggiandogli una mano sulla spalla.
            «Non ho fiducia nella polizia! Mia figlia poteva essere uccisa, stanotte… la mia Hinata!». Sussurrò il suo nome, come se pronunciarlo potesse ferirla nuovamente. «Proprio come Haiko! Il bastardo che si è schiantato contro la sua auto ha scontato in carcere solo un anno! Inutile vincere le cause in tribunale e affidarsi alle forze dell’ordine, se questa è la giustizia!».
            Hiashi si allontanò con rapidi passi verso la grande finestra della sala d’attesa, ignorando le ulteriori scuse e rassicurazioni del commissario. Inutile tentare di ispirare speranza in un uomo che aveva perso la fede nel modo più atroce possibile.
             Il suo cuore portava ferite ancora aperte, che niente e nessuno sarebbero stati in grado di lenire; Hinata ed Hanabi erano tutto ciò che gli restava al mondo, ma, quella notte, aveva rischiato di perdere un’importante parte di vita, senza che lei sapesse quanto l’amasse. Avrebbe fatto il possibile per tutelare entrambe le figlie.
 
***
 
Il dolore di quell’uomo trafisse come un punteruolo il petto di Sasuke, che si fermò a guardarlo per qualche istante, prima di seguire Fugaku. Osservò con afflizione le eburnee dita di Hiashi aggrapparsi alle tende di cotone color bianco sporco: le stringeva convulsamente tra le falangi di una mano, mentre digrignava i denti in un’espressione di rabbia e impotenza.
            Un padre colpito da una sofferenza ingiustificabile, insensata, proprio come Hinata. Cosa c’entrava, lei, con quella storia? Perché farle del male, quando non aveva mai recato alcun disturbo alle altre persone, facendosi mille riguardi anche solo per un semplice colpo di tosse?
 
Nonostante il genitore si fosse offerto di riaccompagnarlo a casa, il diciottenne declinò l’invito, montando nella propria vettura. Lo rassicurò che avrebbe guidato con moderazione, che si sarebbe messo a letto e sarebbe andato a scuola sereno, il mattino seguente, pur sapendo benissimo che nemmeno quella notte avrebbe riposato. Le occhiaie erano un alone scuro, sotto le orbite, che si abbinava perfettamente alla nube di pensieri che già aleggiava sopra la sua testa.
            Per quanto quella fosse la propria auto e si trovasse al posto di guida, la sensazione che gli rivoltava le budella era simile a quella che si poteva provare sul sedile posteriore della volante della polizia. Ancora una volta, si sentiva un criminale, un rifiuto umano, un impotente assoluto, un inetto, un miracolato senza ragione di tanta fortuna. Aveva goduto della luce della redenzione, in quella settimana, e a farne le spese era stata la fonte di tanta grazia. Era tutto assurdamente ingiusto.
 
Giunse a casa, rispose controvoglia alle domande della madre, chiedendole di scusarlo per la stanchezza e il cattivo umore. Ignorò le sue preoccupazioni per quei punti sul labbro, le sue insistenti premure, sentendo di non meritarle, così come tentò di trascurare i passi di Itachi lungo il corridoio.
            Sette, otto. Si era fermato davanti alla sua stanza, come sempre faceva prima di andare a coricarsi, e Sasuke si era silenziosamente spogliato, gettando gli indumenti sul pavimento, con rabbia e senza alcuna cura.
            Fissò con disgusto e livore la propria figura nel fioco riflesso della finestra e aspettò di risentire la camminata felpata dell’aniki allontanarsi in direzione della propria alcova, prima di mettersi sotto le coperte.
            Avvolto tra le lenzuola, confortato da un calore inumano e, per questo, quasi glaciale, ripensò alla sconvolgente serata appena vissuta, dominata da un’illogicità senza paragoni.
 
La notte non era più giovane, proprio come le sue speranze, ormai maturate e rinsecchite nel giro di poche ore. Sapeva che sarebbero rifiorite soltanto se avesse rivisto l’armonioso sorriso di Hinata. Quanto desiderava potersi beare ancora di quel limpido guizzo di gioia! Mai come allora ne avvertiva il bisogno.
             Lui era sempre stato un’insignificante tessera di un collage spezzato, improvvisamente risanato dalle cure giunte dalla Hyuga. Ora era di nuovo una scheggia incolore, ma capì che è solo quando si cade in frantumi che si può ricomporre il mosaico astratto, donandogli la concretezza che gli manca.
            Non avrebbe permesso a nessun altro di poter deturpare quel capolavoro.







Non odiatemi, torno da voi con un ramoscello d'ulivo in mano :D 
Prima di tutto, mi scuso infinitamente per l'attesa! Non è da me lasciare intercorrere tanto tempo fra la pubblicazione di un capitolo e l'altro, ma a separarmi dalla storia c'è stata la sessione d'esami; finalmente è finita, anche se ora riprenderanno le lezioni. Beh, se non altro, ora potrò aggiornare con più regolarità *incrocia le dita* :D
Oh, sì, è anche vero che parte del ritardo è dovuto pure alla lentezza nella stesura e nella revisione. Mea culpa!
Tengo particolarmente a questo capitolo perché mostra il legame tra padri e figli, finalmente :) Sarà che io ho un meraviglioso rapporto con mio papà, grazie al cielo, ma desideravo davvero dar luogo a un po' di sana dolcezza tra Hiashi e Hinata :) 
Oh, Itachi è un ottimo motivatore, quando ci si mette. Mi servirebbe, lo ribadisco XD
Vi ringrazio tutti, dal primo all'ultimo, per il numero di letture silenziose, le recensioni, le preferenze nelle varie categorie, le mail... siete meravigliosi. Permettetemi, poi, ancora una volta, di ringraziare arcx, la cui consulenza è stata di vitale importanza per la realizzazione di questo capitolo: spero di aver reso giustizia alle tue delucidazioni ;)
Che dire? La storia sta volgendo al termine e deve la propria esistenza fondamentalmente a voi! :) Grazie! 
Spero di risentirvi presto! 
Buon proseguimento, ragazzi! ;)
Baci 


Ophelia
 
   
 
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