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Autore: Hika86    25/02/2014    1 recensioni
[6/7] «Io credo vada bene anche così. Penso che di solito, diamo un nome alle cose quando le abbiamo capite o quando vogliamo farlo, perchè così sembrano diventare più chiare. Così come etichettiamo dei quaderni, allora vogliamo catalogare anche pensieri e sentimenti. Ma non è sempre così facile e poi ci sono volte in cui va bene anche non capire, no? Esistono cose che è possono rimanere senza nome, sentimenti che non abbiamo bisogno di forzare: se diventeranno importanti troveremo il modo di definirle, ma se ci sforziamo troppo magari rischiamo di distruggere qualcosa di ancora troppo fragile».
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jun Matsumoto, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Perché per lui le cose non erano mai semplici?
Invidiava Aiba chan che prendeva tutto come veniva e si faceva pochi problemi. Così come invidiava Shō kun e Nino che avevano intelligenza a sufficienza per superare qualsiasi ostacolo. Il Rīdā aveva semplicemente intuito, come un animale, risolveva i problemi fiutando la soluzione.
Perché lui invece era sempre così confusionario? Indeciso. Lento.
Prese un sorso di birra facendola scendere in gola lentamente, assaporando la freschezza di quel liquido che per qualche attimo lo sollevava dall’afa umida e pesante dell’estate giapponese.
«Che significa che "quest’anno hai voglia"? Dovresti averne sempre» ribatteva Nino parlando con Aiba
«Lo so, lo so» rise questi. «Ma è come se quest’anno avessi una marcia in più: dai, quando si comincia?»
«Dobbiamo ricordarti che prima dei concerti c’è un sacco di lavoro da fare?» domandò Shō, già alla seconda lattina. Aiba borbottò qualcosa, ridacchiando sommessamente.
Erano al Keikarō e bevevano birra sul retro del ristorante, cercando di parlare piano in quella notte di metà Luglio. Il giorno dopo sarebbe stato relativamente leggero per tutti, quindi avevano deciso di potersi permettere di far tardi e dedicarsi ad una delle loro scappatelle al ristorante della famiglia di Masaki. Era una tradizione che non avevano mai raccontato a nessuno, né l’avevano mai accennata in qualche intervista, nonostante lo facessero già da pochi mesi dopo il debutto. Uno scambio di mail, un accordo rapido, e la sera scelta andavano tutti al ristorante un’ora dopo la sua chiusura per bere fino all’alba, chiacchierare e fare gli sciocchi. La prima volta che lo staff del locale li aveva scoperti, era stato perché si erano addormentati tutti e cinque, ubriachi fradici, sotto un tavolo, nel 2004. Era stata una bevuta in onore dei primi 5 anni degli Arashi.
«Allora, raccontiamoci delle storie di paura, è tipico dell’estate» propose Aiba
«Storie di paura? Scordatelo» rispose Shō. «Non volevi raccontarci di una storia pazzesca che avevi sentito? È da ieri che ne parli, cos’è?».
Avevano preso un po’ di lattine di birra e si erano accoccolati a terra, fuori dalla porta sul retro del locale. Messi in cerchio, Jun aveva appoggiato la schiena al muro dell’edificio, alla sua destra c’era Nino seduto schiena contro schiena con Aiba, mentre a sinistra c’era Shō con le gambe aperte piegate per appoggiare i gomiti alle ginocchia, le lattine a terra tra una caviglia e l’altra e il busto leggermente piegato in avanti. Dopo lui c’era il Rīdā, seduto a gambe incrociate con un asciugamano sportivo sulle spalle: ultimamente soffriva molto il caldo.
«Ah sì, è la storia tristissima di un cagnolino. Me l’hanno raccontata l’altro giorno a “Tensai!! Shimura dōbutsuen”» rispose Masaki
«No, no, no» esclamò Nino. «Niente storie tristissime di cani, gatti, conigli, barbagianni o pterodattili»
«Barbagianni?» chiese l’altro cominciando a ridere.
Jun appoggiò la lattina a terra con un gesto lieve, ma il suono della latta sul cemento sembrò più forte e secco del solito. «La racconto io una storia» disse annuendo nella semioscurità.
Erano passate svariate settimane da quando Jun aveva incontrato Tomomi per l’ultima volta. Da allora non si dava pace. Lei era l’unica che sapesse la verità, tutta la verità su cosa era successo con Shiori quasi due anni prima e su cosa aveva provato, su come si era sentito a Luglio e su come erano cambiati i suoi sentimenti nei mesi successivi, su ciò che aveva smosso il suo animo fino all’autunno, del silenzio e la calma apparente dell’inverno, o ancora, della scossa che aveva avuto in primavera.
Quella confidente paziente, quel sostegno prezioso, era persa per sempre. Jun doveva tornare a vivere senza di lei, quindi era arrivato il momento di raccontare tutto ai suoi amici di una vita, quelli che per un anno erano rimasti all’oscuro di ogni cosa, ma lo avevano visto tormentarsi.
«Tu? Ma se ultimamente non fai niente di particolare?» domandò Ōno rosicchiando delle patatine
«Significa che se la inventerà. Dai sentiamo» annuì entusiasta Aiba.
Jun gli sorrise: non avrebbe inventato proprio nulla, ma non glielo disse.
«E’ la storia del ragazzo che cercava semi» annunciò in tono lieve, come se si apprestasse a raccontare una favola. «Il ragazzo che cercava semi aveva avuto due doni importanti: uno era il Tempo e una era la Fortuna. Avrebbe vissuto una lunga vita e l’avrebbe vissuta con una marcia in più, facendo quello che gli piaceva, faticando come tutti, ma sempre con gioia» cominciò a raccontare tenendo gli occhi fissi sul bordo della lattina. «Il ragazzo viveva con positività, cercando ovunque i piccoli semi della felicità che, sparsi lungo il corso di una vita, riempiono il nostro cammino di gioie grandi e piccole».
L’aria della notte era immobile. Lì sul retro, misto all’odore delle sigarette che stavano fumando e alla birra aperta, c’era l’odore dell’antizanzare che vedeva bruciare su un balcone dall’altra parte del cancello. La piccola luce della brace bucava la semioscurità tra le villette e Jun la fissò, come un bambino che inseguisse il volo intermittente di una lucciola. «Un giorno» riprese. «Egli pensò di aver trovato il seme più bello, da cui sarebbe nata la gioia più grande: era la ragazza che amava la Storia. Lei aveva avuto altri doni: non la Fortuna e non, di certo, il Tempo; infatti dopo un breve periodo, la ragazza sparì e il ragazzo che cercava semi si vide portare via per sempre quella felicità. Da quel momento gli sembrò di non essere più in grado di cercare nient’altro. Si sentì lasciato solo, con il suo Tempo e la sua Fortuna, cose che non desiderava più perchè tutto quello che voleva era la ragazza che amava la Storia».
Spostando gli occhi sui suoi compagni, Jun vide che Nino era l’unico a guardarlo in faccia nonostante la semioscurità. Gli altri ascoltavano in silenzio, guardando altrove. Tutti dovevano aver capito cosa stava raccontando con quella specie di favola e, intuito quanto fosse importante quel momento, sembravano spaventati che un loro rumore avrebbe potuto rovinarlo o che i loro occhi lo avrebbero intimorito al punto da non farlo più parlare.
Dal ristorante, con le luci tutte spente, arrivava solo il ronzio dei frigoriferi accesi, mentre la strada era silenziosa e le case intorno tutte buie. Il suono di macchine che passavano era debole e molto lontano. In un’aiuola spelacchiata intorno ad una delle villette vicine c’era un grillo che cantava solitario, ma bastava lui solo per dare a quell’ora la melodia inconfondibile della notte.
«Fu allora che il ragazzo che aveva smesso di cercare semi, incrociò la ragazza che coltivava soffioni. Inizialmente ne fu attratto perché lui rimaneva intrappolato nei momenti passati con la ragazza che amava la Storia, per non dimenticarla, mentre quella donna soffiava sui fiori che coltivava, lasciando che i piccoli semi si disperdessero nel vento. Bianchi e delicati, ognuno di loro incrociava il cammino di una persona e la influenzava generando il domani, il futuro, intrecciandosi con il tempo. Ognuno dei petali si staccava e seminava un sentimento, un desiderio o un progetto, nella vita di qualcuno» spiegò Jun appoggiando la nuca al muro alle sue spalle. «I due fecero amicizia e la ragazza che coltivava soffioni gli mostrò che lui aveva ancora troppo Tempo e troppa Fortuna per rimanere intrappolato nei ricordi di qualcuno che non c’era più. C’erano ancora così tanti semi da cercare, ancora tanta felicità da trovare in altre persone… e con la stessa pazienza con cui coltivava i fiori che poi avrebbe disfatto lei stessa con un solo soffio, la ragazza cercò di dare il suo appoggio al nostro eroe, di curare il suo cuore, di lavare via il suo pessimismo».
Il cemento su cui erano seduti era ancora caldo dopo una giornata intera durante la quale il sole vi aveva battuto tutto il giorno. La stagione delle piogge era finita da un pezzo e le notti non sarebbero più state fresche per molte settimane. Jun si accese una sigaretta, interrompendo per qualche secondo il suo racconto, spezzando la tranquillità della narrazione con i rumori secchi dell’accendino. «Il ragazzo che non cercava più semi tornò a sorridere, cominciò a sentire meno dolore nel petto e si convinse, infine, a rimettersi alla ricerca» disse dopo aver fatto un primo tiro, di modo che il tabacco bruciasse. «A quel punto, in sogno, ricomparve la ragazza che amava la Storia. Lui aveva cercato in tutti i modi di rivederla nei ricordi, di tenerne viva la memoria, ma sempre senza successo, ed ora che il peggio sembrava passato, eccola ricomparire. Tutti gli sforzi della ragazza che coltivava soffioni vennero spazzati via perché il ragazzo che non cercava più semi aveva deciso di affrontare i suoi ricordi e il suo dolore una volta per tutte. Era convinto che fatto questo, avrebbe potuto affrontare il resto del suo Tempo con più serenità» annuì e soffiò il fumo sulla brace della sua sigaretta, guardando l’arancione incandescente cambiare in giallo acceso quando il fumo lo investì. Fu solo per qualche secondo, poi tornò di nuovo a bruciare d’arancio e scarlatto.
Pronto a concludere il suo racconto, Jun raddrizzò la schiena e guardò davanti a sé prendendo nella mano libera la sua birra. «Ma la ragazza che coltivava soffioni aveva esaurito energie e pazienza: non sarebbe rimasta ad aspettare, quindi gli disse addio e se andò» si strinse nelle spalle e bevve l’ultimo sorso della lattina.
Alzò lo sguardo al cielo buio dove non si vedeva nemmeno una stella. Aveva cominciato con l’idea di raccontare loro di Shiori e invece era finito col parlare di Tomomi. Adesso era quella la parte importante della sua storia?
Sì. L’aveva capito da un po’, solo che ormai era troppo tardi.
«Finisce così?» chiese Aiba in tono triste
«Cosa fece il ragazzo dopo?» domandò Ōno alzando gli occhi su Jun. Era chiaro che stava chiedendo cosa avesse fatto lui, nella realtà.
«Per quanto fosse convinto della sua scelta, non poté fare a meno di continuare a guardare la strada lungo la quale era scomparsa la ragazza che coltivava soffioni, nella speranza che tornasse indietro» spiegò tendendo la sigaretta a Shō che aveva allungato la mano nella muta richiesta di fare un tiro anche lui
«Ma era troppo tardi» annuì Nino
«Non c’è più speranza?» chiese Masaki lanciando un’occhiata preoccupata ai suoi compagni. «Deve esserci una soluzione. I sentimenti non si lavano via con un colpo di spugna, sono certo che ci sia ancora qualcosa che si può fare»
«Anche secondo me c’è» annuì Shō con il fumo che gli usciva dalla bocca
«C’è, è J che è uno stupido e non la vede» sbuffò Nino storcendo il naso e bevendo la sua birra. «Ci hai rimproverato per quasi un anno sull’importanza di non avere rimpianti, sul fatto che dobbiamo cogliere l’attimo senza rimandare niente, e adesso chi è che si è fatto fregare alla stessa maniera?» scosse il capo e sbuffò dal naso, era un po’ alticcio
«Ormai è fatta» rispose Jun abbassando lo sguardo. Si sentì colpevole e non c’era nulla che lo difendesse davanti alle accuse di Nino.
«Sei un idiota» bofonchiò quello mettendo da parte la lattina
«E perché?» ribatté allora lui: aveva sbagliato, sì, ma non avrebbe subito passivamente degli insulti.
L’amico si staccò da Masaki, gli prese la mano destra facendogli distendere le dita e lo costrinse ad appoggiarsela sul petto, all’altezza del cuore. Sotto la pelle sentì un leggero battito continuo. «Perché sembri non accorgertene, J, ma tu sei vivo» gli fece notare stringendo le labbra in un’espressione triste
«Sei qui, Jun» aggiunse Shō, spegnendo la sigaretta contro la suola della scarpa. «Ed è per questo che per te niente è irrimediabile: tu hai ancora la possibilità di cambiare le cose, devi solo volerlo».
Jun ascoltò il proprio cuore, premendo i polpastrelli contro la tshirt, aspettando di sentire un battito che potesse percepire anche in superficie. Nell’attesa di quella sensazione, cercò di ascoltare il proprio corpo e sentì il sangue sospinto lungo l’addome o su per il collo e fu consapevole delle sensazioni che provava sulla pelle: una lieve brezza sul viso, il sudore sulla schiena, il freddo sul palmo della mano che aveva stretto la lattina. Lui era vivo, sì, e proprio per quello, avrebbe potuto fare moltissime cose.
Era quello il senso del suo sogno: Shiori era tornata a casa per riportargli le chiavi e le aveva rimesse davanti a lui, ma non erano le chiavi del suo appartamento, come lui aveva pensato. Erano le chiavi del tempo nel suo cuore, quel tempo che in lui era rimasto fermo al momento in cui lei non era rientrata da quella porta. Il suo sguardo triste era il rimpianto di non aver potuto vivere più a lungo per realizzare tutti i progetti che aveva e per rimanere con lui, ma il suo sorriso era l’augurio che Jun invece usasse il tempo che gli era stato concesso, che realizzasse i tuoi desideri ed anche che continuasse ad amare, pur serbando dentro di sé i ricordi più belli di lei, facendone un tesoro da portarsi dietro per sempre.
«Sono arrabbiato J» pronunciò Nino di punto in bianco. «Ormai è tanto tempo che ci tieni all’oscuro di tante cose. Come possiamo aiutarti se non parli? E non me ne frega niente se non vuoi essere aiutato: sono io che voglio aiutare te, quindi non azzardarti mai più a non raccontare niente per così tanto tempo»
«Ohi, ohi, ecco il nostro Nino dispotico» ridacchiò Shō, e gli altri con lui.
La richiesta era stata molto seria anche se i ragazzi poi avevano sdrammatizzato, quindi Jun rispose senza alcuna nota di scherzo nella sua voce. «Vuoi che ti racconti di Shiori?» domandò con tranquillità. Pronunciava poco il suo nome, davanti a loro non l’aveva fatto quasi mai, ma da qualche tempo pensare a lei non era più così doloroso come una volta. Il tempo era passato, Tomomi lo aveva aiutato. Forse era per quello.
«No, non mi interessa più. Ce ne parlerai quando ti andrà» e Nino fece spallucce. «E’ una storia vecchia ed io non viaggio nel tempo per sistemare le cose del passato. Io posso sostenere i miei amici adesso»
«Allora forse, un giorno» annuì Jun con un sorriso
«Sì, un giorno» gli fece eco l’altro tornando ad appoggiarsi alla schiena di Aiba.
Il suo Nino. I suoi Arashi. Jun pensò a quelle parole e gli venne voglia di abbracciarli tutti uno ad uno, ma Shō non era tipo da abbraccio e il Rīdā si faceva abbracciare solo quando lo voleva lui. Il giovane ridacchiò: li avrebbe amati per sempre quei quattro compagni, qualsiasi cosa fosse successa nel resto della sua vita. Loro erano il seme più bello che lui avesse mai raccolto lungo il sentiero della sua vita.
«Puoi tornare a casa se vuoi, Matsujun» propose Aiba. «Cioè puoi andare dalla ragazza che coltiva soffioni, ammesso che si svegli a quest’ora per farlo. Tanto si è fatto tardi, tra poco andiamo tutti» spiegò guardando l’orologio. Erano quasi le tre di notte.
«Potrebbe anche essere sveglia, ma sono io a non reggermi in piedi. Dormirò e andrò da lei domani mattina» annuì Jun. Si alzò da terra con un movimento agile, raccolse le lattine vuote di tutti proponendosi di buttarle, quindi li salutò e scomparve nell’oscurità, diretto alla sua macchina.
«Come cresce il nostro Matsujun» sospirò Ōno
«”Il ragazzo che raccoglieva i semi”? Ma da dove gli arriva l’idea della felicità divisa in semini?» domandò Shō
«Un tassista?» rimuginò Nino tra sè. «Forse mi aveva raccontato di un tassista chiacchierone»
«Penso che il nostro raccoglitore di semini si sia reso conto che il tempo è passato, anche se il suo cuore sembrava rimanere fermo. In realtà i suoi pensieri sono cambiati, e la ragazza che ha conosciuto è diventata man mano più importante di quella che non c’è più» sorrise Masaki.

Tomomi era l’unica a sapere tutto, o quasi. Quello che non sapeva era il colpo di grazia che aveva ricevuto da lei quel giorno nel parco del tempio, Maggio 2011. E in fin dei conti, era anche l’unica cosa che valesse la pena raccontarle.
Alcune ore dopo essersene andato dal Keikarō, dopo aver dormito un poco, Jun si era svegliato, aveva scelto dei vestiti poco appariscenti, un cappellino e degli occhiali da sole, poi aveva preso la macchina e si era avviato verso l’ospedale. Forse Tomomi cominciava un turno, o magari lo concludeva, quindi non avrebbe avuto molto tempo da dedicargli, ma gli sarebbe bastato strapparle la promessa di stare a sentirlo cinque minuti appena possibile.
Quando parcheggiò nei pressi dell’ospedale si rese conto di star stringendo il volante tanto forte da farsi diventare le nocche bianche. Respirò a fondo cercando di calmarsi: era proprio il caso di sentirsi come un nervoso studentello alla prima cotta?
Si calcò per bene il cappellino sulla testa ed entrò nell’ospedale: non poteva tenersi gli occhiali da sole anche all’interno, avrebbe dato ancora più nell’occhio. Prese l’ascensore insieme ad un gruppetto di portantini che discutevano di materiale da portare ad un pullman nel parcheggio, ma presto se li lasciò alle spalle perché il reparto di cardiochirurgia era ad uno dei primi piani del palazzo.
Entrò nell’atrio ormai familiare e si avvicinò al banco dell’accettazione. «Buongiorno» l’infermiera seduta dall’altra parte lo salutò con un sorriso
«Buongiorno. Mi può dire se il primario è in reparto?» chiese a mezza voce, grattandosi il naso, per nascondere parte del viso dietro la mano
«Sono spiacente, Nomura Ichō è andata via poco fa. Anche Koide Sensei, il primario temporaneo, non c’è: la stava accompagnando, ma penso tornerà tra poco»
«Primario temporaneo?» ripetè Jun perplesso
«Ah, Haruya Sensei!» richiamò quella vedendo passare un dottore nel corridoio a fianco. «C’è un paziente di Nomura Ichō, vuole occuparsene lei?»
«Ma certo» annuì il medico. Era giovanissimo, forse era della stessa età di Tomomi. «Il nostro primario sarà assente per tre settimane, può rivolgersi a me nel frattempo. Mi chiamo Haruya Koji» si presentò avvicinandosi
«Tre settimane?» chiese Jun. Si sentiva un idiota a ripetere a pappagallo le cose che gli venivano dette, ma le risposte che stava ricevendo non avevano senso per lui. Era confuso. «E’ successo di nuovo qualcosa al pronto soccorso?»
«Ora mi ricordo di lei» esclamò il medico sgranando gli occhi. «E’ il contatto di emergenza! Vero?» chiese.
Il giovane annuì, anche se non era proprio la verità. Il contatto di emergenza di Tomomi era il suo coach della squadra di pallavolo perché, per quanto ne sapeva Jun, la donna non aveva nessun familiare a cui rivolgersi. L’autunno precedente però, quando c’era stato il grave incidente del pronto soccorso, il coach era risultato irraggiungibile ed Erina, che avrebbe dovuto sostituirla, non era disponibile, così Jun si era offerto di andare a vedere come stesse. In quel momento però non si ricordava di aver mai visto quel giovane dottore: forse al tempo si era preoccupato per lei tanto da non far caso a chi era passato in stanza.
«E’ venuto a salutarla?» chiese Haruya Sensei. «Mi sa che è arrivato in ritardo però, Nomura Sensei è appena andata via, vero Nakagawa?» domandò all’infermiera
«Sì, da circa venti minuti. Forse fa in tempo, se non hanno ancora finito di caricare i paullman» spiegò quella guardando l’orologio
«Dove li trovo?» chiese Jun improvvisamente spaventato. Tomomi stava partendo per tre settimane e lui non ne aveva saputo niente.
«Sono nel parcheggio sul retro dell’ospedale» disse il medico.
Non rimase nemmeno ad ascoltare i loro saluti. Non appena gli venne risposto, Jun chinò il capo rapidamente, girò sui tacchi e uscì dalla porta delle scale d’emergenza: non aveva tempo di aspettare l’ascensore.
Mentre scendeva i gradini due alla volta si rese conto di non sapere nemmeno per dove partisse Tomomi, magari stava solo andando in un ospedale poco fuori Tōkyō e lui si stava scapicollando fino al parcheggio per nulla. Era anche vero, però, che avevano parlato di tre settimane d’assenza e lui non poteva aspettare tre settimane: doveva parlarle subito, magari non le avrebbe spiegato tutto quello che voleva, ma doveva quantomeno dirle l’essenziale a qualsiasi costo.
A piano terra perse l’orientamento e sbagliò un paio di volte la strada, trovandosi costretto a chiedere indicazioni, ma alla fine trovò la porta sul retro che dava verso i parcheggi. Quando la aprì, il secondo di due pullman stava uscendo dal cancello, mentre il primo era già in strada.
Jun li fissò ed appoggiò le mani alle ginocchia, piegandosi in avanti per riprendere fiato. «Merda» sospirò abbassando la testa, sconfitto
«Dovevi prendere i pullman, ragazzo?» gli venne chiesto.
Quando alzò lo sguardo si trovò davanti un uomo di mezza età in camice da dottore e gli occhiali dalla montatura argentata. Il nome sul cartellino diceva: “Koide Atsushi, cardiochirurgo”. «Koide Sensei?» domandò il giovane idol. Doveva essere il primario temporaneo di cui gli avevano parlato.
«Sono io» annuì quello sorpreso
«Cercavo Nomura Tomomi, mi hanno detto che era scesa con lei» spiegò con un filo di voce, raddrizzando la schiena
«L’hai mancata per un pelo» rispose alzando una mano ad indicare la direzione in cui erano scomparsi i pullman. «Era sul primo pulmino. Comunque dovrebbe tornare fra tre settimane, se tutto va bene» spiegò
«Ah, grazie» fu tutto quello che riuscì a dire Jun, chinando leggermente il busto. Questi fece altrettanto in segno di saluto e si avviò verso l’interno dell’ospedale.
Si sentì afflitto. Non aveva fatto in tempo a rivederla. Certo, ciò che aveva da dire non sarebbe cambiato in tre settimane, ma aveva sperato di poterle parlare quel giorno: prima avrebbe sistemato la situazione tra loro, prima avrebbero potuto essere entrambi più sereni. Avrebbe potuto chiamarla al cellulare, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Voleva poterla guardare in faccia quando le avrebbe detto ciò che voleva esprimere.
«Mi scusi» fece all’improvviso, girandosi per bloccare il dottore, già sulla soglia della porta ad apertura automatica
«Mi dica» rispose Koide Sensei, bloccandosi e riportando l’attenzione su Jun
«Dov’è andata Nomura san?» chiese. Ancora non l’aveva chiesto a nessuno.
«Credo l’abbiano assegnata ad uno dei campi di Iwate» annuì l’attempato dottore. «Non so dirti esattamente in che paesino. C’erano soprattutto infermieri e dottori volontari, la Croce Rossa non si aspettava un primario, quindi dovevano ancora decidere dove portarla con esattezza»
«A Iwate? È andata a stare laggiù per tre settimane?» ripetè Jun, a metà tra lo stupito e il terrorizzato
«Sì, ha deciso di andare come volontaria per dare una mano dove ce ne fosse bisogno» annuì il dottore. «L’estate è calda e umida anche lassù, le norme igieniche in contesti simili sono essenziali e i controlli sanitari vanno fatti regolarmente se non vogliamo che si scateni qualche epidemia, ecco perché hanno chiesto una mano. Certo, Nomura san è più di “una mano”, ma lei ha insistito tanto».
Jun non seppe cosa dire. Tomomi non era andata a fare una scampagnata, lei che in quei mesi era sempre stata così impaurita da ogni minima scossa e che l’aveva chiamato tutte le volte, ora si stava dirigendo nella zona più pericolosa di tutte. Laggiù non c’era alcuna sicurezza, se l’impianto fosse esploso sarebbe stata la fine. Forse non l’avrebbe più rivista.
Tre settimane, sì, ma solo se tutto fosse andato bene.
«Mi perdoni la scortesia, lei chi è?» domandò il medico, squadrandolo.
Avrebbe voluto dire di essere una persona importante, ma non era così, e non voleva nemmeno definirsi solo un amico, prima di tutto perché non voleva esserlo e poi perché avrebbe reso sospetto il suo comportamento: un amico non si sarebbe precipitato a quel modo.
«Scusi, mi chiamo Matsumoto. Sono il contatto d’emergenza di Nomura san» rispose infine, di modo da dare sempre la stessa versione a tutti nell’ospedale
«E non sapeva che sarebbe andata verso la centrale?» chiese sbalordito Koide Sensei, ma subito dopo abbassò lo sguardo e annuì. «No, anzi, non mi meraviglia che non lo sapesse. Alcuni dirigenti dell’ospedale le hanno fatto molte storie per convincerla a non partire e ha fatto molta fatica ad opporsi, quindi suppongo sia normale che non l’abbia raccontato alle persone più care: avrà temuto di dover discutere anche con loro. Anche se non dire nulla, nemmeno a cose fatte, mi sembra esagerato» borbottò pensieroso
«Io non sapevo nemmeno che partisse» spiegò Jun, doveva svolgere il ruolo di “contatto d’emergenza” allarmato, se non voleva vedersi fatte altre domande. «Me l’hanno detto in reparto quando sono passato. Speravo di poterla invitare a prendere un caffè prima del suo turno»
«Saranno stati tutti orgogliosi di dirle che Nomura san stava partendo» pronunciò il medico storcendo il naso. «Sono tutti felici che sia partita, sono così fieri della sua scelta eroica. Bah» scosse il capo. «Io non ci manderei nemmeno un condannato a morte laggiù. Ero contrario a questa sua scelta, ma lei era determinata ormai: che potevo fare? Sembrava quasi sollevata all’idea di andarsene. Negli ultimi tempi si era fatta più silenziosa, si chiudeva in se stessa» allargò le braccia con fare impotente. «Allontanarsi le potrà anche fare bene mentalmente, ma non c’è dubbio che fisicamente non sarà un toccasana. Possiamo solo aspettare e sperare che non succeda niente finché è laggiù» concluse prima di salutarlo e tornare al suo lavoro.
Jun non voleva parlarle via telefono, voleva averla davanti a sé. Eppure…
«Pronto?» rispose al settimo squillo. Forse ci aveva pensato su un po’ prima di rispondergli, non poteva biasimarla.
«Nomura san?» chiese Jun deglutendo a fatica. «So che sei partita».
Tomomi non rispose. In sottofondo sentiva il ronzio lontano dei motori del pullman e il lieve vociare delle persone che dovevano essere intorno a lei.
Gli aveva chiaramente detto che non voleva più avere a che fare con lui, quindi era normale che non dicesse nulla, ma non importava: era Jun a doverle comunicare qualcosa, quindi non doveva per forza parlargli. «Ritorna presto, va bene?» disse annuendo tra sé. «Io sarò qui ad aspettarti».


Il riferimento al tassista e alla raccolta di semi di felicità si collega ad uno dei capitoli di Akai Ito, per l'esattezza, il capitolo 24 The correct Handwriting for "Happiness" =D
Mi ha reso particolarmente felice di poter fare questo richiamo perchè è uno dei capitoli più belli su Jun e, anzi, se non ricordo male, è proprio il primo su di lui in quella ff, il primo che riprende la sua storia dopo la conclusione di Kaze.

Ci ho messo molto anche per pubblicare questo capitolo. La verità? La verità è che mi sta diventando sempre più difficile scrivere ff, e il motivo è, ahimè, che nessuno sembra leggerle. Oh meglio, come spiegarmi...? Ecco, diciamo che in questo periodo, e solo in questo, ho veramente capito il significato di "non ho tempo". Pensavo di avere sempre avuto periodi così, perchè ho sempre molte cose da fare, adesso invece mi rendo conto che prima qui e là il tempo lo trovavo. Ora non è più così. E' inutile che mi angosci (anche se continuo a farlo): il tempo non c'è, tra un mese parto per tornare solo tra 12 mesi e c'è tanto da fare che nemmeno riesco a rendermene conto.
In tutto questo, le ff mi piacciono, ma dato che è difficile trovare modo di mettersi alla scrivania a scrivere, mi chiedo sempre più spesso se sia il caso di continuare a scrivere. Non so se riesco a spiegarmi... ma è logico, penso, cominciare a chiedermi perchè dovrei usare così il mio scarso tempo se nessuno legge ciò che scrivo. Tanto vale che io mi immagini le mie ff nella mia mente prima di dormire e basta: sarei comunque l'unica a leggere ciò che scrivo, ma risparmierei ore preziose!!
Non lo so... sono molto combattuta. Alla fine penso di adorare in maniera particolare questa ff e forse la finirò comunque, ma dico "forse" perchè l'ultimo capitolo (il prossimo) è l'unico a non essere ancora stato scritto e sono mesi mesi mesi mesi mesi (da quando ho cominciato a pubblicare) che dovrei scriverlo e invece non lo faccio anche se so già cosa scrivere. Questo procastinare significa qualcosa e riflettere su tutto questo mi mette in crisi. E mi fa sentire stanca e triste... uff...
Forse è meglio se la pianto qui -.-

  
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