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Autore: Ivola    03/03/2014    4 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Queste note saranno veramente molto lunghe.
Sono in un ritardo non colossale, di più. Mi faccio pena: sono pigra, lenta e con poco tempo a disposizione. Dovrei ottimizzare le mie giornate e invece commetto sempre lo stesso errore. Ma non capiterà più, lo giuro. Mi sono stancata anche io di aggiornare con questo andamento clau(s)dicante, quindi mi sono ripromessa di mettermi all'opera e lavorare con più costanza. 
Devo rispondere a diverse recensioni arretrate, lo dico perché mi sembra corretto. Quindi grazie a Alaska_ papavero radioattivo per essere state le ultime a recensire questa storia che continuerò ad aggiornare anche se dovesse essere la più malcagata di tutto EFP. Non mi sono dimenticata di voi, vi ringrazio qui ma lo farò anche presto in risposta.
Considerate che il ritardo è dovuto anche al fatto che questo probabilmente è stato il capitolo più difficile della storia. Mi sono trovata veramente in difficoltà, soprattutto con la questione degli hovercraft che - ve lo anticipo - sarà meglio trattata nel XIX. Ero indecisa su tutto: sul titolo, sui paragrafi, sui dialoghi... se non avessi chiesto aiuto alla mia beta e partnah di fiducia pandamito sarei ancora nel pallone, quindi ci tengo a ringraziarla perché senza il suo supporto questo capitolo non starebbe nemmeno in piedi.
Per quanto riguarda la questione "Europa" consideratela come un'eccessiva licenza poetica. Comincio a dirlo sin da ora, perché l'argomento non si chiuderà con i capitoli a venire, anzi. Come già detto sopra, tuttavia, sarà tutto spiegato a tempo debito, ora non voglio fare anticipazioni. Fatto sta, che per me l'Europa non è andata distrutta e che - dall'altra parte del mondo - convive ancora con Panem sul globo terrestre (necessariamente cambiata, ovvio). E, di conseguenza, Bridge e Wreisht non sono ricchi a caso, visto che nel mio immaginario hanno conoscenze in gran parte del continente orientale.
Come avrete già notato, ultimamente ho apportato un cambio di grafica: la storia così non solo è di gran lunga più ordinata, ma (credo) invogli anche di più alla lettura. Ho inserito i margini, giustificato il testo e revisionato metà dei capitoli. Sono abbastanza contenta, ma ci sto ancora lavorando, quindi non vi spaventate(?) se notate qualcosa di diverso dal solito.
Che altro...? Sì, mi dimentico le cose e lo sapete. E' bello, comunque, come i Klondon passino dal litigare da una cosa all'altra come se niente fosse x'' ma tanto in fondo è la loro natura, mica sono picci pucci rose e fiori, già. Questo è un capitolo un bel po' colorito, per loro.
In un paragrafo noterete citato un certo Roel Flos: lui è un personaggio che appartiene a yingsu, ed è il vincitore dei 73esimi Hunger Games (e la sua storia, che vi consiglio assolutamente, la trovate qui -> I'm frozen to the bones). Quindi ci troviamo in questo periodo, tanto per chiarire.
Ultima cosa ma non per importanza, ci tengo a pubblicizzare l'evoluzione de "Il Forno", un gruppo facebook che si è decisamente ampliato e che è gestito da admin stupende -> A Panda piace fare le bolle di assenzio. Iscrivetevi pure, se siete interessati :3 Si spamma, si chiacchiera e si sclera.

Finalmente ho finito.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene dalla cover "Stronger" dei 30 Seconds to Mars. 

Questo nuovo banner di zecca appartiene a... *rullo di tamburi* me! Ci sono stata anni a farlo e, anche se non mi convince del tutto, sono abbastanza soddisfatta. La verità è che detesto chiedere cose agli altri, e quindi mi ci sono messa d'impegno. Ecco qua. Spero vi piaccia.
















 






 














Blur

(Tied to a Railroad)






018. Eighteenth Chapter – Harder.




« Sono arrivati. » Lo disse con un sospiro un po’ troppo prolungato, appoggiandosi allo stipite della porta. A dire il vero, Klaus non aveva voglia di vedere nessuno di loro. Avrebbe preferito di gran lunga passare la giornata da solo con la moglie. « Portiamo Klaudia dai tuoi » le aveva proposto, ma London era stata irremovibile, Klaudia sarebbe rimasta a casa dal momento che aveva ancora i decimi di febbre.
Nonostante fosse il loro settimo anniversario, infatti – entrambri ancora non si capacitavano di quanto tempo fosse effettivamente passato dal loro matrimonio –, avrebbero trascorso la giornata in gran compagnia.
E che compagnia, stava pensando Klaus da quella mattina. Non ricordava bene se fosse stata London a invitare sia Wreisht che Bridge, o se fossero stati loro ad autoinvitarsi. Non aveva voglia di chiederselo, comunque, considerando che erano già arrivati e stavano giusto bussando al campanello.

« Va’ ad aprire, allora » lo incitò London, pettinandosi i capelli davanti allo specchio con una spazzola. « Mio padre detesta aspettare, lo sai. »
« Anche il mio » mugugnò Klaus, prima di scendere le scale e andare ad aprire.
La prima persona che si ritrovò davanti fu Erzsébet Bridge, che gli sorrise serena porgendogli un vassoietto di pasticcini abilmente incartato. Klaus lo prese senza badarvi troppo: che li avesse fatti lei o li avesse comprati, non avrebbe toccato dolci.
Sua madre e Alfons entrarono subito dopo la suocera e, dopo di Benjamin, Frantz fu l’ultimo. Klaus ebbe l’impulso di chiudergli la porta in faccia, ma si trattenne e lo fece entrare, provando ad ignorare la sua presenza. Anche quando scambiò qualche parola di cortesia con i Bridge sentiva il suo sguardo puntato addosso e, per quanto detestasse ammetterlo, la cosa lo metteva terribilmente a disagio.
Non era un caso che dopo essere stato frustrato lui e suo padre si fossero visti soltanto il minimo indispensabile durante quei cinque lunghi anni. A dire il vero, non gli aveva quasi più parlato, perché la rabbia gli impediva sopra ogni altra cosa di ragionare. Ogni volta che pensava a lui, ogni volta che si ricordava di quel suo ventunesimo compleanno passato nel peggiore dei modi, cominciavano a prudergli le mani e un sentimento d’odio si faceva strada dentro il suo petto.
Pensava a Klaudia, a come si sarebbe sentito se lui in persona le avesse torto anche un solo capello: male, ecco come; si sarebbe sentito la persona più orribile sulla faccia della terra. E non riusciva a capire come Frantz fosse sopravvissuto ai sensi di colpa per aver fatto del male al proprio figlio. Sempre se ne avesse avuti, di sensi di colpa. Conoscendolo, forse quella punizione gli era sembrata persino troppo blanda.
A volte si fermava a pensare a qualla vicenda come un personaggio esterno e più ci rifletteva, più si convinceva di essere dalla parte della ragione.
Con quale dignità, poi, si presentava in casa sua? Sembrava tranquillo, freddo come il marmo come sempre, con i capelli neri ordinatamente pettinati all’indietro e i corti baffi a contornargli il labbro superiore. Si aggirava tranquillo per l’atrio, parlando di tanto in tanto con Alfons e osservando l’ambiente con circospezione.
Klaus tentò di fare finta che non ci fosse, ma non era molto facile dal momento che si ritrovava davanti la sua figura austera ogni volta che si girava.
Strinse i pugni, arrivando a conficcarsi le unghie nei palmi delle mani. Sarebbe stata una giornata peggiore di quello che sperava, lo sapeva bene.  

« London e Klaudia sono di sopra » disse alla suocera, che era impaziente di vedere la nipotina.
« Si stanno facendo belle? » domandò Ben ironicamente, affiancandoglisi.
Klaus storse le labbra. 
« Klaudia non ne ha bisogno. »
« Anche London » ribatté l’albino. « O vorresti dire il contrario? » 
L’altro sorrise debolmente, scuotendo la testa. E meno male che sperava di avere un alleato.
Di bene in meglio, pensò allora, prima di volgere lo sguardo verso le scale, dove una Klaudia raggiante scendeva correndo incontro agli ospiti, seguita dalla madre.
La bambina in men che non si dica si fiondò tra le braccia di Ben, che la alzò dal pavimento come se fosse una piuma, sorridendo felicemente.

« Ciao, piccolina » le disse, accarezzandole affettuosamente i capelli bianchi come i propri. « Come va? »
Klaudia rispose con delle parole insensate, ma Ben continuò a sorridere esattamente come se stesse davvero capendo i suoi discorsi. Le baciò una guancia e Klaus, per qualche assurdo motivo, rimase paralizzato a fissare quella scena con lo stomaco chiuso in una morsa. La piccola si aggrappò al collo di quello che tutti credevano essere suo zio, ridendo per chissà quale ragione, e questo non poté che farlo sentire decisamente inappropriato, più a disagio di quanto già non fosse.
Spesso ricordava a se stesso che Klaudia non era veramente sua figlia, che non poteva permettersi di considerarla di sua proprietà, né poteva costringerla a non vedere Ben.
Perché avrebbe dovuto, poi? Era lui il suo vero padre. E si vedeva.
Forse qualcun altro non l’avrebbe notato, ma Klaus nel corso della sua vita aveva imparato a conoscere tutti i piccoli dettagli che caratterizzavano i due gemelli e che li distinguevano l’uno dall’altra, al di là del carattere. Si era accorto molte volte di quanto il viso di London fosse decisamente più aristocratico di quello del fratello; Ben, infatti, pur mantenendo i tratti ben definiti della sorella, aveva un volto più morbido e dolce, che a prima vista ispirava subito simpatia e gentilezza: le guance un po’ più piene di quelle di London, il naso più dritto e non all’insù come quello di lei, gli occhi lievemente più scuri, la pelle un po’ più chiara.
Più spostava lo sguardo da lui a Klaudia, più la somiglianza gli appariva palese. La bambina era la sua copia in miniatura, con le stesse identiche sfaccettature.
Sebbene avesse ancora soltanto tre anni, in cuor suo Klaus sapeva che con il passare degli anni sarebbe stata sempre più simile a Ben che a London, come a voler rimarcare i suoi errori ogni giorno della sua vita, a dimostrargli che non era degno persino di fingersi suo padre.
Scambiò una fugace occhiata con la ragazza, che, si accorse, lo stava a sua volta guardando di sottecchi. Forse stavano pensando la stessa cosa, forse anche lei si era resa conto di quanto Klaudia fosse figlia del gemello a tutti gli effetti.
Tuttavia, anche se qualcuno avesse tentato di tirar fuori la minima parte di Wreisht che sarebbe dovuta esserci in lei, era facile giustificarne l’assenza, dal momento che i suoi veri genitori erano gemelli e potevano far passare l’eccessiva somiglianza con i Bridge per una questione di geni.
Klaudia, inoltre, si trovava decisamente bene con Benjamin, Klaus lo vedeva in ogni sua più piccola azione. Poteva dire la stessa cosa di lui, che la abbracciava e teneva stretta a sé ogni volta che poteva. Gli faceva uno stranissimo effetto, e proprio non riusciva a immaginare che effetto, invece, potesse fare ai due fratelli.
London non lo dava a vedere, ma Klaus era certo che anche lei si sentisse leggermente in colpa a quella scena. Aveva privato Ben – quella che riteneva la persona più vicina a lei al mondo – di sua figlia, del resto.
Ma lui proprio non riusciva a comprenderlo: sembrava affrontare tutto serenamente, felice che loro fossero felici. Non sapeva se quella fosse la verità o se fosse soltanto una maschera per non mostrare la parte di lui che, Klaus lo sapeva, si stava inevitabilmente incrinando al passare del tempo; eppure cercava di non pensarci. Si era ripromesso – anzi, si erano ripromessi – che sarebbe andato tutto bene, che avrebbero dovuto dimenticare quel passato turbolento che aveva capovolto le loro vite. Sembrava difficile, certo. Era difficile. Bisognava soltanto essere forti. Essere forti e andare avanti.

« Ha ancora un po’ di febbre, Ben, potrebbe contagiarti » commentò London in quel momento, sorridendo e incrociando le braccia al petto.
« Lo sai che ho una salute di ferro » scherzò il gemello, prima di baciarle dolcemente una guancia. « Voi come state? »
« Bene, tutto sommato » rispose lei.
Ben si voltò verso Klaus.

« Sì, bene » assentì il diretto interessato, evitando tuttavia il suo sguardo.
Klaudia mormorò qualche altra parola. 
« Apa, apa! » ripeteva ogni tanto, aggiungendo altri numerosi versi apparentemente insensati.
« Papà, dici? » chiese Ben alla piccola, indicando Klaus con un cenno del capo. « Vuoi andare in braccio a lui? »
« Veramente- » provò a obiettare l’altro, ma l’albino gliela mise praticamente tra le braccia, guardandolo con quanta più naturalezza gli era possibile. Accennò anche ad un sorriso, che Klaus non ricambiò. Era proprio quel genere di situazioni che lo mettevano in imbarazzo, se si contava che Ben gli stava praticamente passando la figlia con una spontaneità di cui lui non sarebbe mai stato capace.
Strinse la bambina a sé e per qualche secondo continuò ad ascoltare le chiacchiere dei due gemelli con la madre come un completo estraneo. Perché in fondo era questo quello che era davvero; lui, tra i Bridge, ci era capitato per caso.

 
*


La giornata trascorse per molti versi davvero lentamente. Il pranzo sembrava non finire mai e ogni rintocco dell’orologio a pendolo era come un doloroso traguardo.
A London faceva piacere stare in compagnia della sua famiglia, ma doveva ammettere che la presenza di Frantz Wreisht la disturbava non poco. La cosa che più le faceva salire il nervoso era il fatto che lui si comportava come se niente fosse. Certo, manteneva sempre quell’atteggiamento serioso e formale, ma non sembrava toccato neanche un po’ dalle occhiate cariche d’astio del figlio o dalle fredde parole dei coniugi Bridge.
London sentiva di odiarlo come mai aveva odiato nessun altro. A momenti sperava ardentemente che una malattia lo cogliesse prima del tempo per portarlo a miglior vita e non si pentiva affatto di quei pensieri. Se Frantz fosse morto, a dire il vero, sarebbe stato meglio per tutti.
Tuttavia, non era un caso che fosse uno degli uomini più abbienti del Distretto: deteneva il controllo di un bel po’ di Pacificatori – corrotti probabilmente con il denaro, che sicuramente ai Wreisht non mancava – e nel suo piccolo cosmo poteva esercitare tutto quel potere come desiderava.

« Come sta andando il commercio della frutta in Europa? » stava domandando ad Alfons in quel momento. « Ancora problemi di spedizione? »
Il signor Bridge poggiò i gomiti sul tavolo e, intrecciate le dita, si portò le mani sotto il mento, osservando Frantz con cipiglio guardingo. « Capitol City mi ha promesso che risolverà il problema dei trasporti. Molti hovercraft impiegano giorni interi per andare e tornare; o sono in riparazione, o ce ne sono troppo pochi. Il bello è che quest’andamento titubante non conviene neanche a loro, dal momento che i prodotti alla fine sono destinati ai capitolini... dovrebbero provvedere al più presto. Tra un paio di giorni ci sarà un controllo generale degli hovercraft che partono dal Distretto Sei e tutti i voli saranno annullati per poi riprendere alle prime luci dell’alba. »
« Capitol City è in rovina » ribatté l’altro uomo decisamente, accavallando una gamba. « Spende una quantità indicibile di denaro per organizzare gli Hunger Games e alla fine si ritrova sempre in debito o con pochi soldi. Dovrebbero tassare i vincitori… ad esempio questo plurinominato Roel Flos ha guadagnato in poche settimane più di quanto avrebbe potuto immaginare in tutta la sua vita. »
Alfons non diede cenni d’assenso. « Da sempre Panem funziona così. Il Presidente fa solo ciò che rientra nei suoi interessi e tenere a bada le masse è uno di questi. Gli Hunger Games non saranno mai cancellati, o almeno non con Snow ancora al potere. »
London s’intromise prontamente nel discorso, folgorata da un pensiero improvviso. « Quindi Klaudia potrebbe essere estratta quando avrà compiuto dodici anni? »
Il padre si voltò verso di lei, riservandole uno sguardo apprensivo. « Temo di sì, tesoro. »
London spalancò gli occhi. A dire il vero non ci aveva mai pensato prima. « Papà… ma lei è… »
« Sorda » concluse Klaus, rientrando nella sala da pranzo con una nuova bottiglia di vino recuperata dallo scantinato. « Dovrebbe essere esonerata dalle mietiture. »
Alfons rimase a riflettere qualche secondo. « In effetti si potrebbe parlare con il sindaco. »
« Il sindaco non ha più potere di noi » replicò invece Frantz, fissando il figlio insistentemente, tanto che lui si sentì costretto a volgere lo sguardo altrove. « Anche quando Klaus fu estratto tentammo di parlare con lui, ma fu irremovibile sull’argomento; il sindacato nei Distretti non ha alcuna facoltà. »
« Ma Klaus non è sordo » precisò Alfons, alzando un sopracciglio, « è ovvio che non potesse essere esonerato per alcuna ragione. »
Lo sguardo di Frantz si fece più duro. « Di ragioni ce ne sarebbero eccome, ma forse il destino ha deciso a suo tempo che Klaus doveva essere punito. »
London vide chiaramente la reazione del marito: si alzò in piedi di scatto, di sicuro offeso nel profondo, con i pugni stretti talmente forte da sbiancargli le nocche. Sapeva che adesso la giornata sarebbe degenerata; era sicura che Klaus avrebbe risposto altrettanto crudelmente a suo padre, ma invece voltò i tacchi e se ne andò.
Alfons sembrò confuso da quella scena, Frantz fin troppo soddisfatto. London era certa che anche lei non avrebbe retto oltre, per cui seguì il ragazzo senza aggiungere nulla, biascicando tra i denti insulti poco piacevoli in direzione di quell’uomo che sembrava voler costantemente complicare la loro vita.


« Klaus » lo chiamò, ma lui sembrò non sentirla neanche.
Il ragazzo stava girando nervosamente per la stanza, con lo sguardo ardente di rabbia e il respiro veloce. 
« Ha detto che meritavo di essere punito! » disse, digrignando i denti per non urlare. « Quel maledetto- »
« Klaus » ripeté London, alzando il tono di voce. Gli poggiò una mano sull’avambraccio, ma lui si scostò bruscamente.
« Che vuoi? » sibilò.
London ritrasse la mano, offesa. 
« Devi calmarti. Tra un po’ vanno via. »
« Mi spieghi come faccio a calmarmi? Sei stata tu a invitarli, li hai chiamati senza nemmeno consultarmi… Che c’è, ti diverti a vedermi perdere le staffe a causa di quel figlio di puttana di mio padre? L’anniversario è di entrambi e anche io dovrei avere una certa facoltà decisionale! » cominciò a raffica, guardandola dritto negli occhi. A London, Klaus in quei momenti metteva sempre un po’ di soggezione, ma ormai vi era abituata e sapeva come ribattere, anche se restava a fissarla con quello sguardo di brace come se la volesse mettere a nudo.
« Non darmi la colpa di ogni cosa! » protestò. « Ho soltanto fatto quella che mi sembrava la cosa più giusta da fare. »
« Mi dispiace deluderti, ma è la cosa peggiore che ti potesse venire in mente » replicò lui. « Santo cielo, ma una sana scopata non ti bastava per festeggiare»
La ragazza fece un’espressione indignata. « Vedo che come sempre mantieni la tua risaputa delicatezza » commentò con una smorfia, incrociando le braccia.
« Sì, d’accordo? » fece Klaus, fronteggiandola. « E vuoi sapere una cosa? Non me ne fotte un cazzo della delicatezza, non me ne faccio niente delle belle parole perché qui fa tutto schifo e io mi comporto di conseguenza. »
« Fa tutto schifo, dici? » ripeté London, ormai fin troppo stizzita. « Ti stai creando dei problemi da solo, per una volta nella tua vita non hai di che preoccuparti e ti lamenti lo stesso soltanto perché non sai sopportare per due minuti le insinuazioni di tuo padre… Che ti costa mantenere per un po’ la facciata? Te l’ho detto, tra poco se ne tornano a casa e sarai libero di fare quello che ti pare! »
Klaus strinse i pugni, cominciando ad alzare il tono di voce. « Ma io neanche li volevo in casa nostra! Hai fatto tutto da sola, quando io invece avrei preferito passare la giornata da solo con te... »
« No » lo contraddisse lei, « tu avresti voluto passare la giornata a fare sesso, è diverso. »
Il marito inarcò le sopracciglia. « Scusa tanto se siamo sposati da sette anni e fare sesso è l’unica cosa che ci riesce meglio delle altre. »
London incassò il colpo a denti stretti. « Ah, è così che la metti? Per te conta solo questo? »
« Non sto dicend- » provò a chiarire Klaus, prima che la ragazza lo bloccasse.
« Non cambi mai! Hai la sensibilità di un maiale! »
« Chi se ne frega » sbottò lui, « sono libero di dire quello che mi pare, che a te piaccia o meno. »
« Ah, benissimo » esclamò London. « Allora da oggi le sane scopate te le scordi! »
L’altro sembrò più offeso del dovuto. « Che cazzo c’entra ora? »
« C’entra eccome » ribatté la moglie, soddisfatta, « dal momento che per te conta soltanto sfogare le tue pulsioni su di me come se fossi il tuo giocattolo. »
Klaus fece una breve risata aspra. « Ma che diamine dici, che tu stai sempre al gioco e urli come una verginella tutte le volte che lo facciamo? »
London assottigliò lo sguardo e rispose: « Te lo sarai sognato, idiota. Sei sempre stato fin troppo megalomane quando invece di “mega” non hai assolutamente nulla. »
Il sorriso – seppure falso – sulle labbra di lui morì all’istante. « Sei una fottutissima bugiarda. Dillo un’altra volta, avanti! »
« Lo dico quante volte mi pare » fece, alzando il mento in un muto segno di sfida.
« London, ma vaffanculo! » disse Klaus, andando in escandescenze e dandole una lieve spinta alle spalle.
« Non toccarmi! » strillò lei, ormai su tutte le furie.
« Perché ti comporti come se mi odiassi ancora? » chiese arrabbiato il marito. « Mi fai incazzare! »
« Che cosa vuoi dire? » domandò London, incapacitata. « Che non dovrei odiarti più? Non è cambiato niente, Klaus, mettitelo bene in testa, sono solo successe tantissime cose… ma io non sono cambiata, e nemmeno tu… »
« Lo vedi quanto fai schifo a mentire? Se è ancora come dici, allora torna a scopare con tuo fratello! »
London stentava a credere alle sue orecchie e sapeva che quel litigio inutile non avrebbe portato da nessuna parte, ma non poteva non rispondere a quelle provocazioni. « Non ti permettere di nominare Ben, lui non c’entra! »
« Sì che c’entra » contestò il ragazzo. « La verità è che non sai mentire, che non sai ammettere che adesso- »
« Che adesso cosa, che dovrei essere innamorata di te? » proruppe, nel tono tuttavia una nota di tentennamento abbondantemente nascosta dal sarcasmo.
Klaus la guardò con meno rabbia e il suo volto improvvisamente si fece più teso e serio. 
« Sì. »
Lo sguardo di London, invece, vacillò. « Non è vero. »
« Ridillo » sibilò lui. « Ridillo, forza, e io ti dirò che sei una puttana, che ti piace passare da me a Ben a tuo piacimento, che non sai deciderti perché sei la persona peggiore del mondo… Se vuoi torniamo ai vecchi tempi senza remore, possiamo scordarci di Klaudia e di tutto quello che abbiamo passato solo perché non sai arrenderti, per una volta… che ti costa, London? » Le afferrò le spalle, ma a differenza di qualche momento prima non c’era durezza in quel gesto, soltanto frustrazione. « Sono solo parole… solo parole»
London non avrebbe retto altro di quel discorso. Gli occhi le divennero lucidi prima che potesse veramente accorgersene, prima che potesse anche solo far prevalere la ragione sulla rabbia. « Sei un bastardo, Klaus » rispose, trattenendo a stento un singhiozzo, rimanendo immobile nella sua stretta decisa.
Klaus non voleva essere rude, non voleva farla piangere. Stava degenerando tutto. 
« Sarò anche un bastardo » le concesse, ammorbidendo la presa sulle sue spalle, « ma io lo faccio, vado contro il mio maledetto orgoglio per te, lo ammetto… lo ammetto che qualcosa è cambiato, e se solo me ne dessi l’occasione sarei anche capace di ammettere che io- »
London non seppe mai cosa sarebbe stato capace di ammettere Klaus, perché dalla porta comparve suo fratello, che teneva stretta la manina di Klaudia. « Che sta succedendo? »
Klaus lasciò le spalle della moglie, guardando verso il gemello. Avevano gridato. Non se n’era nemmeno reso conto.
In quel momento ringraziò che la bambina non potesse sentire, o sarebbe rimasta scossa da quante cose si fossero urlati poco prima. Eppure detestava l’idea che invece Benjamin avesse colto gran parte della discussione.

« Niente » ripose laconicamente.
« Stavate gridando » precisò il ragazzo.
Klaus corrugò la fronte. 
« Non ti interessa. »
London lanciò un’occhiataccia al marito e si avvicinò al gemello. « Lascia stare, Ben, va tutto bene. » In realtà sapeva nel profondo del suo cuore perché Ben fosse entrato proprio nel momento in cui Klaus stava per confessare l’inconfessabile – le stava per dire ti amo, glielo stava per dire per la prima e forse unica volta nella sua vita, dannazione – ma in quel momento cercò di non pensarci. Forse era stato meglio così, che il fratello avesse interrotto quella sottospecie di litigio, forse London non lo voleva nemmeno ascoltare. Non avrebbe saputo cosa rispondere, del resto. O quasi.
« Ci… ci stavamo preoccupando » mormorò Ben. « Shyvonne credeva chissà cosa stesse succedendo... »
« Non preoccuparti » cominciò London, ma Klaus la bloccò velocemente.
« Cosa sta succedendo, dici? » fece il moro, roteando sarcasticamente gli occhi. « Stavamo soltanto riflettendo su quanto la nostra vita matrimoniale faccia schifo. »
L’altro non seppe cosa replicare, interdetto.
« Klaus… » provò a fermarlo la moglie.
« Ecco » aggiunse quello, indicando Ben con un gesto eloquente della mano, « visto che ci tieni tanto a fare la bugiarda tornatene da lui. »
London gli riservò un’occhiata carica di risentimento. « Ma che cosa ti prende oggi? »
« Mi prende che mi sono rotto il cazzo » rispose, « delle tue bugie e di tutto questo. »
Benjamin rimase in silenzio, continuando a stringere la mano di Klaudia che spostava lo sguardo dall’ uno all’altro, spaesata.
« E che cosa vuoi che faccia? » domandò la ragazza, stufa di quella discussione.
« Quello che ti pare, ma non continuare a prendermi in giro. »
Ci fu un istante di pesante silenzio, così greve che si poteva toccare con le dita.
« Puoi andartene, se vuoi » continuò Klaus, rabbuiandosi, « e portare con te tua figlia. Alla fine io non sono neanche il suo vero padre, no? »
London avrebbe voluto ribattere, davvero, ma notò qualcosa – o meglio, qualcuno – sull’uscio della porta che li stava fissando con un’espressione impietrita.
Klaus e Ben, seguendo lo sguardo improvvisamente inorridito di lei, si voltarono nella sua stessa direzione. Non sapevano se Shyvonne Wreisht fosse passata per caso oppure no, eppure aveva udito chiaramente l’ultima parte di quella discussione che non sarebbe neanche dovuta nascere.

 
*


« Cosa stai facendo? » domandò Klaus, confuso.
Era notte fonda e dalla finestra della camera da letto a stento trapelava la luce della luna, che sembrava essersi ritirata a posta dietro le nuvole per permettere al buio di soffocare ogni cosa.
London aveva appoggiato un borsone sul letto e vi stava infilando tutto quel che poteva: abiti, asciugamani, cianfrusaglie. La stanza era sottosopra.

« Hai parlato con tua madre, no? » chiese di rimando lei, seccata. « Le hai detto di non dire niente a nessuno per nulla al mondo? »
« Sì » assentì il ragazzo, ma London sembrava non ascoltarlo neanche.
« Klaudia è in pericolo. » Era almeno la quarta volta che ripeteva quella frase e ogni volta sembrava convincersi sempre di più della sua veridicità. « Dobbiamo andarcene. »
Klaus se ne stava con le braccia lungo i fianchi e la fissava con sguardo interdetto. « Ma se ti ho appena detto che ho parlato con mia madre… »
« Non mi fido di tua madre! » sbottò London, incenerendolo con un’occhiata. « E non dovrei nemmeno più fidarmi di te, dal momento che hai combinato un casino. »
Il marito non seppe cosa rispondere. Optò per il silenzio, che sembrava essere l’alternativa migliore. D’altronde London aveva ragione.
« Passami quelle magliette » gli intimò lei.
« E dove vorresti andare? Panem non è così grande » fece Klaus, prendendo quegli abiti con un sospiro di frustrazione. « Ci troveranno ovunque andremo, non possiamo scappare così. »
London infilò le magliette nel borsone. « Io non ho mai parlato di Panem. »
L’altro rimase a pesare il valore di quelle parole per qualche secondo. « Stai pensando all’Europa?! » esclamò, esterrefatto. « London, è impossibile, chiaro? Da Panem non si fugge. »
« Lo so benissimo! » gridò la ragazza, adirata. « Per una volta lascia fare a me, so perfettamente come muovermi. »
« Ci uccideranno! » disse Klaus con enfasi, prendendole un braccio per farla voltare verso di lui. « Me, te, Klaudia, Ben. Non puoi dire sul serio. »
London gli diede una spinta. « Stammi a sentire: ho parlato con mio padre, oggi. Domani ci sarà un controllo degli hovercraft e tutti i voli saranno annullati fino alle prime luci dell’alba. E’ la nostra occasione: ci infiliamo in uno degli hovercraft intercontinentali e ce ne andiamo, a costo di corrompere tutti i piloti dell’hangar. »
Klaus faticava a credere a quelle parole. « Non ce la faremo mai. Poi sai che non potremmo più tornare indietro? E cosa ci aspetterà dall’altra parte? Non possiamo buttarci così senza sapere nulla! »
« Mio padre dice che l’Europa è in via di ripresa » cominciò London, tornando a concentrarsi sul borsone, che era già stracolmo, « e sta messa molto meglio di Panem, soltanto che Capitol City non ne parla mai per ostentare la sua apparente supremazia sul mondo intero. E’ tutta una grossa bugia: Panem e l’Europa sono alleate adesso, certo, ma sono sempre state rivali, sin dagli inizi della Terza Grande Guerra. » Fece una breve pausa, provando a chiudere la cerniera. « Ci faranno restare, vedrai. Al massimo ci chiederanno delle informazioni su Capitol, ma ci faranno restare. »
« London, ragiona: sappiamo quello che stiamo lasciando, ma non quel che troveremo. »
« Non mi interessa! » disse lei. « Panem fa schifo; siamo sotto dittatura, lo capisci? Un giorno Klaudia sarà costretta a partecipare alle mietiture, senza contare che se davvero qualcuno scoprisse la sua vera identità sarebbe… uccisa. Dai Pacificatori, da tuo padre, dai Pacificatori di tuo padre… non lo so. Dobbiamo andarcene, e se tu non vuoi venire non importa, ce ne andremo da sole. »
Klaus emise uno sbuffo esasperato e stavolta la fece girare mettendole le mani tra spalla e collo. « London, guardami » la incitò, e la ragazza alzò lo sguardo su di lui solo dopo qualche istante. « Vuoi davvero rischiare così tanto? Andrà… andrà bene lo stesso. »
« No, Klaus » mormorò London. « Non andrà bene, e lo sai. E’ la nostra unica speranza di ricominciare da capo, di vivere una vita migliore, di dare a Klaudia un vero futuro... ti prego… »
Klaus le accarezzò il mento con una mano, corrugando la fronte. « E’ una follia. »
La moglie si strinse a lui di slancio, nascondendo il viso nel suo petto. Non voleva più litigare, non voleva più vivere così. « Lo so. »
 
 










 
   
 
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