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Autore: Ivola    02/04/2014    8 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
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Note: Non sarò molto prolissa perché è tardi e domani ho una specie di interrogazione di storia, senza contare che devo ancora ripetere (per non dire studiare). In ritardo, come al solito, ma ci tenevo a pubblicare prima di partire per Praga (lunedì *^*) per una settimana. Quindi, badum tss, eccomi qua a rompervi le scatole come sempre.
Capitolo più breve rispetto al precedente, ma, credo, molto più intenso. Ho sperimentato per la prima, vera volta il PoV di Ben e di Ludmille Schnee, perché volevo distaccarmi un po' da ciò che sta accadendo a Klaus e London (questione degli hovercraft rimandata al prossimo capitolo). Perciò, benvenuti nel vero mondo di Benjamin Bridge.

Alcuni personaggi che compaiono qui, Mary e Lloyd Mars e Reg Addams, sono proprietà di AriiiC_, che aspettava questo capitolo tipo dall'era dei dinosauri. Ok. Spero di averli trattati bene.
Ho usato uno stile abbastanza diverso per cercare di entrare nella storia a tutti gli effetti e mi ci sono impegnata davvero molto. Mi dispiace soltanto che il "seguito" sia di gran lunga diminuito, proprio ora sul più bello ;u; Esatto, perché questo 19 determina la fine della seconda parte di Blur. La terza sarà... tutta un programma. Spero che i lettori non spariscano proprio ora che le cose si faranno assai più interessanti, per cui, se mi lasciate un segno del vostro passaggio mi fa sempre piacere, da morire.
Ora vado e mi dedico alla Guerra dei Trent'anni, sì.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da "Cancer" dei My Chemical Romance. Assolutamente interpretabile. 

Questo nuovo banner di zecca appartiene a... *rullo di tamburi* me! Ci sono stata anni a farlo e, anche se non mi convince del tutto, sono abbastanza soddisfatta. La verità è che detesto chiedere cose agli altri, e quindi mi ci sono messa d'impegno. Ecco qua. Spero vi piaccia.
















 


 


















Blur

(Tied to a Railroad)






019. Nineteenth Chapter – Bury me in all my favorite colors.




La pavimentazione dell’hangar era impolverata ed emanava un pungente odore di benzina. Klaus si guardò intorno; non vedeva altro che hovercraft, elicotteri, operai in movimento, motori… Era quello il paradiso del Distretto Sei. Lui non aveva mai lavorato in vita sua – quella del mentore, infatti, non poteva di certo considerarsi una vera professione – e in quel momento tutto quell’affaccendarsi gli stava confondendo il cervello. Qualcuno l’aveva visto entrare, certo, ma nascondersi o cercare di passare inosservato sarebbe stato ancora più rischioso.
Sapeva già con chi parlare, sapeva già cosa dire e cosa fare, ma per non destare troppi sospetti dal momento che era presente anche un discreto numero di Pacificatori intrattenne delle brevi conversazioni con diverse persone, nominado Capitol City ogni tanto nel caso ci fosse stato qualcuno ad origliare.
Ci fu un uomo, tuttavia, con cui scambiò delle informazioni essenziali. Era alto, anche se un po’ meno di lui, aveva i capelli neri, la pelle e la tuta sporche di olio per motori.

« Reg Addams? » gli domandò Klaus, avvicinandosi cercando di non risultare troppo circospetto.
Questi alzò lo sguardo su di lui e si pulì le mani sul pantalone della tuta. 
« In persona » rispose, alzando un sopracciglio. Quando riconobbe l’identità dell’altro, comunque, mutò la sua espressione perplessa, lanciandogli un’occhiata d’intesa. « Ho risolto quella questione, non hai assolutamente nulla di cui preoccuparti » disse a Klaus. « Domani mattina alle sei in punto, aspettatemi nell’area tre. »
« La busta con i soldi ti è arrivata? » chiese lui.
« Perfettamente integra. »
Non ci furono bisogno di altre parole.
Klaus voltò i tacchi e dopo pochi minuti abbandonò l’hangar.

La pavimentazione dell’hangar era impolverata ed emanava un pungente odore di benzina. Ancora. Klaus credette che ci fosse addirittura più gente del giorno prima, intenta in ogni genere di lavoro. Buttò un’occhiata in giro, stringendo convulsamente i manici del borsone, dopodiché fece segno a London di avvicinarsi.

« Dov’è Reg? » chiese lei, inquieta, stringendo una Klaudia ancora mezzo addormentata tra le braccia.
« Ha detto di aspettarlo qui » rispose laconicamente, cercando nuovamente il viso dell’uomo in giro.
« Klaus… credo che qualcuno ci abbia visto » mormorò la moglie, accarezzando i capelli della bambina, come per tranquillizzarla, quando invece l’unica da tranquillizzare sarebbe dovuta essere lei.
« Per forza ci hanno visto » ribatté Klaus nervosamente, squadrando con ansia quella parte meno affollata dell’enorme hangar, detta “area tre” perché delimitata da un grosso tre bianco sul pavimento. « Almeno non sapranno quale hovercraf prenderemo. Mi ha detto Reg che non ho nulla di cui preoccuparmi… ma adesso dove diavolo è, porca di quella-? »
L’imprecazione si perse nel vuoto quando il pilota comparve improvvisamente davanti a loro. « Svelti » sussurrò soltanto, esattamente nel momento in cui il suono acuto e prolungato di una sirena si propagò all’interno dell’hangar, facendo bloccare i vari operai per poi indurli ad andarsene o a salire sugli hovercraft a seconda della loro mansione. Come previsto, nessuno badò minimamente a loro. Neanche i Pacificatori, quasi tutti esausti per il turno di notte e intenti a darsi il cambio, avevano fatto particolarmente caso a loro, ben appostati in un angolino dimenticato.
Klaus sentì una scarica di adrenalina attraversagli il corpo e insieme a London percorse a passi veloci la distanza che li separava dall’hovercraf più vicino, quello guidato da Reg.
Era una vettura di modeste dimensioni rispetto a tutte quelle che Klaus aveva visto a Capitol City, forse destinata unicamente allo scambio delle merci.

« Forza » li incitò il maggiore con un rapido gesto della mano, constatando che l’ultimo Pacificatore in vista aveva appena fatto dietrofront.
London e Klaudia salirono per prime attraversando la stretta porta di metallo e Klaus dietro di loro. Non si voltarono indietro nemmeno per un istante, pensando a nascondersi nello scomparto più buio e isolato del veivolo, come se qualcuno li potesse vedere anche attraverso le spesse pareti. L’interno era pieno di casse, scatoloni sigillati, pacchi dall’aria anonima e ricoperti di plastica; i tre si appostarono a terra tra le merci, gettando il borsone in un angolo e poggiando la schiena contro il metallo.
London respirava velocemente, stringendo Klaudia tanto forte da farla svegliare. La bambina, confusa, vedendo lo sguardo preoccupato della madre e sentendo vibrare tutto cominciò a spaventarsi e a piangere, per cui fu Klaus a prenderla tra le braccia e a provare a consolarla.
Dopo pochi istanti Reg azionò definitivamente il motore. Non poterono vederlo, ma sapevano che l’hovercraft si stava alzando in volo e che presto grazie al tetto apribile dell’hangar sarebbe stato alto nel cielo, a far compagnia alle nuvole.
London non aveva mai volato e quasi sembrò rimanere terrorizzata dall’incredibile frastuono che il motore produceva. Inoltre, l’assenza di finestrini le stava causando un attacco di claustrofobia.
Stavano scappando, come dei codardi. Avevano scelto la via più difficile.

« Non l’ho neanche salutato… » sussurrò la ragazza con tono spezzato, attirandosi le ginocchia al petto, gli occhi spalancati nella penombra dello scomparto.
« Sta’ tranquilla, Ben starà bene » provò a mormorare Klaus, ma la sua stessa voce gli morì in gola. Ormai il dado era tratto e indietro non si poteva tornare. Sapeva che l’idea di separarsi da Ben per sempre la stava dilaniando, ma doveva farsi forza. Per Klaudia, per se stessa, per lui. Lasciare Panem implicava lasciarsi tutto alle spalle: famiglia, passato, problemi, ricordi… tutto doveva essere cancellato.
La maggior parte dei veivoli si librò nel cielo mattutino come uno sciame di mosche. Ognuno volò in una direzione diversa e quello guidato da Reg Addams partì alla volta della fuga più rischiosa di sempre, verso l’ignoto, verso un nuovo mondo.
Klaus si rese conto solo in quell’istante di non aver nemmeno detto addio a tutto quello che aveva conosciuto fino ad allora.  
 

*


Benjamin non si era sentito mai tanto teso prima di quella cena. Lo capì perché le mani sembravano tremargli leggermente troppo e il cibo non ne voleva sapere di andare giù, restandogli ancorato in gola o alla bocca dello stomaco. Aveva voglia di rimettere tutto, di vomitare anche se stesso. Si asciugò i palmi intrisi di sudore sulla stoffa dei pantaloni e quando sua madre servì l’ennesima portata le sussurrò piano che non si sentiva affatto bene. Erzsébet gli riservò una rapida occhiata preoccupata, poi gli mise una mano sulla spalla in un gesto di muto conforto.
Suo padre, di fronte a lui, lo guardò invece con fare più indagatore e, forse, stanco. Alla sua non poi così veneranda età aveva avuto l’onore di organizzare entrambi i matrimoni dei propri figli e, per quanto quell’idea gli facesse ribrezzo, almeno era servito a qualcosa. O non proprio.

« E così » disse l’uomo seduto accanto ad Alfons, addentando un pezzo di carne, « non ha notizie di sua figlia? »
Il signor Bridge strinse la presa intorno al suo calice e annuì gravemente. « Abbiamo trovato solo una lettera in casa… pare che stiano bene, ma non abbiamo idea di dove effettivamente possano essere andati. »
L’ambasciatore Mars continuò a guardare il piatto davanti a sé. « Dovreste contattare le autorità, è assai strano che siano spariti così, nel nulla, da… quanti? Cinque giorni? »
Ben ricominciò a sudare freddo. Perché tutti sembravano volergli ricordare che Klaus, London e Klaudia se n’erano andati? Non avevano lasciato nessuna informazione, se non quella lettera coincisa indirizzata alla famiglia Bridge: stiamo bene. Addio. Queste erano le ultime parole della missiva.
Addio.
Ben aveva stretto quella lettera tra le mani solo per qualche secondo, poi l’aveva strappata in quanti più pezzi gli era stato possibile. Addio. Qualcosa gli faceva immaginare cosa li avesse spinti a scappare, a rifugiarsi in chissà quale oscuro luogo del mondo, ma più ci rifletteva, più le mani gli tremavano e il suo stomaco si stringeva in una morsa, fino a fargli desiderare di aprirsi il ventre con un coltello per porre fine a quella sensazione di malessere perenne.
Se n’erano andati per proteggere Klaudia. Se l’era ripetuto sino alla noia. Non aveva versato nemmeno una lacrima, perché era per il bene di sua – loro – figlia che avevano abbandonato tutto e tutti. Forse lui avrebbe agito alla stessa maniera, eppure non riusciva a fare a meno di tremare. Era più forte di lui, come una forza trascendente che lo scuoteva per farlo impazzire.
In quel momento avrebbe tanto voluto alzarsi, salutare tutti e andarsi a chiudere nella sua stanza per sfogarsi e riposare, ma era costretto a stare lì e far finta di sorridere.
Mary J. Mars poco lontano da lui si stava mordicchiando un’unghia con lo sguardo perso nel vuoto. Anche lei non aveva mangiato praticamente nulla e questo da un lato lo confortava. Si sentiva capito.
Suo padre e l’ambasciatore continuarono a parlare per una buona mezz’ora, mentre Erzsébet andava e veniva dalla cucina trasportando piatti vuoti o pieni a seconda della direzione. L’ultima persona seduta a quella tavola era Ludmille Schnee, vincitrice e mentore del Distretto, che interveniva sporadicamente nel discorso, dal momento che era stata lei a far conoscere i due uomini.
A Ben sembrava di essersi alienato dal mondo, quella sera, tutto ciò che gli rimbombava in testa erano i suoi pensieri.
Addio. Ogni tanto quella parola tornava a fracassargli il cervello.

« E così dovremmo fissare una data per il matrimonio » disse Lloyd, l’ospite. « Ormai Mary ha compiuto diciotto anni e può perfettamente sposarsi con il mio consenso. »
« Mamma non avrebbe voluto » biascicò la ragazza, incrociando saldamente le braccia. Il padre la ignorò.
« Sì, credo che sia giunto il momento » rispose Alfons accennando a un sorriso cordiale. « Dopotutto non abbiamo nulla da perdere. » Un colpo di tosse lo colse all’improvviso, ma nessuno sembrò farci caso.
« Bene » asserì il signor Mars. « Oggi è il dodici giugno. Un mese va bene per i preparativi, no? »
« Sì » rispose velocemente Ben. Non vedeva l'ora di isolarsi da quella gente. « E’ perfetto. »
Mary gli lanciò un’occhiataccia e stirò le labbra probabilmente per trattenere un’imprecazione. « Assolutamente perfetto » ripeté la ragazza, con una velata nota di sarcasmo.
« Almeno loro collaborano » commentò Alfons mestamente. « Non ha idea di cosa ho dovuto passare per far sposare mia figlia. »
Lloyd alzò il proprio calice. « Un’idea ce l’ho, non si preoccupi » fece, guardando Mary di sottecchi. « Adesso brindiamo! »
 

*


L’estate era vicina e si sentiva dal caldo che si faceva via via più afoso e incombente come la scure di un boia. Tuttavia, in quel momento, la bella stagione sembrava ancora lontana. Un temporale improvviso scoppiò in tarda serata, portando il freddo con sé. Lloyd e Mary se ne andarono prima che la pioggia potesse aumentare, mentre Ludmille preferì intrattenersi per aspettare che la tempesta passasse visto che la sua casa era molto lontana da quella zona, nel Villaggio dei vincitori.
La pioggia, in ogni caso, sembrò prendersi gioco di lei perché continuava a battere imperterritamente; così i Bridge la invitarono a trascorrere la notte da loro e lei si sentì costretta dalle circostanze ad accettare, sebbene si sentisse abbastanza a disagio in quel maniero antico e pieno di stanze.

« Non preoccuparti, cara » le aveva detto Erzsébet, preparandole una delle camere riservate agli ospiti. « Sei la benvenuta qui. »
Ludmille sorrise debolmente, ringraziandola, quando la donna uscì e la lasciò da sola.
Si sedette sul letto e guardò fuori dalla finestra: non riusciva neanche a scorgere il giardino, tanta era la pioggia che picchiava sui vetri. Odiava i temporali. Non avrebbe voluto trovarsi lì fuori per niente al mondo.
 

*


Un fulmine improvviso illuminò la stanza con una lama di luce tagliente quanto quella di un pugnale e, in seguito, un tuono fece vibrare le pareti azzurrine.
Ben si tappò le orecchie con forza con i palmi delle mani, stringendo le palpebre come per non rimanere accecato. L’odore pungente del sangue gli arrivò alle narici e lo stordì completamente. Aveva ancora le mani sporche, le dita appiccicose e i polsi freschi di nuovi tagli.
Lho fatto di nuovo. Questo era l’unico pensiero che gli viaggiava nella mente stanca e provata. Aveva promesso a Klaus che non si sarebbe più tagliato e invece quella volta non aveva resistito alla tentazione; aveva preso la lametta e si era inciso la carne. Una, due, tre, quattro volte. Il sangue era colato, rapido e ammaliante.
No!, aveva urlato, dentro di sé, più terrorizzato delle altre volte. Era rimasto a fissare quel liquido vermiglio che gli era colato lungo le mani e lungo le braccia, che aveva macchiato le lenzuola e gli aveva confuso il cervello. I suoi occhi grigioverdi spalancati avevano catturato ogni più piccola sfumatura di quel rosso cremisi e accecante quasi quanto quella lama di fulmine, avevano colto la sua macabra potenza e osservato tutte le diramazioni, fino a che la testa non aveva cominciato a girargli.
Ben si accasciò sul letto, lasciando vagare lo sguardo sul soffitto che a tratti gli sembrava familiare e a tratti sembrava essere la cosa più estranea del mondo. Anche quello si colorò di sangue. Anche i fulmini, le pareti, i vetri, il pavimento divennero rossi. Un mare di sangue. Era sangue quello che respirava, l’aria sembrava essersi dissolta nel vuoto. Stava soffocando.
Si alzò di scatto dal letto e quel movimento improvviso aumentò i giramenti di testa, che lo fecero barcollare e cadere a terra. Sperò che nessuno l’avesse sentito, non voleva essere visto in quello stato. Non voleva essere visto e basta.
Strisciò piano in direzione della porta, mentre un altro fulmine – bianco o rosso che fosse – sembrò volerlo divorare. Si trattenne dall’urlare, in panico. La vista gli si annebbiò, ma continuava a vedere il sangue dovunque.
Basta, per favore, basta!, gridò nella sua testa, alzandosi con difficoltà e raggiungendo a tentoni la maniglia della porta. Che ore erano? Le tre? Si accorse di non volerlo neanche sapere. Non voleva conoscere l’ora della sua morte.
Spalancò la porta e cominciò ad arrancare nel buio soffocante del corridoio, pregando con tutto il cuore di non inciampare e svegliare tutti.
Non aveva idea di cosa stesse facendo, ma la sua mente quasi gli ordinava di salire le scale e raggiungere il terrazzo. Era quella la sua meta. Sentiva che tutto sarebbe dipeso da quel luogo e da quel momento. Un passo. Un altro. Un altro ancora.
Ben si ritrovò affannosamente sulle scale senza neanche accorgersene. Si aggrappò al corrimano, chiedendosi solo per un istante se il sangue avrebbe lasciato qualche traccia. Certo che l’avrebbe fatto, anche se lui in quel momento non desiderava altro che sparire nel nulla come se non fosse mai esistito. Sparire come avevano fatto Klaus e London.
Klaus e London. Quei nomi gli graffiarono il cranio e Ben dovette mordersi le labbra per non urlare. Qualcuno sembrava strillarglieli dall’interno, con l’intenzione di farlo morire di emicrania. Klaus. Klaus. Klaus.
L’avevano abbandonato, questa era la verità. Tutto ciò che volevano era che lui rimanesse da solo.
No, non era vero, stava degenerando tutto. Erano andati via per proteggere Klaudia.
Ben capì di essere arrivato sul terrazzo solo quando un’ondata di vento, freddo e pioggia lo investì con violenza, lasciando che il pigiama gli si appiccicasse addosso e che l’acqua lavasse via il sangue. La vista gli si appannò ancora di più, ma almeno tutto quel rosso stava sparendo. Tutto ciò che riusciva a vedere era la pioggia. Pioggia ovunque. Gli bagnò completamente il corpo, lo fece respirare, quasi gli entrò nella pelle. Per un attimo gli diede un’improvvisa sensazione di libertà, ma subito dopo acuì il dolore e fece crescere il gelo dentro di sé. Il freddo sembrò penetrare nelle sue vene al posto del sangue, costringendolo a camminare più lentamente. Ogni passo era un traguardo, ogni volta che poggiava i piedi nudi l’uno davanti all’altro sul gelido pavimento bagnato si sentiva sempre più pesante e vuoto al tempo stesso.
Aria, pensava soltanto, strizzando gli occhi nel buio per cercare di vedere almeno la ringhiera. Datemi aria.
Tutti l’avevano abbandonato. O, forse, era stato lui a permettere che tutti l’abbandonassero. Era stato troppo buono, troppo gentile e disponibile con il mondo e nessuno si era mai preoccupato di ricambiare quella bontà anche solo per ringraziarlo.
Forse l’aveva sempre saputo, che sarebbe finita così. Forse non ne vedeva l’ora. Sarebbe stato libero, finalmente. Morto, ma libero. Quella volta i tagli non erano bastati, non avevano sortito nessun effetto su di lui, se non quello di farlo sprofondare ulteriormente nel dolore e nella solitudine.
Con un ultimo, doloroso passo, arrivò finalmente alla ringhiera. Sporgendosi da lì – troppo per qualcuno che vuole soltanto affacciarsi – Ben si domandò per un istante se il corpo di una persona vuota e sola avrebbe fatto rumore nel precipitare al suolo.
 

*


Qualcosa la svegliò. Ludmille non sapeva dire bene cosa, ma qualcosa la fece alzare a sedere sul letto di scatto come se fosse stata reduce da un incubo orribile.
Credette di aver sentito un rumore, come di qualcuno che inciampa nei propri passi. All’inizio pensò che fosse soltanto la suggestione, ma dopo un po’ udì nel silenzio della casa altri passi sconnessi lungo il corridoio in cui si trovava la sua stanza. Non poteva averlo confuso con lo scrosciare della pioggia o con un tuono, doveva essere qualcuno che si era svegliato e aveva deciso di farsi una passeggiata notturna.
Ludmille avrebbe voluto rimettersi sotto le coperte per cercare di riposare, ma tutto ciò che riuscì a fare fu scostarsi le lenzuola di dosso e cominciare a girovagare per la camera, nervosa. Arrivò al punto che dovette aprire la porta per guardare chi si fosse svegliato, tanto era curiosa la sensazione che la pervadeva. Inquietudine, ecco di cosa si trattava.
Sbirciò nel corridoio con sguardo circospetto, cercando di vedere oltre il buio. Non c’era nessuno. L’unico rumore era quello della tempesta che ancora infuriava.
Fece appena qualche passo, svoltò l’angolo. Il rumore si fece più forte e Ludmille notò che da una scala in fondo gocciolava dell’acqua.
Quale persona sana di mente andrebbe a prendersi una boccata daria sul terrazzo durante una bufera?, si domandò, incapacitata, prima che la sua preoccupazione cominciasse a crescere di secondo in secondo. La risposta alla sua domanda era chiaramenete “nessuno”, eppure la donna fissò la porta spalancata al di là delle scale con un profondo senso di paura.
Ludmille aveva sempre odiato la pioggia, figurarsi i temporali. Ciò nonostante, a passi veloci salì i gradini e si fiondò sul terrazzo.

Pioveva a dirotto. Si sentì sferzare la pelle pallida da quel violento e freddo acquazzone estivo, ma l’istinto le suggerì di continuare ad avanzare, ignorando il fatto che si stesse bagnando completamente, dalla testa ai piedi.
Sono impazzita, si disse, mentre i suoi occhi si assottigliavano fino a diventare due lame per vedere meglio al buio.
Il suo cuore perse un battito. C’era qualcuno, su quel terrazzo.

« Cosa stai facendo? » gridò, cercando di sovrastare il rumore del temporale. Si avvicinò ancora, notando che la persona in questione si stava sporgendo troppo dalla ringhiera. « Ehi! »
Quello si voltò di scatto in preda al panico, colto in flagrante, e Ludmille pensò di aver visto male. Benjamin?
« Torna indietro! » urlò ancora, spostandosi i capelli corti e fradici perché distinguere qualcosa che fosse a più di qualche spanna da lei era impossibile. « Coraggio! »
« No! » gridò Ben in risposta, così forte che sembrava essersi graffiato le corde vocali, aggrappandosi con tutte le forze alla ringhiera. « Vattene! »
Ludmille non fu capace di riflettere ancora a lungo, prima di agire: scattò in avanti rischiando di scivolare e sbattere la testa, ma si fiondò su di Benjamin prima che quello potesse davvero buttarsi. Caddero entrambi a terra, lei aggrappatagli addosso per non farlo sfuggire.
« No… » fece Ben, tentando di spostarla in tutti i modi, « va’ via! »
Ludmille scosse la testa, bloccando qualsiasi tentativo del ragazzo di dimenarsi. « Torniamo dentro. »
« No, no! » pianse lui, tuttavia smettendo di lottare tra le sue braccia dopo pochi istanti. La donna aveva la vista annebbiata, ma riuscì a capire che quelle gocce sul viso di Ben non erano altro che lacrime. Lacrime amare, fredde, violente, lacrime che urlavano, lacrime di smarrimento e di frustrazione.
Lacrime di un suicida ancora in vita ma con il cuore già morto.

 










 
   
 
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