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Autore: Melanto    08/03/2014    7 recensioni
Le scelte che compiamo e le loro conseguenze tracciano la storia, disegnano la realtà così come la conosciamo. Costruiscono il mondo che ci circonda.
Ma cosa sarebbe successo se una scelta fosse stata diversa? Come sarebbero cambiate le conseguenze? Che mondo avrebbero costruito?
Mamoru e Yuzo non avrebbero mai pensato che potessero segnarne addirittura la fine.
Genere: Introspettivo, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Altri, Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Nota Iniziale: aggiornamento anticipato perché domani non ci sarò per tutta la mattina e rientrerò solo a pomeriggio inoltrato :3, quindi mi porto avanti! ;)

The Bug
-IV: nello sparire del mondo -
(parte II)

 

Con l’eco della voce di Izawa che sembrava continuare a seguirlo nel mormorare della pioggia battente, Yuzo corse fino a scuola, guardandosi comunque alle spalle, di tanto in tanto. Non sapeva per cosa, di preciso, ma aveva il cuore che gli batteva a mille e non era una sensazione piacevole.
Mamoru gli era sembrato una furia. Il modo in cui si era precipitato verso di lui incurante delle macchine, il modo in cui l’aveva afferrato e il modo in cui aveva iniziato a parlare, a dire quelle assurdità, e poi il modo in cui gli aveva urlato dietro gli avevano dato proprio un’immagine folle del centrocampista che lo aveva spaventato a morte.
Per questo aveva corso senza fermarsi fino a che non aveva varcato il cancello.
Una volta al sicuro e abbastanza lontano – dopo essersi accertato di non venir seguito – Yuzo cercò sostegno nell’inferriata che costeggiava il perimetro scolastico, riprendendo fiato. Per quanto piovesse a dirotto e lui fosse fradicio si prese tutto il tempo necessario per iniziare di nuovo a respirare con calma. Con una mano si coprì gli occhi ma alzò il viso; anche il cielo sembrava essere impazzito e il cambiamento era stato così subitaneo da lasciare storditi.
Più lentamente si avviò al campo, continuando a scuotere il capo mentre ci ripensava e più riviveva quello che era accaduto, più si convinceva che Izawa e soci gli avessero voluto tirare solo un pessimo scherzo.
Bastardi idioti.
«Ehi! Eccoti! Hai visto che tempaccio improvviso?! Qua si stanno già lamentando tutti perché non vogliono allenarsi!»
Theo fu il primo ad accoglierlo una volta che fu sul campo; anche lui era fradicio, ma restava stoicamente allo scoperto, incurante delle intemperie. Gli altri temporeggiavano sotto alla pensilina.
Yuzo sospirò, lo raggiunse più adagio e fece scivolare a terra il borsone.
Theo inarcò un sopracciglio, guardandolo con sospetto.
«Ma che hai fatto? Sembra che tu abbia corso fin qui. Il che sarebbe piuttosto inutile: con questa pioggia ti saresti bagnato comunque.»
«Togli il ‘sembra’
«Eh?! Cos’è? Eri preda del Sacro Fuoco dello Sportivo Zelante? O solo dello Sciocco cui non bastava farsi il bagno fuori programma?» scherzò il capitano dandogli una leggera gomitata.
«Giuro che non indovinerai mai che mi è capitato. Ha dell’assurdo!»
Theo assunse una postura più interessata. «Racconta!»
«Ho incontrato Izawa.»
«Tsk! Cazzo voleva quel presuntuoso?! Ti ha mica infastidito?!» Theo aveva subito aizzato le spine di risentimento che aveva nei riguardi del centrocampista.
«Secondo te? Quel tizio è completamente fuori di testa! Non so se mi stesse prendendo in giro con i suoi amici o che, fatto sta che mi è piombato davanti – e per poco non lo mettevano sotto – urlando come un pazzo e chiedendomi se conoscessi Hajime Taki! Ma ti sembra normale?! A parte che ci guardavano tutti, ma ti giuro che sembrava proprio fuggito da un manicomio!»
Theo sbottò a ridere così forte che anche gli altri della squadra piano piano si fecero vicino, interessati al racconto a tal punto da decidere di affrontare la pioggia che aveva perso parte della propria intensità.
«Oddio! E tu che hai fatto?!»
«A parte dirgli di non prendermi per il culo e di farsi vedere da uno bravo? Me ne sono andato di corsa! E lui che continuava a urlarmi dietro!»
Stavolta la risata fu generale e qualcuno non mancò di commentare.
«Visto che fine fanno quelli troppo presuntuosi?»
«E’ il karma, ragazzi!»
E giù altre risate. Theo diede una pacca sulla spalla di Yuzo.
«Lascialo perdere, ti stava sicuramente prendendo in giro. E poi… chi diavolo è questo Taki?!»
Yuzo scambiò una rapida occhiata col capitano, poi sbottarono a ridere entrambi mentre camminavano verso gli spogliatoi.
«Forza, cambiati, mancavi solo tu! Voialtri iniziate il riscaldamento!» ordinò Theo, ma Yuzo rallentò fino a fermarsi. Con perplessità si guardò intorno, facendo un rapido calcolo.
«Ma no… siamo in dieci.»
«Appunto.»
«Che fai mi prendi in giro anche tu? Manca ancora una persona.»
Le sopracciglia di Theo disegnarono due archi perfetti.
«Ma che dici?»
«Non vorrei ricordarti che a calcio si gioca in undici.»
Il coro di risate, stavolta, non si alzò con lui ma contro di lui, tanto che Yuzo finì per guardarsi attorno leggermente spaesato.
«In undici?»
«Buona questa, Morisaki!»
«Cos’è, Izawa ti ha contagiato?»
«Sai che figata avere un uomo in più in campo? Sarebbe facilissimo, così!»
«E perché non due, già che ci siamo?»
Yuzo li guardava senza capire, poi scosse la testa.
«Vi siete messi d’accordo con quelli della Nankatsu? Certo che si gioca in undici!»
Theo lo prese per le spalle, guardandolo con comprensione.
«Yuzo, non avrebbe senso essere in undici. Si gioca in dieci, cifra tonda.»
«Ma che…» D’un tratto un sospetto ben peggiore lo fece voltare per guardarsi attorno e vedere chi fosse il giocatore mancante. Tra tutti non vide svettare il lungo collo della Giraffa.
La preoccupazione ridisegnò i suoi tratti.
«E dov’è Kenta?»

Quando Taikan Izawa varcò la soglia di casa, nessuno rispose al suo saluto né venne avvolto dal buon profumo di cibo, quanto piuttosto da un pessimo odore di bruciato.
«Ma che diavolo…»
Lasciò le scarpe un po’ in disordine all’ingresso e mise la ventiquattrore in un angolo, raggiungendo rapidamente la cucina, dove il brodo continuava a fuoriuscire dalla pentola e si riversava sulla fiamma pura del fornello.
«Ossantinumi!»
Senza perdere tempo spense il fuoco e tolse via la pentola, mettendola di lato. La cena, o quello che era stata, era completamente da buttare. Senza contare il porcile che erano divenuti il piano di cottura e il pavimento.
«Che disastro…» borbottò, allentando il nodo alla cravatta e appoggiando una mano al mobile. La tavola non era stata nemmeno ancora apparecchiata.
In maniera svelta si tolse la giacca, abbandonandola sulla spalliera di una sedia e tornò nel corridoio, verso l’ingresso.
«Mae? Non ti sarai mica addormentata sul divano, un’altra volta?» ma nel salotto, quando lo raggiunse, non trovò nessuno.
Poi sentì del frastuono provenire dal piano di sopra.
Taikan guardò le scale, inarcando un sopracciglio, prima di salirle. La voce ovattata di sua moglie si faceva sempre più nitida. La trovò in piedi fuori alla porta della stanza del loro unico figlio.
«Mamoru! Mamoru, apri, per favore! Non vuoi parlare nemmeno con me, tesoro?»
«Ehi. Che succede qui?»
Nel sentire la sua voce, Mae si volse palesando un chiaro senso di sollievo.
«Finalmente sei tornato!»
«La cena è da buttare, honey. Praticamente è di più quella a terra che quella rimasta nella pentola.» L’uomo sorrise, togliendo l’elastico ai capelli fermi in una bassa coda di cavallo.
«La cena è l’ultimo dei miei problemi, guarda.» Mae si portò una mano alla fronte, massaggiandola, e subito la stretta di Taikan fu attorno alle sue braccia, assieme a un tono di voce più morbido e rassicurante.
«Ehi… si può sapere che sta succedendo?»
«Non lo so, è questo il guaio! Mamoru è tornato prima di cena che sembrava una furia e si è chiuso in stanza. Non vuole uscire! Sono ore che tento di farmi aprire, ma è tutto inutile! Ti prego, provaci tu…»
Mae si fece da parte e gli lasciò campo libero. I colpi sul legno furono più decisi e meno urgenti dei suoi.
«Che ne dici di aprire questa porta, figliolo?» chiese, con calma e tono fermo, ma non di rimprovero. «Se c’è un problema possiamo parlarne attorno a un tavolo, non credi?»
«Andate via! Non voglio parlare con nessuno!»
Taikan incassò il mento con una certa sorpresa di fronte a quell’abbaiare improvviso e rabbioso. Tant’è che non replicò subito, poi bussò con maggiore decisione.
«Ehi! Vediamo di abbassare i toni, ok, giovanotto?!»
«Lasciatemi in pace, per favore!»
Taikan sospirò e si fece leggermente indietro, abbassando la voce.
«Penso sia il caso di accontentarlo, almeno per stasera. Magari domani, a mente lucida e dopo una bella dormita, sarà più calmo.» Poi scosse il capo. «Ma che diavolo gli è preso?! Fase della crescita, ti prego, passa in fretta.»
Mae scosse il capo, si era appoggiata al muro con tutta al schiena e per quanto lei poco si preoccupasse di questi sbalzi d’umore adolescenziali che il suo mestiere di psicologa scolastica le aveva fatto imparare a menadito, questa volta sembrava davvero turbata. Non era qualcosa di normale.
«Fa così da quando è tornato. Praticamente non mi ha nemmeno degnato di uno sguardo, è corso in stanza e si è barricato dentro.»
«Deve essere successo qualcosa con i suoi amici… magari hanno litigato…»
«E’ qui che arriva il bello.»
Taikan le si fece vicino, appoggiandosi contro il muro accanto a lei. Si fece più attento.
«Prima mi ha chiamato Teppei, era preoccupatissimo, mi ha detto che Mamoru ha iniziato a dire cose senza senso e a parlare di un certo Hajime Taki come se fosse una persona con cui entrambi erano cresciuti, ma quando Teppei ha detto di non avere idea di chi fosse… Mamoru ha iniziato a dare di matto. Poi è scappato via…»
«Sul serio?…» Taikan si passò le mani sul volto, quasi avesse voluto togliere tutta la stanchezza accumulata durante la lunga giornata di lavoro.
«Diceva di avere il numero di telefono di questo ragazzo, delle foto in cui erano tutti e tre insieme… ma il numero era inesistente e nelle foto non c’era traccia di nessuno tranne loro. Mamoru ha detto a Teppei di non chiamarlo mai più…»
«Che ne pensi, honey? Il castigamatti di famiglia sei tu.»
Mae scosse il capo per l’ennesima volta. «Non so che pensare, ma Mamoru era strano da questa mattina. Si è alzato tardissimo, aveva un viso così stanco… come di chi non ha chiuso occhio, ma insomma… ha sedici anni… sono cose normali alla sua età… però questo… non lo so.»
Il silenzio scese tra loro per alcuni istanti nei quali sembravano cercare le risposte che non avevano avuto.
«Aspettiamo domani» decise Taikan per entrambi. La sua mano si avvolse con sicurezza attorno alla spalla della moglie. «E vediamo che succede, ok?»
«Ok…»
Entrambi annuirono, poi tornarono a fissare il legno scuro della porta chiusa.
Fu Taikan a dare voce al quesito che ronzava nella mente di tutti e due e che forse, più di ogni altra cosa, li preoccupava.
«Chi diavolo sarà mai questo Hajime?»

Fuori pioveva. Aveva continuato a farlo per tutto il pomeriggio, seppur con minore intensità.
Al ritorno, Maeda gli aveva prestato l’ombrello e Yuzo si era risparmiato il terzo bagno, ma non era a questo che pensava nel momento in cui entrò in casa e chiuse la porta.
L’ombrello rimase chiuso, a gocciolare sul pavimento dell’ingresso mentre il borsone toccava terra con un tonfo sordo. Lui era fermo e in piedi, contro l’uscio, sembrava una statua.
Quella era stata la peggiore giornata della sua vita, una giornata da dimenticare e dovevano essersi tutti coalizzati per fargli uno scherzo epocale.
Prima Izawa, poi Theo e i suoi compagni di squadra e infine Kenta… che aveva staccato il proprio numero, ora inesistente.
Almeno, questo era che lui si era auto-convinto che fosse: uno scherzo. La burla più complessa della storia, qualcosa che avrebbe segnato la Grande Tregua tra le due scuole e non sapeva spiegarsi perché fosse stato sorteggiato proprio lui come vittima.
Scherzo era l’unica spiegazione che gli era venuta in mente per giustificare l’assurdità dei comportamenti delle persone che aveva avuto intorno: la sua squadra che giocava in dieci, Theo che diceva di non conoscere nessun Kenta, Kenta stesso che risultava irraggiungibile.

«Per gli altri è come se non fosse mai esistito! Il suo numero non funziona più ed è scomparso da tutte le foto in cui era presente!»

Quella frase di Izawa, che aveva ritenuto incomprensibile, aveva iniziato ad avere a poco a poco un suo terribile senso. E lui non aveva cercato tra le foto che aveva sul cellulare per paura di cosa avrebbe, anzi, non avrebbe visto.
Abbandonò le scarpe adagio e accese la luce, rendendosi conto solo in quel momento che era spenta.
«Sono a casa» annunciò e con movimenti lentissimi e stanchi si liberò del giaccone prima di dirigersi in salotto: era la stanza più vicina.
Il divano era giusto lì che sembrava quasi offrirgli la propria presenza a braccia aperte.
Yuzo vi si lasciò cadere a peso morto, sentendo la morbidezza dell’imbottitura accoglierlo in silenzio.
«Finirà, questa giornata… finirà…» Se lo ripeteva come un mantra affinché il solo pensiero di lasciarsi sprofondare nel sonno lo rilassasse il più possibile, ma non si rivelò un’idea utile perché l’ansia era sempre lì, ferma tra le costole e lo stomaco.
Con un guizzo improvviso, Yuzo decise che avrebbe provato a chiamare direttamente a casa di Kenta e quasi si sentì uno sciocco per non averci pensato prima. Avrebbe mandato il loro scherzo a gambe all’aria, ci potevano giurare!
Eppure, se ripensava alle facce di Theo e dei suoi compagni… tutto gli sembrava, tranne che lo stessero prendendo in giro.

«Forse ti confondi con qualche altro ragazzo, Yuzo. Io non conosco nessun Kenta…»

Si alzò di slancio, quasi avesse ritrovato un briciolo delle forze perdute, ma mentre prendeva il cordless dalla pedana, si rese conto che la casa era troppo stranamente silenziosa. E, ora che ci pensava, nessuno gli aveva risposto quando era rientrato.
«Mamma?» chiamò. «Mamma, sono a casa.»
Il silenzio perdurò e quando Yuzo si affacciò nella cucina e la trovò in perfetto ordine si convinse che non c’era nessuno.
«Deve essere uscita…» Ma gli parve strano che non l’avesse avvertito per dirgli che non sarebbe rientrata per cena. Forse aveva trovato traffico sulla via del ritorno, considerando quanto stesse piovendo.
Stava per fare la famosa chiamata quando sentì la chiave girare nella toppa.
Yuzo posò il cordless sul tavolo e andò all’ingresso.
«Eccoti! Aspetta che ti do una mano a-»
Dalla porta, però, non comparve sua madre, quanto suo padre. Yuzo si fermò a metà strada e non nascose la sorpresa nel vederlo a casa così presto.
«Maccheddiavolo! L’acqua sta venendo giù a catinelle!»
Baiko Morisaki scrollò le braccia e una miriade di gocce cadde dal tessuto impermeabile del giaccone d’ordinanza che stava indossando. Ai suoi piedi, si raccolsero in piccole pozze.
«Acc-! Dopo ci asciugo.»
Con gesti decisi tolse giaccone e cappello. La divisa della Guardia Forestale(1) comparve in perfetto ordine, seppur l’orlo dei pantaloni fosse bagnato e schizzato di fango; suo padre doveva essere nei boschi quando era iniziata la pioggia.
«Papà?» Yuzo lo osservò sfilare via la scacciacani da lavoro assieme alla fondina.
«Ehi, campione!» Baiko gli sorrise, avanzando di qualche passo. «Che faccia hai, sarò mica in ritardo?»
Il portiere strabuzzò gli occhi. «Ri-ritardo?! Casomai sei in anticipo di ore! Che fai a casa così presto?»
«Presto? Ma se è il mio solito orario!» Baiko gli mollò una pacca sulla spalla e lo superò, dirigendosi in cucina.
«Seh. In un’altra vita magari, non in questa!»
«Ah, ah. Molto spiritoso.»
Yuzo lo seguì e non poteva nascondere una certa, sottile felicità nel saperlo già di ritorno, quando di solito aveva orari che differivano in tutto e per tutto dai suoi, tanto che riuscire a trovarsi tutti insieme a tavola era un qualcosa di cui poteva godere forse solo durante le feste. D’estate, per esempio, era improponibile anche solo pensarlo.
Yuzo lo osservò con attenzione e quando lo vide armeggiare con gli stipetti della cucina, per poco non gli venne un colpo.
«Ma che hai intenzione di fare?!» esclamò, non riuscendosi a trattenere.
«Quello che faccio sempre ogni giovedì sera: cucino per te.»
«Woh! Woh! Woh! Fermo lì! Cos’è che vorresti fare?! Tu cucinare? Ma anche no, grazie! Devo ricordarti che l’ultima volta hai rischiato di dare fuoco alla casa? La mamma ha passato due ore a pulire, dicendoti che questa stanza ti era preclusa per qualsiasi attività che non fosse sederti a mangiare quello che gli altri avrebbero cucinato o per prenderti una birra!» Yuzo lo raggiunse in rapidi passi, per impedirgli di fare danni come era suo solito, quando anche solo pensava di volersi  mettere ai fornelli. Con espressione pensierosa guardò il piano cottura. Non era stato preparato nulla, significava che Haruko era uscita di casa proprio presto. «A proposito, la mamma non è ancora rientrata, aveva mica degli abiti da consegnare? Forse è il caso che provi a chiamarla al cellulare.»
«Yuzo… ma che stai dicendo?»
Il portiere si volse a incrociare lo sguardo perplesso e leggermente dubbioso di suo padre. Aveva un sopracciglio inarcato e l’aria di chi non capiva, più o meno come lui.
«In che senso?»
«Non è che ti sei ammalato? Sembri pallido…»
Yuzo si liberò dal tentativo di Baiko di toccargli la fronte e si allontanò di un passo, alzando le mani e sorridendo. «Sto benissimo, papà! Ti prego, non ti ci mettere anche tu. Oggi è stata una giornata d’inferno. Provo a sentire la mamma per vedere dov’è.»
«Ancora? Cos’è, una tattica?»
«Tattica? Che tattica?»
Adesso, Baiko non era più neppure perplesso. Sui suoi tratti era calata un’espressione piuttosto dura che ricordava di avergli visto solo quando arrivavano le telefonate delle emergenze e lui doveva lasciare tutto ciò che stava facendo per correre alla centrale.
«Avevamo fatto un discorso, tempo fa, credevo che avessimo preso una decisione.» Con un gesto secco gli vide richiudere uno stipo e portarsi la mano al fianco. «Non sono intenzionato a sposarmi, Yuzo, e mi sembrava che andasse bene anche a te. Ce la siamo sempre cavata alla grande, noi due.»
«Beh, lo credo bene che tu non sia intenzionato a sposarti, visto che lo sei già da almeno diciannove anni-»
«Adesso smettila, ok?!»
Si sarebbe quasi messo a ridere, se Baiko non gli avesse rivolto quel tono di aspro rimprovero che lo lasciò mortificato e interdetto. Seppure avesse detto qualcosa di male, lui non riusciva a capire cosa fosse.
«Ma, pap-…» Poi, un guizzo, quasi una folgorazione che gli gelò il sangue e gli fece spalancare gli occhi.

«Tutti continuano a dire che non esiste, che me lo sono inventato, ma io non sono pazzo, dannazione!»

«Dov’è?» chiese senza mezzi termini.
«Dov’è chi?»
«La mamma. Dov’è la mamma?»
«Yuzo, porca di quella miser-»
Ma lui non lo stava già più ascoltando, scappato via dopo aver afferrato il telefono che aveva abbandonato sul tavolo.
«No… no, no, no! Non lei! Non lei!» Il cuore gli batteva a mille, di nuovo, proprio come quel pomeriggio quando era stato travolto da Izawa. A mente compose il numero, mentre raggiungeva il salotto, ma le dita gli tremavano e dovette cancellarlo almeno due volte prima di riuscire a scriverlo in maniera corretta. La risposta, comunque, non cambiò da quella che si era aspettato di sentire.
«Il numero da lei chiamato è inesistente.» L’aveva saputo fin da prima di prendere il cordless, l’aveva capito subito; la stessa frase di quando aveva composto il numero di Kenta e, di sicuro, la stessa frase che aveva ricevuto anche Izawa quando aveva provato a chiamare Hajime.
«…no…»
Adesso, a tremare era anche la voce.
Baiko arrivò in fretta dall’altra stanza.
«Yuzo! Yuzo, si può sapere che diavolo ti prende?!»
Trovò suo figlio che brandiva una delle foto che avevano poste sopra la cappa del camino del salotto. La guardava come se non l’avesse mai vista e per Yuzo era davvero così, perché lei non c’era, sua madre non era presente quando invece ricordava che gli cingeva il collo con entrambe le braccia nel tenerlo più stretto a sé. Non c’era più. Come non fosse mai esistita.
«Dov’è?!» Sentì la disperazione delle lacrime stringergli la gola. «Perché è scomparsa dalle fotografie?! Perché?!»
«Non c’è mai stata nessuna madre, Yuzo! Siamo sempre stati solo io e te!»
«Stai mentendo!» Il giovane glielo gridò contro come se l’avesse tradito nella maniera più terribile e insospettabile, tanto che Baiko non seppe che replicare in un primo momento. Fece per raggiungerlo, ma la cornice gli venne lanciata addosso e lui fu costretto a proteggersi sollevando un braccio. Il vetro andò in frantumi una volta che si schiantò al suolo.
«Yu-»
«Non avvicinarti!»
E Yuzo non sapeva neppure dove andare, cosa fare, se non indietreggiare di uno, due passi. Non sapeva neppure a chi credere, visto che tutti gli mentivano: suo padre, Theo, i suoi compagni di squadra. Tutti.
Tranne uno.
«Non avvicinatevi a me! Come con Kenta, adesso anche lei… Non era uno scherzo, Mamoru aveva ragione… lui… mi stava mettendo in guardia, e io non gli ho creduto… io non gli ho… non ho avuto fiducia…»
D’un tratto l’aria sembrò mancargli dai polmoni e non importava quanti respiri facesse, questi non parevano sufficienti. Sentì la testa leggera e le gambe divenire molli sotto al suo peso, tanto che finì per trovarsi a terra, con suo padre che gli fu subito accanto, che Yuzo lo volesse o meno. Le braccia lo circondarono per sostenerlo, mentre lui rantolava e sentiva come se tutto quello che aveva dentro tra organi, ossa e sangue si comprimesse e raggruppasse all’altezza dello stomaco.
«Ehi! Ehi, figliolo! Stai calmo, stai calmo!» Baiko gli parlava con calma, cercava di fargli vedere cosa avrebbe dovuto fare. «Respira, è solo un attacco di panico, adesso passa, ma tu devi respirare. Respira a fondo, come me.» Sentì il corpo del figlio farsi pesante tra le sue braccia  e gli occhi chiudersi lentamente mentre perdeva conoscenza.

Aspettare non era mai stata una delle sue virtù più note, nemmeno da giovane, eppure non seppe come ma attese senza protestare fuori dalla stanza di Yuzo. Non si mise neppure a camminare per il corridoio, ma rimase lì, fermo. Immobile come un palo.
Si animò solo quando la porta si aprì e un uomo decisamente più basso di lui, ma pressappoco della stessa età, uscì con una valigetta.
«Toshio, allora?»
Toshio Miyamoto era medico, oltre che il padre di Theodore, e conosceva lui e Yuzo da moltissimi anni.
L’uomo aveva occhiali rotondi che provvide a sistemare meglio sul naso.
«Adesso dorme, ma ho dovuto somministrargli una dose massiccia di valium; si agitava, delirava.»
«Oddio…» Baiko nascose il viso nella mano per qualche momento. «Ma… che cos’ha? È grave?»
«Non saprei dirlo con certezza, non sembra avere nulla a livello fisico, neppure la febbre, ma mi sentirei più tranquillo dopo una visita neurologica. Qualora non dovesse spuntare nulla, allora ti posso passare il numero di un buon psicanalista: è probabile che sia una forma acuta di esaurimento nervoso.»
«Ossignore…»
Baiko non riusciva a farsene capace, mentre Toshio sollevava le spalle con una certa rassegnazione dovuta alle tante cose che aveva visto a causa della sua professione.
«Lo stress è il grande male del ventunesimo secolo.»
«E’… è forse colpa mia? È perché non ho voluto sposarmi? Forse sarebbe stata la soluzione migliore, forse Yuzo aveva davvero bisogno di una figura materna accanto… Io, poi, lavoro tutto il giorno, e-»
«Baiko, crescere un figlio non è facile e non si può mai sapere cosa può accadere durante il percorso. Da quello che ho sempre visto, sei stato un ottimo padre. Sta’ tranquillo, non è colpa tua.»
Eppure, neanche quelle parole rassicuranti riuscirono ad avere effetto su di lui che non poteva togliersi dalla testa lo sguardo di suo figlio quando gli diceva che non c’era nessuna madre, che non c’era mai stata.
«Ti accompagno…»
«No, non preoccuparti, conosco la strada. Piuttosto… tu conosci un certo Kenta? Un amico di Yuzo.»
Baiko ci pensò qualche secondo, ma dovette scuotere il capo. «No. Chi è?»
«Come per la ‘presunta’ madre, Kenta deve essere un’altra invenzione di cui è convinto dell’esistenza. Theodore mi ha detto che oggi Yuzo non faceva che parlarne. Gli era sembrato molto confuso…»
Di male in peggio e Baiko non sapeva neppure più cosa dire, sapeva solo di essere sulla strada per diventare matto anche lui.
«D’accordo… d’accordo e grazie per essere venuto.»
«Si risolverà. Tu cerca di farlo stare tranquillo, stagli vicino.»
«Sì…» Annuire era tutto ciò che fece, in quel momento. Baiko aspettò di sentire il rumore della porta di casa che veniva chiusa, prima di entrare nella camera di suo figlio.
Yuzo dormiva un profondissimo sonno artificiale indotto dai farmaci e anche se avrebbe preferito che potesse fare dei bellissimi sogni, che l’avrebbero aiutato a rilassarsi, si sentì più sicuro che non sognasse affatto, ma dormisse senza pensare a nulla; tanto i pensieri non sarebbero scappati e col nuovo giorno sarebbero stati in prima fila per essere affrontati.
Piano gli carezzò la fronte e poi gli prese la mano, osservandolo dormire.
«Andrà tutto bene, Yuzo, te lo prometto. Andrà tutto bene…»

La sua coscienza iniziò a riemergere dall’oblio in maniera lenta, come una polla sorgiva risaliva oltre la linea di superficie e iniziava a sgorgare.
Yuzo cominciò a percepire l’esistenza del mondo attorno a lui un po’ alla volta: prima i rumori di fondo, poi le sensazioni sulla pelle e infine i diversi cambi di luce oltre le palpebre chiuse.
Inspirò un paio di volte ancor prima di aprire gli occhi e addosso aveva la sensazione di aver dormito, ma di non aver sognato nulla. Nessuna immagine proveniente da ricordi non suoi né altro.
Il sorriso gli si delineò sulle labbra in maniera involontaria e il pensiero che tutto potesse tornare indietro, a quando era normale, era meraviglioso. Eppure, il solo fatto che ricordasse cosa era avvenuto rendeva amara e fasulla la realtà cui stava per tornare.
Poi, un frammento improvviso della sera precedente si fece breccia in lui con prepotenza e gli rammentò che le persone stavano scomparendo.
Gli occhi vennero spalancati di scatto e faticarono a restare aperti per più di qualche secondo. Bruciavano.
Yuzo li aprì e chiuse almeno due-tre volte, poi si sentì abbastanza sveglio e lucido per mettersi a sedere. In stanza era da solo e tutto sembrava essere a posto. Si alzò, guardò le finestre e vide le imposte ancora chiuse; solo qualche filo sottile di luce entrava tra le fenditure, nient’altro. Doveva essere già giorno fatto.
Yuzo uscì nel corridoio del piano superiore, si guardò attorno, ma non scorse nessuno né sentì alcun rumore. Pensò che suo padre doveva essere andato a lavoro e se si era fidato a lasciarlo a casa da solo, voleva dire che forse non era così grave come temeva egli stesso.
Trascinando i piedi scese al piano inferiore e si diresse direttamente in salotto.
La cornice era a terra, con il vetro rivolto al pavimento e frammenti ovunque.
Nel vederla lì, capì una volta di più che, purtroppo, quello che era accaduto non era frutto di alcun incubo, ma la realtà.
Si chinò, prese quello che rimaneva della cornice e titubò qualche istante prima di girarla. Vedere che c’erano solo lui e suo padre, in quello scatto, quando avrebbe dovuto esserci anche sua madre lo aveva fatto impazzire per un momento e mandato in panico totale, che forse non voleva ripetere l’esperienza eppure prese il coraggio che non aveva avuto a cercare le foto in cui c’era Kenta e la volse.
Il panico, per un attimo, sembrò destinato a colpire ancora, a farlo suo e a fargli rivivere l’ansia terribile della sera precedente. Eppure, questa volta, non fece nulla se non portarsi una mano alla bocca; probabilmente lo shock era stato anche maggiore.
In quella fotografia Yuzo era da solo.
Nessun padre, nessuna madre.
Solo lui che sorrideva a un obiettivo solitario e silenzioso.
Silenzioso.
Come quella casa, come l’esterno.
Troppo silenzioso.
«Mio Dio…»
Yuzo lasciò cadere la cornice e si precipitò fuori senza neppure mettersi le scarpe e il silenzio era ovunque. Non il rumore di un’auto, non il clacson di un autobus, non il verso di un uccello o abbaiare di cane. Nessun rumore. Silenzio.
«Non è possibile, questo… questo non è possibile… non è reale, sto ancora sognando.»
Senza pensarci corse di nuovo dentro casa, salì le scale a due a due e si precipitò in quella che era stata la stanza dei suoi.
Il letto c’era, i mobili anche, ma erano vuoti. Yuzo buttò all’aria i cassetti, spalancò gli armadi ma non c’era nulla al loro interno, erano solo gusci lasciati lì che nessuno aveva mai vissuto.
«Non è possibile! Non ci credo! Papà!» Ma suo padre non rispose.
Per la seconda volta corse fuori dimentico delle scarpe e di tutta quella che era stata la sua routine fino a neppure il giorno prima. Si riversò in strada, si guardò attorno come una trottola. Le villette lì accanto erano silenziose e ordinate; non vissute, vuote.
«C’è nessuno?! Qualcuno riesce a sentirmi?! Sono solo, qui?!»
E il silenzio rispose con il suo muto ‘sì’.

 

“Ognuno ascolti la chiamata alla difesa.
Ognuno deve cadere per la difesa.”

Les FrictionFirewall

 


[1]: altro momento di ‘riciclaggio-idee’. XD Per una storia non scritta, avevo ipotizzato che la famiglia Morisaki vantasse da generazioni membri all’interno del Corpo Forestale, dato anche il cognome che portano XD (Mori = Foresta).


  

   
 
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