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Autore: Facy    28/06/2008    16 recensioni
E se Bill perdesse irreparabilmente la sua bellezza? Se per un drammatico quanto casuale incidente rimanesse sfigurato per sempre? E se una giovane e cabarbia psicologa decidesse di tirarlo fuori dall'isolamento volontario in cui si è rinchiuso?
Genere: Generale, Romantico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Cap. 21: Monsoon girl

 

 

Dicono che il tempo sia guaritore di ogni ferita. Ma è la musica a sanare le mie.

 

(31 luglio 2012, Rajahstan)

 

     

 

Il sedile era comodo e il rombo dell’aereo quasi impercettibile. L’abitacolo del velivolo era affollato.

 

Hostess che percorrevano i corridoi, agili sui loro tacchi e sorridenti nelle loro uniformi,  manager con gli auricolari e il portatile, famigliole chiassose con bambini piccoli, ragazzi e ragazze biondi, dall’aria tipicamente tedesca (calzoncini corti, sandali e calzini di lana... probabilmente avevano nel bagagliaio grossi zaini da campeggiatore), belle donne indiane in sahri accompagnate dai loro mariti sik...

 

Nessuno notò la ragazza bruna seduta in disparte vicino al finestrino: jeans e t-shirt azzurra, i capelli raccolti in una lunga treccia, con un paio di occhiali da studentessa dalla montatura sottile e un libricino rilegato in pelle nera tra le mani.

 

Sibylla rilesse quelle due frasi accompagnate dal luogo e dalla data in cui erano state scritte.

 

Quelle parole erano segnate in corsivo sulla sua agenda, alla pagina del giorno del suo compleanno. Aveva festeggiato i suoi ventitré anni da sola, seduta su una panchina in riva al lago Pichola, sull’isolotto lussureggiante dove sorge il Palazzo di Jag Mandir.

 

In India.

 

Aveva trascorso lì sei mesi della sua vita.

 

     

 

(Sei mesi prima)

 

Sibylla sussultò e si tirò a sedere di scatto. L’aveva destata il suono stridulo e imperioso del campanello.

 

Si alzò: aveva gli occhi pesti e le girava la testa. Uscì dalla camera da letto e guardò attraverso lo spioncino: non si fidava più a far entrare sconosciuti in casa sua.

 

Era il postino: la ragazza aprì.

 

-Fräulein Darenbaum?-

 

-S-s-s-ono io...- sbadigliò Sibylla.

 

-Un pacco per lei-

 

Sibylla firmò una ricevuta e ritirò un pesante pacchetto incartato nel celophane, con il marchio delle Poste Tedesche stampigliato sopra. Salutò il postino e andò in cucina: si versò un bicchiere di latte, si sedette al tavolo ed esaminò attentamente il pacco.

 

Non c’era mittente, nè un biglietto, nè un cartoncino di auguri: e comunque mancavano ancora diversi mesi al suo compleanno.

 

Sorseggiò un pò di latte e infine cedette alla curiosità e strappò cartone e celophane.

 

Davanti ai suoi occhi sbalorditi apparve l’argento del cofanetto marocchino di Angelika... quel cofanetto che lei aveva minacciato di gettare nel fuoco pochi giorni prima... sembrava fossero passati anni.

 

Posò delicatamente la mano sopra gli arabeschi finemente lavorati a sbalzo. Le sue dita indugiarono sul fermaglio che chiudeva lo scrigno... e infine lo aprirono.

 

Banconote di grosso taglio, ordinate in decine di grosse mazzette, avvolte dalla fascetta della banca. Una cifra incalcolabile, più di quanto Sibylla avesse mai visto o anche solo immaginato.

 

Il prezzo del tradimento. Il soldo di Giuda.

 

Sibylla ritrasse le dita e chiuse velocemente lo scrigno.

 

Lottò contro l’istinto di correre al telefono e di chiamare la sorella. Non c’era niente da chiarire: Angelika le aveva spedito il denaro che aveva ricevuto per aver venduto Bill alla stampa.

 

Il suo primo impulso fu quello di alzarsi, accendere il fornello e fare di quel denaro sporco un allegro falò. Oppure di rispedirlo a casa della sorella, o magari di mandarlo a Bill, come risarcimento della sua dolorosa esperienza.

 

Ma questo lo avrebbe fatto solo la vecchia Sibylla, la ragazzina impulsiva e chiacchierona, insicura di se e sempre ansiosa di compiacere gli altri: la nuova, saggia Sibylla rimase a guardare la scatola d’argento, riflettendo.

 

Anche lei aveva sofferto. Anzi, forse aveva sofferto più di tutti. Almeno a Bill restavano la musica, Tom, i suoi amici: ed era stata lei l’artefice di tutto questo.

 

Aveva lavorato tanto per la felicità degli altri, e si era ritrovata con un pugno di mosche in mano. Era arrivato il momento di un pò di sano egoismo: anche lei aveva diritto a un premio.

 

Ma non voleva spendere quei soldi per gioielli o vestiti. Avrebbe... avrebbe esaudito un suo desiderio. Si, avrebbe fatto così: quel denaro era stato il movente per causare tanta sofferenza e lei lo avrebbe utilizzato per un brandello di felicità che sentiva di meritare.

 

Perciò depose i sensi di colpa e, ridendo come una bambina, corse in camera: prese una sedia, salì sull’armadio e tirò giù un vecchissimo mappamondo impolverato.

 

Un viaggio... gli scrittori ottocenteschi insegnavano che non c’era migliore cura per le pene d’amore, e poi erano anni che non usciva dalla Germania. Per una volta in tutta la sua vita volle togliersi lo sfizio di far ruotare il mappamondo e puntare il dito a caso su uno stato qualsiasi, a occhi chiusi.

 

La stranezza dei casi della vita volle farle scegliere la terra dei monsoni.

 

     

 

Attenzione, prego: avviso ai signori passeggeri: ultima chiamata per il volo Lufthansa

Hannover-New Dehli delle 9.30. Ultima chiamata per il volo Lufthansa Hannover-New Dehli delle 9.30. Presentarsi immediatamente al Terminal 8. Presentarsi immediatamente al Terminal 8.

 

     

 

La voce metallica, distorta dagli altoparlanti, riecheggiò in tutto l’aeroporto.

 

Sibylla sospirò e si staccò malvolentieri dalla vetrina del Duty Free. Si calcò il basco di velluto a coste nero sullo chignon basso con il quale aveva morbidamente raccolto i capelli, si aggiustò la lunga sciarpa rossa di lana traforata e  afferrò la maniglia del suo enorme trolley.

 

Giunta al Terminal frugò nelle tasche del soprabito nero e consegnò il biglietto e il passaporto alla hostess: le fu permesso di attraversare la barriera.

 

Altri passeggeri la seguirono, l’oltrepassavano, avviandosi lungo il corridoio rivestito di mouquette grigioverde che portava alla pista di atterraggio: Sibylla si era voltata, e guardava oltre l’entrata del Terminal, immobile.

 

Si era ripromessa di non farlo: non avrebbe nutrito vane aspettative. Eppure in quel momento guardò la gente oltre la barriera, scandagliò la folla, scrutò ogni viso, nella speranza di incrociare con lo sguardo una figura snella, una maschera, dei capelli corvini, degli occhi nocciola...

 

Doveva venire... doveva sentire quanto lei lo desiderasse... in qualche modo doveva riuscire a capirlo... era stato un errore lasciarlo... lei lo amava ancora, oh se lo amava!... doveva venire...

 

-AHI!-

 

Un uomo abbastanza giovane, ventiquattr’ore e completo gessato grigio scuro a righine bianche, l’aveva urtata, facendola barcollare e strillare di dolore. Si voltò, mostrando un viso dalla mascella molto pronunciata, si scusò a mezza voce senza neanche guardarla e se ne andò.

 

Sibylla rimase a massaggiarsi la spalla, fissandolo con odio. Nell’urto si era appoggiata al trolley per non cadere e quello era rovinato a terra. Si chinò, l’afferrò per la maniglia e lo rimise dritto.

 

Lanciò un ultimo sguardo alla folla, senza vera convinzione. Restò a bocca aperta dallo stupore.

 

Una donna robusta sui trentacinque, i capelli tinti di un biondo volgare con la ricrescita scura, la guardava da oltre la barriera.

 

Era una donna non bella, di aspetto dozzinale. Indossava abiti di grandi magazzini: una gonna arancione con le cuciture tirate sui fianchi massicci e una camicia color panna di un tessuto lucido e sintetico. Stringeva una borsa di finta pelle marrone. I lineamenti regolari erano distorti da una radicale depilazione alle sopracciglia e da un trucco pesante. Solo gli occhi erano bellissimi, grandi, scuri, orlati di ciglia lunghe e folte.

 

Sostennero senza timore lo sguardo di quelli di Sibylla, identici.

 

Sibylla restò a guardarla, il nodo che le stringeva la gola in contrasto con la strana serenità che la pervadeva. La barriera di plexiglass che divideva le due sorelle divenne il simbolo del muro che si era innalzato tra di loro nell’ultima settimana. Un muro che entrambe non avevano più la forza nè la voglia di abbattere.

 

-Fräulein... prego...-

 

Una giovane donna in uniforme blu, dal viso punteggiato di lentiggini, i capelli rosso fiamma annodati strettamente sotto il berretto della divisa della compagnia aerea, l’aveva toccata leggermente sulla spalla, invitandola a proseguire lungo il corridoio. Il Terminal era stato appena chiuso... il volo era in partenza.

 

-Scusi...- mormorò Sibylla, confusa. -Si... vengo subito-

 

Lanciò un ultima occhiata alla sorella, lontana oltre il plexiglass. Con istinto di preveggenza che onorava il suo nome, Sibylla capì che quella era l’ultima volta che vedeva Angelika.

 

Le salirono le lacrime agli occhi. Il suo volto fu attraversato da un sorriso che era anche una smorfia di dolore: l’ultimo saluto per una sorella amata. Angelika non dette alcun cenno di risposta: si limitò a guardarla con quegli occhi bellissimi, l’ultima parte di lei che non era stata distrutta dalla violenza e dalla meschineria di una vita troppo crudele per una donna troppo fragile.

 

- Fräulein-

 

La giovane hostess dai capelli rossi la chiamò nuovamente, in tono gentile ma fermo.

 

-Arrivo- rispose Sibylla, con voce altrettanto cortese.

 

Un ultimo sguardo, poi si voltò e camminò lungo il corridoio dalle pareti bianche. Salì sul pulmino che attraversava la pista di atterraggio, si imbarcò con gli altri passeggeri sull’aereo. Due mesi dopo le sarebbe arrivata la notizia del suicidio della sorella. Angelika era riuscita a sfuggire a se stessa e all’uomo miserabile che amava, nell’unico modo che le era ancora possibile.

 

     

 

La città di Udaipur è detta “la perla del Rajahstan”. I suoi confini sono segnati da tre laghi che, come una cintura di lapislazzuli alla vita di una bellissima indiana, la circondano: isolotti lussureggianti di vegetazione emergono dalle profondità cristalline delle acque calme del lago Pichola, il più bello dei tre.

 

Sibylla alloggiava in un albergo, piccolo ma lussuoso, che sorgeva su uno di questi, quando, tre mesi dopo, una lettera a lei indirizzata arrivò in India.

 

-Miss! Miss Darenbaum!-

 

La ragazza, che era appena entrata nella hall dell’albergo, si voltò. Chiuse l’ombrello gocciolante e lo ripose nel portaombrelli: fuori infuriava il monsone. Il portiere l’aveva appena chiamata e le faceva segno di avvicinarsi a lui. Sibylla andò alla reception, e fu accolta da un radioso sorriso dell’uomo.

 

-Buongiorno...- lo salutò Sibylla, guardandolo interrogativamente.

 

-Ci sono una lettera e un pacchetto per lei dalla Germania-

 

-Oh...- mormorò Sibylla.

 

-Pensavo volesse leggerla subito, così l’ho tenuta da parte senza darla al boy per la consegna della posta in camera-

 

L’uomo era evidentemente molto orgoglioso di se, e le porse la lettera con un altro dei suoi candidi sorrisi che gli illuminavano il viso bruno dai lineamenti ben disegnati. Sibylla non ricambiò il sorriso, e prese il pacchetto e la lettera senza guardarlo: l’ultima missiva dalla Germania le aveva portato la notizia della morte di Angelika.

 

Con un leggero tremito nelle mani voltò la lettera per leggere il mittente. Impallidì così vistosamente che il portiere le chiese, preoccupato:

 

-Non cattive notizie, vero?-

 

-Oh... n-no- balbettò Sibylla -No, no!- esclamò poi, mentre un sorriso enorme le si disegnava in volto. -Oh, mio dio...- invocò, con gli occhi rivolti al cielo.

 

Girò sui tacchi, e corse in giardino, stringendosi il pacchetto e la lettera ancora sigillata al petto, per proteggerla dalla pioggia. Si insinuò tra le piante rigogliose, dalle foglie lucide di acqua, si abbassò per passare sotto le fronde verdissime dei salici piangenti, che sfioravano l’erba tagliata all’inglese, si ferì per oltrepassare cespugli lussureggianti di fiori variopinti e spine acute, e finalmente trovò quello che cercava.

 

Una magnolia dai fiori candidi, il tronco avviluppato dai rampicanti gettava un ombra umida e profumata su una panchina in riva al lago. La superficie dell’acqua, solitamente calma, era battuta dalla pioggia, che gocciolava anche dalle fronde dell’albero: sotto la magnolia invece non ne arrivava una goccia. Sibylla si sedette.

 

Il respiro ansimante, i vestiti e i capelli fradici, la giovane posò il pacchetto accanto a lei e abbassò nuovamente lo sguardo sul mittente della lettera. Lo rilesse, ridendo di gioia.

 

Herr Wilhelm Kaulitz

5 Fluss-Straße

Ricklingen (Hannover, DE)

 

Bill le aveva scritto... Bill l’amava ancora!

 

     

 

Quando aprì la lettera cominciò a piangere dalla delusione: il foglio all’interno della busta era piegato in quattro e quando Sibylla lisciò la prima piegatura le apparve un piccolo paragrafo vergato in una scrittura sconosciuta, appuntita, irregolare, dalle lettere alte e strette... non certo quella di Bill.

 

Ciao, Sibylla!

Spero che tu ti stia divertendo in India... noi ci siamo ammazzati di lavoro tutti i santi giorni, Bill è diventato ancora più perfezionista (leggi: “sfiancante e pignolo”), ma ha scritto delle canzoni bellissime, durante questi quattro anni, quindi lo abbiamo perdonato volentieri. Volevo solamente ringraziarti per tutto quello che hai fatto per il gruppo e per Bill, e augurarti tanta, tanta felicità.

Un bacio da Georg.

PS: non metterti a leggere questa lettera piangendo su una panchina in riva a un lago, al riparo di un albero, mentre piove, eh! Ciao!

 

Sibylla alzò gli occhi dalla lettera, allibita. Pioveva, lei stava al riparo di un albero, su una panchina in riva al lago... e piangeva. Forse Georg aveva doti di preveggenza?

 

Abbassò lo sguardo e aprì la seconda piegatura del foglio: una scrittura regolare e dritta.

 

Cara Sibylla

come va? Noi stiamo tutti bene, anche se affaticati: in questi mesi abbiamo lavorato  parecchio alle nuove canzoni e ci siamo divisi tra la sala di incisione e la cucina della villa di Bill. L’album è  finito e dovrebbe uscire tra un mese: abbiamo deciso di non investire cifre enormi in trovate pubblicitarie, questa volta la gente dovrà apprezzarci solo per la nostra musica. Ti siamo tutti molto grati, buona fortuna per il futuro

tuo Gustav.

PS: non dare retta alle stupidaggini che ha scritto Georg: una volta ha visto un dramma di Bollywood e la protagonista non faceva che singhiozzare sulle panchine, leggendo lettere d’amore. Quel film deve avergli bloccato la crescita. Ti abbraccio!

 

Sibylla sorrise tra le lacrime, leggermente risollevata. Spiegò la terza parte del foglio e cominciò a leggere il paragrafo di scrittura ordinata e pulita.

 

Sibylla

so di averti fatto molto male, e non solo dal punto di vista fisico. Mesi fa non ho avuto l’occasione per dirti quanto mi dispiace e quanto ti sono grato per non avermi portato rancore. Sei una persona bellissima, e hai fatto del bene a mio fratello quando io non ho potuto. Ho spedito una lettera allo studio in cui lavori, elogiando il tuo impegno e i tuoi meriti nel caso di Bill: spero che basti per farti riottenere il lavoro. Grazie di cuore. Sii felice.

Tom.

 

Sibylla annuì leggermente, sorridendo a un immaginario interlocutore. Si era completamente dimenticata del fatto di essere disoccupata... aveva anche completamente scordato quel progetto di mesi prima di chiedere del denaro a Bill, in cambio del suggerimento del nuovo album... quel progetto che l’aveva fatta sentire così spregevole...

 

Guardò la lettera: mancava un’ultima parte di foglio, piegata e nascosta. La ragazza serrò le labbra, ricacciando indietro le lacrime e spiegò la quarta parte.

 

Era completamente bianca. Bill non le aveva scritto nemmeno una parola.

 

     

 

La pioggia si era calmata e tamburellava quietamente sulle foglie della magnolia. Sibylla restò ad ascoltarla, immobile. La musicalità delle gocce di pioggia era stata la colonna sonora dell’unica notte che lei e Bill avevano condiviso. Non voleva altro che quello... solo sentire il suono della pioggia, guardare i grandi fiori di loto rosati che galleggiavano sulla superfice del lago, inspirare l’odore umido della natura, sentire sotto le dita la freschezza dell’erba, la morbidezza dei petali dei fiori... desiderava solo che il monsone continuasse per sempre, costringendola a restare in eterno lì, immobile, senza affrontare il dolore e la paura...

 

Sibylla si portò una mano al volto in fiamme, e chiuse gli occhi. Improvvisamente si sentiva molto stanca. Volle adagiarsi sulla panchina per riposare, ma urtò contro qualcosa di duro e aprì gli occhi di scatto. Le sue dita cercarono frenetiche, strapparono, aprirono, afferrarono: dentro il pacchetto arrivato, avvolto nella carta gialla delle Poste, insieme alla lettera, c’era un piccolo I-pod argentato con gli auricolari arrotolati intorno.

 

Indossò le cuffiette e accese il lettore musicale: c’era un unico album in memoria.

 

“Araberin Phönix” (Tokio Hotel)

 

     

 

Durante l’ora successiva, Sibylla arrivò a credere di essere stata rapita da un angelo e di star volando verso il paradiso.

 

Un ventaglio di emozioni mai conosciute le si apriva davanti e le bastava una battuta nella musica, un’inflessione nel cantato, per esserne pervasa. Il suo cuore batteva con un ritmo regolare e solenne, intenso.

 

Aveva chiuso gli occhi per non percepire altro che musica. Non esisteva altro che musica

 

Se i primi lavori dei Tokio Hotel erano stati bellissimi, questo nuovo album rappresentava qualcosa di straordinario... Sibylla non aveva mai sentito niente di simile. Quattordici canzoni, tutte in tedesco. Quattordici canzoni che le asciugarono le lacrime dalle guance, che gliene fecero versare di nuove, che le disegnarono sul volto una risata, una smorfia di dolore, un sorriso. Quattordici canzoni indescrivibili.

 

Quando Sibylla giunse alla quattordicesima traccia dell’album, nelle sue orecchie fiorì delicatamente una melodia suonata al pianoforte. Un preludio, pieno di passione e dolcezza. Una pausa e la voce di Bill, solista in quell’ultima canzone, cominciò a cantare, dolce e bassa, in un calmo suono d’amore. Un crescendo di accordi, una scala ascendente al pianoforte e la disperazione rubò il posto alla serenità: spontanei singhiozzi e dolore nella voce del cantante, vorticante terrore nella melodia... la voce di Bill crebbe nel cambio di tonalità, e discese in una cascata armoniosa e terribile, che ricordava la caduta di Lucifero all’inferno... un lamento straziante d’amor perduto e poi un diminuendo, la rassegnazione, la quiete dopo la tempesta... infine, le ultime note, le ultime parole cantate in un accento di dolce speranza.

 

E poi, il silenzio.

 

Sibylla aprì gli occhi: la musica era finita, ma l’incantesimo non si era spezzato... qualcosa rimaneva, qualcosa che la spinse ad abbassare gli occhi, cercando il nome dell’ultima canzone. Quando lo lesse, capì che la lettera di Bill era stata quella canzone: ogni cosa che lui le voleva dire gliel’aveva appena cantata all’orecchio.

 

La canzone si chiamava “Sibylla”.

 

     

 

(Tre mesi dopo)

 

Le ruote dell’aereo toccarono terra con un rumore sordo. L’intero velivolo ondeggiò leggermente nell’impatto e, dopo la corsa lungo la pista di atterraggio, si fermò, con grande sollievo dei passeggeri.

 

L’eterogenea folla che aveva occupato l’abitacolo dell’aereo sciamò giù dalla scaletta, senza disdegnare le strette di mano del capitano e del secondo pilota e i saluti delle hostess. La ragazza bruna, con il volto da occidentale e la lunga treccia da indiana, recuperò lo zaino dal bagagliaio sopra i sedili e scese per ultima, salutando con un sorriso silenzioso l’equipaggio.

 

Una volta recuperato il trolley, Sibylla girovagò un pochino per i negozi del grande aeroporto: non aveva molta voglia di uscire... in qualche modo le sembrava di non essere ancora pronta per valicare la linea di confine della zona neutra del viaggio in India. Fuori l’attendeva il mondo, la vita vera, e lei non era ancora pronta.

 

Fece il conto dei soldi che le erano rimasti. Aveva utilizzato il denaro che le aveva inviato Angelika per il viaggio e il soggiorno in India: aveva speso quanto rimaneva in regali per amici e familiari, qualche cosuccia per se stessa, e le varie mance ed elemosine. Restavano solamente qualche centinaio di euro, e voleva spenderli tutti.

 

Entrò in un negozio di alta moda e comprò un tailleur attillato di seta, d’un bel punto di verde scuro, che donava ai suoi capelli sfumature color rame, e che ben si modellava sulle sue curve assottigliate dalla dissenteria che l’aveva colpita in India. Ci abbinò un paio di decolletè nere con il tacco e, in un momento di ispirazione, un paio di orecchini d’argento piuttosto grandi, ornati di pietre dure verdi.

 

Si osservò nello specchio della boutique con i nuovi vestiti indosso. Una ragazza elegante, bella... con qualcosa di incongruo, però. Sibylla si prese tra le dita la treccia bruna e la esaminò: da sciolti, i capelli le sfioravano la piega del gomito e, insieme ai suoi occhi innocenti, continuavano a farla sembrare una bambina con addosso i vestiti della mamma.

 

Uscì dal negozio e diresse con decisione verso un altro, che aveva notato in precedenza: spinse la porta a vetri, ed entrò.

 

Quando uscì, una corrente d’aria arrivata da chissà dove le scompigliò un caschetto alla Audrey Hepburn che le metteva in risalto il collo sottile, gli zigomi alti e gli occhi grandi... quando si guardò di sfuggita, riflessa in una vetrina, per la prima volta in tutta la sua vita, non vide nè la ragazzina impulsiva e innamorata dei mesi passati, nè la malinconica ragazza dei monsoni.

 

Per la prima volta, vide una donna.

 

     

 

Un trillo proveniente dalla sua borsa la fece sobbalzare. Tirò la cerniera e afferrò il cellulare.

 

You have a new message” si disse, leggermente scocciata. Stava chiudendo un capitolo della sua vita, il mondo non poteva avere un attimo di pazienza, prima di reclamarla di nuovo?

 

Lo sportellino dell’infernale macchinetta si aprì con un piccolo scatto. Sibylla premette il tasto che consentiva di visualizzare il testo del nuovo sms. Era molto breve.

 

Domani, alle 10, davanti alla villa.

Verrai?

 

Non ebbe bisogno di leggere il mittente del messaggio. Non aveva dimenticato la promessa fatta a Bill, sei mesi prima. Le sue dita premettero automaticamente i tasti giusti, e rispose con un sms altrettanto conciso:

 

Verrò.

 

 

 

 

 

CIAO A TUTTI! Eccomi con un nuovo capitolo, scusate ma non ho tempo per i ringraziamenti, un bacio generale e alla prossima!

 

  
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