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Autore: Pleurite98    09/03/2014    7 recensioni
Otto ragazzi, sconosciuti tra loro, si svegliano improvvisamente in una camera cubica, su ogni facciata c' è una porta. Sei porte in tutto.
Non c' è un ricordo che possa portarli alla verità, del perché si trovino rinchiusi lì, isolati dal mondo.
Uno spazio angusto che priverebbe di lucidità chiunque, ma non loro.
La cosa più naturale, viene spontanea, aprire una delle sei porte, per scoprire quale camera sconosciuta si celi dietro.
Ma non c' è nulla di più agghiacciante che ritrovarsi sempre nello stesso posto, nulla di più incredibile e impensabile. Qualcosa che può portare alla pura pazzia, vedere sempre lo stesso scenario, sempre lo stesso cubo, sempre lo stesso colore, sempre le stesse persone. Solo una cosa può cambiare, la realtà, quella in cui sono sempre vissuti. Cosa c' è di stabile, ora? Nulla.
Un semplice cubo che racchiude otto vite, diverse tra loro, instabili oramai.
Le domande sorgono da sole, come i dubbi. Su chi ci si può fidare, sono solo otto, potrebbe essere uno contro sette, o sette contro uno. Potrebbero essere tutte vittime innocenti.
Un cubo, sei porte, quante stanze? Quante vite?
A che gioco hanno preso parte?
Genere: Horror, Sovrannaturale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gwen, Izzy, Noah, Scott, Zoey
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale
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Disclaimer: i personaggi e le opere da cui la storia è tratta non mi appartengono, scrivo per puro piacere personale e invito tutti i lettori a guardare la serie di film composta da: Cube, Hypercube e Cube Zero.
P.S. Ringrazio vivamente Stella_2000 per i suoi importanti consigli e per l’introduzione.
 
Capitolo 1
 
Anne Marie aprì gli occhi. Il freddo metallo le congelava la testa. La sentiva pulsare. Un dolore lancinante le percorreva tutto il corpo.
Si portò le ginocchia al ventre e si alzò lentamente.
Non riconosceva quel luogo, non ci era mai stata prima. O forse ci era stata. Non ricordava.
Si trovava in una stanza cubica, composta da muri completamente identici e da un soffitto e un pavimento uguali a quest’ultimi. Ogni faccia era grande circa quattro metri e al centro di ognuna era presente un piccolo quadrato nero, tutti i quadrati erano collegati tra di loro da piccole conche, sempre nere, con all’interno paletti di metallo che potevano fungere da scaletta.
Le pareti si dividevano quindi in altri quattro quadrati, rigorosamente di un bianco splendente, attraversati da diagonali nere.
La ragazza cercò di ricordare come fosse finita in quel luogo, ma frammenti della sera precedente (o di quella precedente ancora) le offuscavano la memoria.
Ricordava a stento il suo nome.
Notò una borsetta a terra, probabilmente la sua, e si chinò a raccoglierla.
La aprì e ne esaminò l’interno. Alcuni trucchi e accessori erano sparsi al suo interno, ma sotto quella confusione riuscì a trovare un piccolo portafoglio di cuoio.
Guardò la patente e riconobbe il suo volto.
Anne Marie Carter. Vent’anni. Studentessa.
Quei semplici dettagli le fecero ritornare alla mente quasi ogni ricordo in modo chiaro.
Venerdì sera era andata alla festa di Trevor.
Quindi poteva essere sabato. Ma poteva essere anche domenica.
Per quello che ne sapeva, poteva aver dormito una settimana.
Appoggiò la borsa a terra.
Non si rialzò. Il quadrato nero del pavimento stava richiamando la sua attenzione.
Ne era quasi attirata.
Ognuno di quei quadrati era diviso in altri quattro piccoli quadrati da due linee bianche.
Anne Marie ci posò sopra la mano. Le quattro piccole facce nere si ritirarono verso l’esterno.
La ragazza rabbrividì. Sotto di lei c’era una stanza identica a quella in cui si trovava.
Come cavolo era arrivata in quel posto? Cos’era quel posto?
Perché era lì?
Era stata rapita? Perché non ricordava le ultime ore?!
Si alzò di scatto.
La testa le fu attraversata da un dolore lancinante. Si lasciò scappare un piccolo gemito.
Andò spedita verso una delle altre pareti, si arrampicò sui tubi di metallo e aprì la botola.
Un’altra stanza uguale.
Corse ad aprire tutte le altre botole. Un altro cubo. Altre stanze identiche.
Gridò piena di rabbia. Gridò nuovamente, quasi isterica.
Cominciò a tirare pugni alle pareti. A domandare chi l’avesse portata in quel luogo. A chiedere cosa volessero da lei.
Stremata da quello sfogo, si sedette in un angolo, rannicchiata.
Passarono dieci minuti, o venti, o trenta, che la ragazza decise di andare a cercare un’uscita.
Non poteva essere infinito, quel posto.
Probabilmente si era ubriacata e quegli stronzi dei suoi amici le avevano fatto un brutto scherzo.
Probabilmente quel luogo era composto solo da cinque cubi, e lei doveva trovarsi in quello centrale.
Andò verso la botola a lei più vicina e la fece aprire titubante.
Entrò nella stanza identica.
Mise un piede a terra, poi l’altro.
Fece un passo indecisa.
Non accadde nulla. Perché si era preoccupata di quello che poteva accaderle in quel nuovo medesimo posto?
Corse verso la botola a lei frontale e ci posò sopra le dita.
Questa si aprì subito.
Gli occhi di Anne Marie si riempirono di orrore.
-No.- bisbigliò
-Non è possibile. No!-
Dall’altra parte le stesse pareti.
-No!- urlò.
Presa dalla foga passò per la botola e saltò nella stanza.
Non appena i suoi piedi toccarono il suolo accadde qualcosa di mostruoso.
Qualcosa che inconsciamente la ragazza temeva.
Da ogni punto nel quale si univano le diagonali nere, quattro per ogni parete, spuntarono dei piccoli tubetti non più grandi di una cannuccia, simili agli innaffiatori usati nelle serre.
Il rumore del meccanismo la fece sussultare.
Poi i tubetti cominciarono a spruzzare un liquido trasparente.
Istintivamente Anne Marie si coprì il volto, ma quella che credeva essere acqua nel momento in cui le toccò le mani le corrose.
Le ritrasse immediatamente. Questa volta il liquido la colpì in faccia.
Urlò con tutto il fiato che aveva in ventre mentre ogni centimetro del suo corpo si consumava.
Brandelli di carne cominciarono a cadere al suolo, accompagnati dal sangue e dall’acido.
Urlando la sostanza le penetrò in gola. Chiuse immediatamente la bocca dopo aver sputato sangue.
Cominciò a vedere rosso. Si gettò alla cieca contro la parete, con le ossa delle braccia ormai visibili.
Cercò la botola, ma quando riuscì a trovarla, questa sembrò non aprirsi.
Gridò nuovamente. Questa volta la pelle del viso si staccò, facendo cadere la mascella a terra.
La ragazza la seguì a sua volta. Non vide più nulla e l’acido poté continuare nel silenzio il suo inesorabile lavoro.
 
 
Courtney si svegliò di soprassalto. Erano delle grida quelle che aveva sentito?
Dove si trovava? Chi erano le persone addormentate nella stanza? Le conosceva?
 
Altri piccoli cinque corpi giacevano supini nella stanza cubica.
Li esaminò con lo sguardo nella speranza di ricordare qualcosa.
Un ragazzo con i capelli ramati e indosso una canottiera sgualcita.
Un altro, sicuramente punk, aveva i capelli che andavano a raccogliersi in una cresta verde.
L’ultimo dei ragazzi era bassino, con i capelli lunghi e castani. La sua carnagione faceva presupporre che avesse origini indiane.
Una ragazza dai capelli che tendevano all’arancione portava in vita una corta gonnella verde.
Infine,  nell’angolo a lei più lontano di quel piccolo cubo, stava sdraiata una giovane pallida, con ciocche di capelli tinte di azzurro.
 
Nessuna di quelle figure le diceva qualcosa.
Nella sua mente regnava il vuoto.
Rispondeva a quasi tutte le proprie domande scuotendo impercettibilmente la testa.
Mise la mano nella tasca destra dei suoi pantaloni e ne estrasse una carta d’identità.
Courtney Heavenport. Ventitré anni. Scienziata.
Allora era una scienziata, ma di cosa?
Sebbene certi dettagli le tornassero in mente, come quelli della sua infanzia, ma anche dei suoi amici e della sua famiglia, altri le rimanevano offuscati. Come i suoi indirizzi di studio. La sua carriera. I suoi progetti.
I capelli castani le carezzavano le spalle.
Rimase in silenzio. Temeva di svegliare i compagni.
Improvvisamente una botola sulla parete alle sue spalle si aprì.
Voltò la testa di scatto.
Una ragazza dai capelli rossi raccolti in due codini si affacciò dalla piccola fessura.
-Oh! Ma allora si è svegliato qualcuno!- disse entusiasta girandosi a guardare qualcuno nella stanza da cui proveniva – vieni Mike, entriamo! –
Scese dalle scalette e le si avvicinò di qualche passo.
Alle sue spalle un ragazzo magro, castano e dalla carnagione scura saltò dalla botola con agilità.
-Hey, tutto bene? Ti sei appena svegliata?- la rossa sembrava rivolgersi a lei.
-S-sì, mi sembra- Courtney fece per rialzarsi, ma un forte crampo alla testa la obbligò a risedersi a terra.
-Male alla testa, eh?- questa volta era stato il ragazzo a parlare –Anche noi ci siamo svegliati nel tuo stato. Comunque… piacere, Mike.- le porse la mano.
Lei la strinse dubbiosa.
-Io sono Courtney, a quanto pare.-
-Anche noi facciamo fatica a ricordare alcune cose, per esempio…-
-dove lavorate.- la mora non gli lasciò finire la frase.
-Sì, esatto, dove lavoriamo.-
-Secondo la mia carta d’identità io sono una scienziata.-
-Io invece dovrei essere un ingegnere.- disse lui.
-Io un architetto.- intervenne la ragazza.
-Dove ci troviamo?-
-Non lo sappiamo. Sembra essere un labirinto composto da stanze identiche.-
-State dicendo che non c’è un’uscita?-
-Noi non l’abbiamo ancora trovata.- concluse Mike.
 
Dopo alcuni minuti si svegliarono anche gli altri presenti.
Tutti senza memoria.
La gotica si chiamava Gwen, aveva ventitré anni ed era studentessa.
L’indiano ricordava alcune piccole cose senza bisogno d’input, il suo nome era Noah, ventidue anni, matematico.
La riccia si scoprì essere una certa Izzy Chevalier, ventiquattro anni, designer.
Il punk era Duncan Cove, ventitré anni, disoccupato.
La rossa, che non si era ancora presentata, aveva il nome di Zoey.
Infine il ragazzo con la canottiera sgualcita si chiamava Scott, ventuno anni, fisico.
 
Nessuno sembrava riconoscere i compagni.
Nessuna sapeva in che luogo si trovassero, né tantomeno come ci fossero finiti.
Solamente una cosa era ben chiara nella loro mente. Dovevano uscire da quell’incubo, e dovevano farlo subito.
 
 
  
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