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Autore: mairileni    10/03/2014    2 recensioni
Contiamo alla rovescia.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutte! ^_^


Scusate per il ritardo, non trovavo mai un attimo! Vi ringrazio davvero tanto per tutte le recensioni, e per aver messo tra le preferite, seguite o ricordate questa storia, sono davvero molto contenta. Mi fa piacere che abbiate gradito i giochi di parole per i titoli. 

Grazie anche per i commenti all'ultimo capitolo, e perdonatemi se non vi ho ancora risposto, sto studiando come una matta... spero di farcela per stasera! 

 

Sperando che continuerete a seguire, vi lascio al capitolo.


Buona lettura,



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SECONDA PARTE

 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

 

ARSI

 

 

 

    «Pronto? Cosa? Mh, no, signora, non è il droghiere, ha sbagliato numero. Si figuri. Buongiorno.»

 

 

 

 

 

 

1

 

 

 

Ogni tanto — non sempre, davvero, solo ogni tanto e solo per pochi istanti —, Brian si sentiva un po' in colpa per il modo in cui trattava Anna. Erano minut... no, secondi. Secondi è meglio. Si diceva, erano secondi in cui Brian sentiva prima una forte morsa al petto — altresì nota come “senso di colpa” —, poi un gran caldo, poi una sensazione di urgenza (Brian la identificò come “urgenza di scusarsi”, ma non era del tutto sicuro), poi...

 

    «E quali sensazioni provavi in quel momento?»

 

Ecco, poi Anna diceva qualcosa di questo genere e, come per magia, passava tutto. Le “sensazioni”. Ah, come odiava, Brian, quella parola, e come invece Anna sembrava amarla! Forse la causa del ribrezzo per la parola “sensazioni” — Dio, che odio! — stava tutta nella sovrabbondanza della componente sibilante della pronuncia. Sensazioni. Poteva essere il titolo di un libro erotico — ultimamente vanno di moda —, Sensazioni

 

    «Brian?», lo riscosse dai suoi pensieri Anna.

    «Nessuna sensazione, Anna.»

    «Ma se mi hai appena detto che dopo quel bacio non vi siete visti per due mesi!»

    «E quindi?»

    Anna sospirò e portò un unghia laccata a grattarsi distrattamente un labbro. «Be', vi baciate, poi non lo vedi per due mesi e... non provi nulla?» Prese il silenzio di Brian come un invito a continuare. «Brian... ascolta. Non andiamo da nessuna parte così, e...»

 

Le tenaglie del senso di colpa gli diedero un forte abbraccio allo stomaco. Ora passa ora passa ora passa, si ripeté mentalmente. 

 

    «... vedi... mh. Se vieni qui, Brian, è per dirmi ciò che non diresti mai a nessun altro, o per ammettere con me ciò che non ammetteresti mai con te stesso. Ora fingi di non ascoltare, il che è molto da te, ma so che in realtà mi stai ascoltando eccome. Allora io ti chiedo: che senso ha, Brian?»

    «... che senso ha cosa?»

    «Che senso ha che tu faccia l'orgoglioso con me? Non sono una persona fondamentale, nella tua vita, Brian, e allora, perché cerchi di darla a bere anche a me? Ogni volta che ti ho posto una domanda un po' più intima delle altre, o che ho capito come andavano le cose ancora prima che tu me lo dicessi, mi hai sempre risposto con sufficienza. È perché non vuoi esporti, va bene. Va bene con Matt, va bene con Stef, ma non va bene con me, perché così facendo ti freghi da solo. Perché lo fai, Brian?»

 

Anna Beckett sapeva cogliere nel segno, Brian doveva riconoscerglielo. 

 

    «... non lo so. Mi viene naturale.»

 

Anna pensò di segnarselo, ma si era accorta che a Brian dava fastidio. Per una volta evitò di usare il bloc notes: quel punto se lo sarebbe ricordato comunque.

 

    «È sempre stato così?»

    «Sì. So che con te non dovrei farlo.»

    «Se lo fai non posso aiutarti Brian. Questo è l'unico motivo per cui te l'ho fatto notare. Ora dimmi, Brian.»

    «D'accordo. Ci provo.»

 

“D'accordo” stava per “scusa” — si capisce benissimo anche senza esplicitarlo, di sicuro lei ha capito.

    

    «Ti ascolto.»

    «Odio. Rabbia. Di tristezza sorprendentemente poca, in realtà.» Le sensazioni.

    «Perché l'hai subito odiato? Normalmente è più normale cominciare con l'intristirsi.»

    

Brian ridusse gli occhi a due fessure per un istante. Non era un ricordo troppo piacevole.

 

    «Perché gli avevo scritto “Anch'io”. Gli avevo mandato io, l'ultimo messaggio. E poi lui... sparito. La sera successiva non mi aveva ancora scritto, e io ho subito pensato che avesse fatto qualche scommessa con qualcuno, sai tipo: “Vediamo se riesco a far fesso Brian Molko”. Sentivo di esserci cascato, e l'ho odiato a morte, per questo.»

    «È così che è finito tutto?»

    

Brian si tirò un po' più su sulla chaise longue, e la sua faccia si fece più stupita.

 

    «Cosa? Finito? No, quando è successo questo la nostra storia non era nemmeno... cominciata!»

 

Il viso di Anna si fece assorto, e Brian prese a gesticolare, per spiegarsi meglio.

 

    «Intendo dire, sì, ci eravamo già baciati, ma la nostra storia, quella... seria, diciamo così... è iniziata dopo, a dicembre!»

    «E allora, questa pausa di due mesi dopo il primo bacio?», chiese confusa lei.

    «Be', la settimana successiva ancora non si era fatto sentire.» Scosse la testa. Doveva dirlo. Era la sua analista. «Lì. Lì è subentrata la tristezza. Pensavo davvero che fosse stato tutto un gioco, mentre per me... insomma, io lo volevo davvero. Però poi, una sera a casa di Stef, ho trovato delle...»

 

 

 

 

 

 

2

 

 

 

    «... riviste di gossip, Stef? Sei checca fino a questo punto?», fece lapidario Brian, un giornaletto dalla copertina variopinta in mano.

    «Oh, taci, Molko.»

 

Brian non rispose e si accucciò più comodamente sul divano, portandosi la rivista sulle ginocchia. Lui e Stef erano stati una coppia fino all'anno prima, e normalmente quando due persone stanno così bene assieme ma poi, per vari motivi, si lasciano, non dovrebbero continuare a vedersi con tanta disinvoltura. In realtà capitava spesso, per non dire sempre, che Brian si piazzasse a casa di Stef. Ci andava quando aveva qualcosa da festeggiare (per bere in compagnia), quando non stava bene (per essere viziato da qualcuno), o anche quando non aveva voglia di rifare il letto. A casa di Stef le lenzuola erano sempre tanto profumate! In questi casi, la sua invasione in casa Osdal si divideva in tre fasi. 

    Prima fase: irruzione.

    Seconda fase: tentativo di spedire Stef a dormire sul divano («Lasciami il tuo letto, Stef, riposerai bene anche in sala», «Nemmeno se mi spari»).

    Terza fase: rinuncia parziale alla seconda fase (“parziale” in quanto entrambi finivano con il dormire nel letto del padrone di casa — nel senso più casto dell'espressione, chiaro). 

    Ad ogni modo, Brian stava ancora lavorando sulla seconda fase.

 

    «No.»

    «E andiamo, Stef, cosa ti costa lasciarmi un po' di privacy?»

    «Avrai tutta la privacy che vuoi, se dormirai sul divano.»

    «Il tuo letto è più comodo.»

    «Per questo non lo lascerei a te nemmeno sotto tortura.»

    «Sei un ingrato.»

    «Oh, già!», esclamò lui, sarcastico, «Con tutta la fatica che hai fatto per aiutarmi a caricare la lavastoviglie! Che ingrato che sono!»

   

Chiaramente, finita la cena, Brian si era comodamente sistemato in salotto, mentre l'amico si preoccupava di armeggiare con piatti, posate e sgrassatori.

 

    «Taci, Osdal, non riesco a leggere la rivista.»

    «Ah, e chi è la checca, ora?»

    «Sempre tu.»

 

Stef scosse la testa e si allungò verso il tavolino per raggiungere il telecomando. Ogni tanto guardava Brian. Si stava comportando in modo meno naturale del solito. Non osò fare domande.

    Brian, nel frattempo, sfogliava svogliatamente le pagine intrise di pettegolezzi del giornale, facendo un gran chiasso con la carta. E proprio quando Stef stava per chiedergli, se, cortesemente, potesse porre fine a quel concertino, il rumore cessò. 

    Lo guardò. Aveva inchiodato gli occhi su un articolo.

 

    «Brian?»

    «Sssh», lo zittì frettolosamente lui.

 

Non era stata tanto la foto, ad attirare la sua attenzione. Di quelle ce n'erano tante, in giro. Era stato il titolo. Cominciò a leggere, velocissimo. 

 

    «Brian?»

    «...»

    «Brian?»

    «Dio di un Cristo, Stef, puoi tenere la bocca chiusa per un cazzo di secondo?! Pensi di farcela?!», sbottò questi.

 

Stef sospirò e si mise comodo, sdraiandosi su quanto spazio libero restava del divano. In condizioni di normalità avrebbe chiesto a Brian di fargli appoggiare i piedi sulle sue cosce, ma ora non gli sembrava proprio il caso.

    Brian, ormai, aveva già letto l'articolo due volte, così tornò al titolo. Quel titolo.

 


Kate Hudson e Matt Bellamy: la coppia più invidiata del momento ora aspetta un bambino!


 

Lo rilesse ancora. Guardò le foto. In una Kate. In una Matt. In una Kate con Matt. Ecco qui Matt in concerto ed ecco lì Kate con la pancia. 

    Lesse le frasi poste in evidenza. 

 


Matt Bellamy: «Non ammetterò più alcuna distrazione; il mio tempo sarà a piena disposizione di mio figlio.»

 


«Ho messo la testa a posto, ho detto addio alle pazzie e alle avventure. Tranne la musica. Quella resta.»

 


E nonostante i pensieri, nonostante il tuffo al cuore, nonostante tutto, a Brian venne da dire solo una parola. 

 

    «Ah.»

    «Mh? Hai detto qualcosa?», chiese Stef. A Brian sembrava che gli parlasse da un punto lontanissimo.

    Scosse la testa per più tempo del necessario. «No. Non ho detto nulla.»

 

Mi chiedevo dove fossi finito.

    Guardò la foto in cui un entusiasta Matt posava una mano sulla pancia della sua compagna.

    Ed eccoti qui. Be'... congratulazioni.

 

 

 

 

 

 

3

 

 

 

    «L'hai scoperto così? Lui non te ne aveva mai parlato?»

    «No. Sapevo di Kate, non sapevo certo di... Bing.» Pausa. «Certo è che anche se non ci fossero state foto e il titolo fosse stato: “Il nome di mio figlio sarà Bing”, avrei fatto due più due. Chi altri potrebbe chiamare un bambino “Bing”?»

    «Eri più triste o arrabbiato, in quel momento?»

 

Lui ci pensò su. Mh, non c'era dubbio. 

 

    «Quando, dopo il bacio, era sparito, arrabbiato. Quando erano passate ormai due settimane senza che si fosse più fatto sentire, triste. Quando ho aperto quella rivista...»

    «Quando hai aperto quella rivista...?»

    «Non saprei nemmeno come spiegarlo. Ma era una sensazione che vorrei non dover provare mai più.»

 

Si guardò le mani. Stavano...

 

 

 

 

 

 

4

 

 

 

    ... tremando! Stai bene, Brian?»

 

Chi parlava? Stef? ... oh, già, Stef. No aspetta, perché Stef? ... oh, già, era a casa di Stef.

 

    «Mh?»

 

Sentiva una mano sulla spalla, ma cosa...? Oh. Sempre Stef, giusto.

 

    «Brian, si può sapere che hai? Cos'hai visto di tanto sconvolgente?, tremi come una foglia!»

    «Tremo quando sono nervoso.»

    «Questo lo so.»

 

Stef si sporse più in avanti per cercare la causa di tanto sconvolgimento, e Brian, dal canto suo, non fu abbastanza rapido a chiudere la rivista.

 

    «Cos'è? È per questo?», chiese tranquillamente Stef, togliendogli il giornale dalle mani. «È per qualcosa che dice qui?»

    Brian formulò un: «No» poco convinto.

 

Stef staccò gli occhi dall'articolo e gli rivolse uno sguardo interrogativo.

 

    «Cosa c'è di strano? Che Bellamy avrà un figlio? E grazie a Dio, che finalmente avrà 'sto figlio! Sono mesi che rompe i coglioni che vuole avere un figlio!»

    «Ah sì?»

    «Non si parla d'altro!», fece stridulo Stef, ridacchiando. 

 

Poi tornò serio. Cercò... qualcosa, nell'espressione di Brian, ma vi scorse solo tristezza, e pensò di essersi sbagliato. La tristezza non gli sembrava un “qualcosa” plausibile. Perché Brian avrebbe dovuto essere triste?

 

    «Brian, tutto ok?»

    «Certo che sì. È che...»

    «È che...?»

    «... dovevo saperlo.»

    «Saperlo? Ma di che parli?»

    

Brian, che prima aveva spostato lo sguardo sul parquet, tornò a guardare Stef, sforzando un sorriso. Sperò di dargliela a bere.

 

    «Del bambino. Sai che odio non sapere le cose per primo, no? Del bambino, Stef. Dovevo sapere del bambino.»

 

 

 

 

 

 

5

 

 

 

    «Mi ero giurato che se si fosse ripresentato alla mia porta, io... l'avrei ricoperto di insulti, e poi cacciato. L'avrei distrutto, Anna.»

 

Un sopracciglio di lei, perfettamente disegnato, si arcuò. 

 

    «E invece?»

    Brian sospirò. «E invece la sera del mio...»

 

 

 

 

 

 

6

 

 

 

    ... compleanno! Non puoi non uscire nemmeno di casa! Si può sapere che cos'hai?!»

 

Brian teneva il cordless tra l'orecchio sinistro e la spalla. Stava scrivendo musica, e oltretutto quella chiamata lo aveva seccato oltremodo.

 

    «Quando mai nella mia vita ho festeggiato il compleanno, Osdal?»

    «Ogni anno, forse?!»

    «Cazzate!»

    «Brian, non è una festa, si tratta solo di venire a cena con me e Steve, punto!»

    «Ah be'. Mi diverto al solo pensiero.»

 

La cornetta non trasmise nessun suono per una buona manciata di secondi. Poi Stef.

 

    «... sei proprio uno stronzo, Brian.»

 

Il segnale del ricevitore, a vuoto. Restò ad ascoltarlo per un po'.

    Sì, era il suo compleanno, e no, non aveva voglia di festeggiare un bel niente. E poi già aveva freddo in casa, figuriamoci fuori. Era un crimine, forse? Non gli risultava. Ecco tutto. 

    A Stef sarebbe passata.

    Si trascinò in cucina, anche se non aveva certo fame, giusto per riempirsi un po' lo stomaco.

    E poi suonò il campanello. Pensò di aver sentito male, lo ignorò. Il campanello suonò di nuovo, e allora lui raggiunse la porta a passo di carica.

 

    «Stef, ti ho già detto che...»

 

Aprì la porta.

 

    «Ehm... ciao, Brian.»

 

Non era Stef. 

    Matt. Era Matt. 

    Non se lo aspettava, e questo era un colpo basso. Bassissimo. Matt portava con sé il fresco dell'esterno, cosa che in altri frangenti avrebbe fatto venire a Brian tanta voglia di abbracciarlo forte. 

 

    «Io... io so che oggi è il tuo compleanno. In realtà non mi aspettavo di trovarti in casa, e volevo solo lasciarti qui il mio regalo perché lo trovassi una volta rientrato, però il portinaio mi ha detto che c'eri e...» Estrasse un pacchettino dalla giacca, ma Brian non lo guardò nemmeno.

    «Vattene.»

    

Matt abbassò la testa, Brian invece continuò a guardarlo fisso. Voleva ucciderlo. Di botte.

 

    «Brian, senti, lo so che non mi sono più fatto sentire, ma...»

    «Vattene.»

    «Ma...»

    «Sparisci dalla mia vista.»

    Matt lasciò ricadere lungo il fianco la mano con cui gli stava porgendo il regalo. «Brian, ti prego, io...»

    «“Tu” cosa? “Tu”... cosa, Bellamy? Cosa?»

    «Mi dispiace di non averti più chiamato.» Teneva lo sguardo fisso sui propri piedi, mentre parlava. «Non mi aspetto che mi perdoni subito. Ma volevo davvero rivederti, Brian.»

    «Ah, sì? Che buffo! Pensavo che non avessi più tempo per “pazzie” e “avventure”», ribatté questi, con pesante sarcasmo. «Sono contento per te e per la tua donna. Ora lasciami in pace.»

    

Matt non rispose, e nemmeno lo guardò. E nemmeno si smosse di lì. 

 

    «Bellamy? Vat-te-ne.»

    

Ti prego, non andartene, pregò nel profondo, anche se la parte predominante di sé desiderava davvero, con tutto il cuore, che se ne andasse.

 

    «Brian, senti...»

    «“Senti” un cazzo, Bellamy! Sparisci!»

    «E invece mi stai a sentire!», sbottò lui.

 

Brian fu preso in contropiede, e non rispose.

    Sì. Ti sto a sentire, Matt. Dimmi.

    

    «Io ho avuto un periodo di merda, e...»

    «Oh, poverino.»

    «... e nemmeno io sapevo del bambino. Non ne sono nemmeno così entusiasta, a dire la verità. Anzi. Avrai letto i giornali, immagino, e... quello che ho detto ai giornali, le mie frasi, dico, erano puramente circostanziali.» 

    «Immagino.»

    Matt riceveva ogni affondo di Brian abbassando la testa. «Ho fatto un casino, e penso di non volere questo bambino. Affatto. Ma Kate era così contenta, e ha prenotato per entrambi due mesi di vacanza in California, e...»

    «Risparmiami il discorso del penitente, Bellamy. Ho già abbastanza problemi di mio.»

    «Che succede?», chiese Matt. Si era fatto ancora più assorto, e ora lo guardava negli occhi.

    «Fatti miei. Abbiamo finito?»

    «Brian, esci con me, per cena. Non ti parlerò dei miei problemi, te lo giuro, ma non posso permettermi di buttare tutto nel cesso.»

    «Ti serve solo qualcosa che ti tenga legato alla vita reale. Prenditi le tue responsabilità, Bellamy.»

    «Non è così!», gridò Matt. «Quando ho iniziato a volerti vedere, ancora non sapevo del bambino!»

 

Brian si appoggiò contro lo stipite e si permise di riflettere. Tornare in casa e lasciarsi tutto alle spalle, in quel momento, aveva poco senso: sapeva che Matt sarebbe comunque rimasto fuori. Ma soprattutto era passato troppo tempo da quando avevano iniziato a parlare, e sbattergli la porta in faccia ora non avrebbe sortito lo stesso effetto drammatico che avrebbe sortito in un altro momento. La drammaticità era sempre importante. 

    E allora cosa gli restava da fare? Ascoltarlo, chiaro. E cercare di uscirne in qualche modo.

 

    «Perché, Bellamy?»

    «“Perché” cosa?»

    «Perché tutto questo? Ami Kate? No, e non dirmi di sì perché ti si legge in faccia, che la sopporti appena. Però non la lasci. Ami me, allora? Ma per cortesia. Però non mi lasci. In pace, intendo. Vuoi un bambino? Dio, no che non lo vuoi! E insemini la Hudson. Ma che cosa ti dice il cervello?!»

 

Matt sembrò riflettere seriamente su quanto si era appena sentito dire. Ed effettivamente il discorso di Brian non faceva una piega.

 

    «... non lo so», rispose infine. «Però so che se non lascio Kate è perché tutto sommato è una bella persona, e non si merita che io la lasci. Mi sembrerebbe di essere un ingrato, per tutta la pazienza che ha avuto con me finora. E il bambino è stato un incidente, ma questo non potevamo certo dirlo ai giornali, perché non è esattamente... chic, una cosa del genere.»

    «Parli di chic, parli di musica... parli di tutto ciò in cui non hai competenze, Bellamy.»

    Matt sorrise amaramente. «E per quanto riguarda te, ti prego solo di sapere che... quello che ti dico, intendo, è... è vero. Non mi interessano le avventure — ci sono le groupies, per quello —, e non mi imbarco in scommesse assurde o giochi da idioti. Sono una persona pigra. Non ti avrei mai portato il regalo di compleanno, direttamente a casa tua, in una gelida giornata di dicembre, con due ore di sonno alle spalle, solo perché sei un'“avventura”.»

    Brian scosse la testa. «Che vuoi fare?»

    «Chiarire con te. E festeggiarti. A cena, adesso.»

 

Brian odiò notare il modo in cui quel... quel... Bellamy, era riuscito ad addolcirlo. Ma se amava essere sincero con se stesso, allora tanto valeva che lo ammettesse. Gli cambiava l'umore. E in pochi ci riuscivano.

 

    «Se uscissimo ora e incontrassimo in giro Stef ci farei una figura barbina.»

 

Stava per accettare? 

    Stai per accettare?

    Ovvio che no.

    Ah, ecco.

 

    «Al massimo, avremmo probabilità di incontrarli solo in un posto molto raffinato, non trovi?», replicò Matt.

    «E quindi?»

    «Ti fidi se ti dico che non li incontreremo?»

    «No.»

    «Immmaginavo», disse, e spostò il peso sulla gamba opposta. Iniziavano a formicolargli i piedi.

    «Bellamy.»

    

Matt alzò lo sguardo.

 

    «Sì?»

    «Vedi quell'ascensore alla tua sinistra, in fondo al corridoio?» 

 

Brian si sporse di poco fuori dalla porta e indicò in quella direzione. 

 

    «Aha.»

    «Pensi di farcela a raggiungerlo?»

    «... sì», rispose Matt.

    «Bene», disse allora Brian. «Vai, per cortesia.»

    Matt aprì la bocca, la richiuse. «... e il regalo? Posso lasciarti almeno questo?»

    

Brian piegò la testa da un lato e ridacchiò, anche se non c'era proprio nulla da ridere.

 

    «Lo vedi che non capisci mai un cazzo, Bellamy?»

    «Eh?» Matt lo fissò con un'aria poco intelligente.

    «Vai!»

    «Ma il regalo...»

    «Dopo, Bellamy!», sbottò Brian. «Dopo! Vai al cazzo di ascensore, premi il pulsante e... aspettami mentre prendo la giacca!»

 

Matt non riuscì a non mostrare trentadue denti di sorriso, gli occhi sgranati. 

 

    «Sul serio? Stai uscendo con me?», chiese.

    «Non farmici pensare troppo», scorciò Brian. «Aspettami lì.»

 

 

 

 

 

 

7

 

 

 

    «Mi dispiace se non è molto elegante, so che ti meriteresti qualcosa di raffinatissimo. Però non possiamo essere scoperti.»

 

Una delle vetrine era raggiata per tutta la superficie, segno che qualche simpaticone doveva essersi divertito a lanciarvi dei sassi contro. Da fuori pareva un disastro, certo, ma il ristorante in sé era comunque un bel posticino. E magari non era proprio un locale da ricchi, ma, ecco, da benestanti. Brian rifletté su quanto si sarebbero potuti dire a cena. E si rese conto che non avevano argomenti in comune. 

    Sarà, ma a te che te ne frega?

    Nulla, nulla davvero.

    Ecco.

    Sì.

 

    «Non me n'ero accorto, lo sai? Dico della vetrina.»

 

Matt, dietro alle sue spalle, gli sorrise senza essere visto.

 

 

 

 

 

 

8

 

 

 

    «Ti vedo benissimo.»

    «Sssh, mi deconcentri. Ummmmm... uuummmmm...»

    «Bellamy, ti vedo!»

    «... ummmmm...»

    «Bellamy, ti vedo proprio chiaramente, che stai usando il pollice!»

    «... aaammmmm...»

    «Povero me, con chi sono finito.»

    «Sei solo geloso perché tu non lo sai fare.»

    «Neanche tu lo sai fare, Bellamy, non hai nessun potere psichico, il cucchiaio lo stai piegando con il pollice, ti vedo!»

    «... uuummmmm...»

    «E smettila di fare questi versi mistici»

    «... mmmmmhhh...»

    «Va bene, abbiamo capito, sei un mago! Uuuh, Matthew Bellamy è un mago, che portento! Ora smettila, ci stanno guardando tutti!»

    «... aaammmmm...»

    «... come non detto.»

 

 

 

 

 

 

9

 

 

 

A fine serata, sparecchiando un tavolo, un cameriere trovò un cucchiaio da minestra con il gambo piegato ad angolo di novanta gradi.

    Probabilmente qualche bambino aveva voluto far credere ai genitori di possedere facoltà psichiche paranormali, quando sanno tutti che il cucchiaio basta impugnarlo e piegarlo piano piano con il pollice. 

    Il cameriere ridacchiò tra sé e sé, raddrizzò la posata con le mani e continuò con il suo lavoro.

 

 

 

 

 

 

10

 

 

 

Ciao Matt.

 

    Sì, sto andando avanti con questa cosa delle lettere. E sì, è ridicolo. E no, non le leggerai mai.

    La mia analista mi ha detto che in un rapporto di coppia la cosa più importante è la trasparenza. Mi chiedo perché me l'abbia detto, dato che si dà il caso che ora come ora io non faccia parte di nessuna coppia. Comunque si può fare. Questa cosa della trasparenza, dico. Del resto, penso di essere sempre stato abbastanza trasparente, con te, e quando non lo ero volutamente, per te lo ero comunque, non so se mi spiego.

    L'hai sempre saputo, non è così? Brutto stronzo, ma l'ho sempre saputo anch'io, sai? Lo sapevamo entrambi: che io mi innamorassi di te era solo questione di tempo. 

    Touché, come diresti tu. No, aspetta, tu diresti qualcosa come “tiùcce”, o “tòuce”, dato che hai una pronuncia in francese a dir poco tremenda. 

    Per il mio compleanno mi hai portato in quel ristorante con la vetrina rotta, te lo ricordi? Aspettare le ordinazioni non era mai stato così rilassante. Di solito mi snerva, sai? E invece no, quella volta proprio per niente. Anzi, quando il cameriere è arrivato l'ho odiato un pochino, sai, ci ha interrotto mentre stavi per parlarmi un po' più di te. 

    Lo stomaco mi si era aperto all'improvviso, come se qualcuno ci avesse fatto esplodere dentro qualcosa. Quando te ne eri andato, dopo il nostro primo bacio, si potrebbe dire che avevo smesso di punto in bianco di mangiare, lo sai? E quando sei tornato... non lo so, è stata come una scossa. 

    Ma guarda te cosa mi sono ridotto a dire.

    Usciti dal ristorante con la vetrina rotta, abbiamo pure preso il gelato, e mangiandolo abbiamo fatto la strada lungo al fiume, ti ricordi? Ti ricordi?, ad un certo punto è andata via la luce. Un blackout in tutto il quartiere. E allora il cielo era diventato più bianco che nero, e l'acqua sporca del Tamigi era una tavola d'argento, per il riflesso delle finestre lontane, nei quartieri rimasti illuminati. E in quella meraviglia — perché quando mai vedi le stelle, a Londra? Ci sono stelle, a Londra? —, in quella meraviglia, tutto ciò che hai fatto tu è stato dirmi che ti era colato sul marciapiede un po' di gelato — stracciatella —, e che aveva formato una piccola macchia che secondo te aveva la forma della Nuova Zelanda. Sì, mi hai detto proprio così, «ehi, Brian, guarda se questa macchia non sembra la Nuova Zelanda!». E tutto ciò che sono stato capace di dirti io, in quel momento, è stato solo: «Sì. Sì, è vero, sembra la Nuova Zelanda.»

    Tu ti sei accucciato per guardarla da più vicino, e vederti così concentrato, così assorto per quella piccolezza, per quell'accadimento... completamente insignificante, mi ha fatto salire un'ansia di perderti che a parole non è possibile esprimere, e non so nemmeno perché.

    E io stavo pur sempre mangiando un gelato, ma ti giuro, Matt, io te lo giuro: mentre ti guardavo, sentivo la gola completamente arsa.









   
 
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