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Autore: rachel_hetfield    12/03/2014    7 recensioni
Presi una boccata d’aria troppo grande, mi girò la testa e mi appoggiai al metallo freddo della capsula. «Come puoi amarmi se mi odi?»
«Non so come dirtelo che non ti odio.»
Lasciai il metallo e mi avvicinai di più a lui. Con la mano destra mi allungai verso il pulsante del timer. Un suono robotico lo fece partire.
«Non fare cazzate» singhiozzò «ti prego. Resta qui. Non ce la farei senza di te.»
Avevo impostato il timer per sessanta minuti, un’ora esatta. Avevo un’ora di tempo per decidere se fare le valigie, o attirare Kevin e rimandarlo indietro, a Oslo.
Evitai le sue labbra che si erano chinate su di me. «Devo... devo restare da sola. Torniamo nella locanda. Devo pensare.»
«Non farlo...» mormorò con la voce strozzata dal pianto.
Scossi la testa mordendomi un labbro. Fortunatamente ero voltata di spalle, perché avevo iniziato a piangere anche io.
«Rachel, ti amo.»
Singhiozzai e mi sentì. Il mio cuore balzò. Mi aveva circondata con le braccia, di nuovo. Solo che stavolta piangevamo entrambi. Il destino ce l’aveva con noi.
«Ti amo anche io, Dan.» [capitolo 16]
Genere: Drammatico, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Londra, Inghilterra, 8 gennaio 2014
 
I festoni e i coriandoli cartacei mi riempivano i capelli, arruffandoli, dibattendomi per toglierli tutti. Qualche strano oggetto cilindrico nel quale Kyle ci soffiava di continuo producendo un suono strozzato e buffo, e una striscia di carta colorata si gonfiava srotolandosi, gli applausi, qualche urlo e lo stappo dello spumante appena aperto.
Mi ero già ambientata in mezzo a quei quattro barboni: avevamo un appartamento, Dan aveva quasi trovato lavoro, vivevamo insieme, al contrario degli altri tre che avevano il proprio habitat. Habitat sì, perché erano degli animali. Ma volevo loro troppo bene per separarmene, e la vicenda con Kevin non aveva fatto che rafforzarmi, farmi capire che non era mai troppo tardi per niente, rimediando quindi ai miei errori, ma rimediando ai suoi, potevo semplicemente non affrettarmi. Proprio come avevo affrettato ad innamorarmi di Dan, a dirgli che lo amavo, ad illudere me stessa che volevo solo lui.
E invece no, non volevo solo lui, perché in fondo, Kevin e i suoi capelli biondi mi mancavano. Non era stata tutta colpa sua la mia fuga, il mio terrore, era stata anche colpa mia, della mia debolezza, l’incapacità di capire e di aiutarlo. Perché mi chiedeva aiuto, ogni giorno chiuso in quella cella elettrica, provando a contattarmi, lui mi chiedeva aiuto e lo rifiutavo, pensando volesse farmi del male.
Ma Kevin non si sarebbe mai azzardato a sfiorarmi: quell’episodio al laboratorio era solo la sua routine giornaliera di ragazze da accaparrarsi e una buona dose di trasgressione, di violazione delle leggi.
Il suono dell’aggeggio che portava Kyle sulla bocca mi risvegliò dai pensieri troppo cupi.
«Stai ancora a pensare?» mi rimproverò con aria scherzosa «Guarda che non te lo lascio lo spumante!»
Risi. Anche Will ridacchiò, che lo avevano trovato poco tempo dopo la partenza di Kevin tra le mani dei tizi in nero che non capivo ancora come fossero coinvolti nella storia, i quali lo consegnarono a Kyle e Chris senza problemi. Probabilmente erano di quell’epoca, chissà, agenti speciali. Kevin era stato capace di tutto, ma lo aveva fatto per due motivi abbastanza razionali, se così si potrebbe dire: per gelosia, che lo divorava, lo bruciava, non lo faceva respirare, e l’amore. L’amore non lo divorava, non lo bruciava, lo uccideva e basta. L’amore uccideva sia me che lui. Anche Dan, come chiunque altro.
Avevo dimenticato Dan, eppure ce l’avevo accanto. A rigirarsi i pollici, scrutare i fogli bianchi, scrivere con una penna a inchiostro, compilare quei maledetti moduli che lo torturavano dal giorno precedente.
«E adesso che cazzo scrivo qui? Che vieni dal 3023?» si lamentò poggiando lo sguardo stanco sul mio.
«Non lo so, dì che vengo dalla Norvegia e basta.»
«Devo ancora capire» si intromise Kyle, ma non era il momento di spiegare a lui e Will chi fossi davvero. Chris mi lanciò un’occhiataccia ricordando il momento in cui confessai il mio vero io, ma ritrasse subito lo sguardo e fece finta di nulla. Aveva ben altro da fare.
«Te lo spiegheremo, ma adesso devo capire come funziona questa storia del documento e del certifingato» lo zittii, poggiando la testa sulla spalla di Dan, a leggere quei fogli impossibili.
Kyle scosse le spalle. «Comunque si chiama certificato, non certifiquellochehaidettotu
«Non importa, non sono pratica di queste cose!»
Dan si voltò un attimo e mi mancò il respiro, ero di nuovo troppo vicina ai suoi occhi.
«Propongo di andare all’ufficio postale e spiegare che non hai alcun documento e che devi fartene di nuovi» sussurrò nel mio orecchio, e rabbrividii.
Annuendo, mi alzai e afferrai il giubbotto. Faceva freddo quella sera, e c’era una nebbia fittissima. Londra era davvero la città dei sogni, quella in cui chiunque sarebbe voluto andare a vivere. Perlomeno, la Londra del ventunesimo secolo era stupenda, la iniziai ad amare non appena intravidi i palazzi, le case e tutto il resto. Londra nel terzo millennio era Londra: una capitale uguale a Oslo, uguale a Roma, Pechino, New York.
Rimasi sorpresa quando Dan mi disse che non era New York la capitale, tutto questo perché parlavamo di com’era cambiato il mondo in mille anni, e gli stavo raccontando dei miei amici di NY. Il nome della capitale era Washington DC, che era stata distrutta dopo la caduta del presidente Sean Princerville.
«Io invece dico di tornare alla locanda a dormire, le cose per il lavoro e i documenti di Rachel li potremo vedere domani, anche perché sono le undici di sera e non vedo perché gli uffici dovrebbero essere aperti a quest’ora» intervenì Woody, alzandosi anche lui.
Dan lanciò un’occhiata al suo orologio da polso e rise tra sé e sé. «Quello spumante mi ha stonato.»
«Così impari a bere i miei bicchieri senza che me ne accorgessi» sbuffò Kyle ironico.
Risata generale, e poi silenzio. Un silenzio imbarazzante, che non mi piaceva. Sarei voluta sparire in quel momento, perché non sapevo cosa dire, cosa fare, come muovermi, temevo di dover essere io a reagire e dire qualcosa, che stessero aspettando me, come quando stai per dire qualcosa e tutti aspettano che tu parli. La situazione più assurda, più idiota che poteva capitarmi era quella: stare zitta per non attirare l’attenzione. Attenzioni, poi, che non volevo ricevere.
Fortunatamente Will prese l’iniziativa e si alzò dal divano con il giubbotto tra le braccia conserte. «Beh ragazzi, io torno a casa, si fa tardi.»
Gli altri due ospiti annuirono e approvarono a voce, prendendo le loro cose e dando pacche sulla spalla a Dan e mi stringevano la mano salutandoci con entusiasmo.
Le loro voci tutte unite e poi di nuovo il silenzio. Quel silenzio, invece, mi piaceva. Eravamo solo io e lui, e i nostri silenzi, dominati dagli sguardi, il respiro accellerato, quello sì che mi piaceva. Perché significava che l’uno si interessava all’altra in modo troppo forte per essere nascosto.
I nostri occhi si scontrarono di nuovo, formando quel colore così chiaro, puro, quasi invisibile. Il grigio al blu non erano mai colori da mischiare, formavano quel colore così triste e monotono. Ma ancora una volta, la natura si era sbagliata. Eravamo sbagliati, ma sbagliati l’uno per l’altra. Io ero sbagliata, ma creata apposta per lui. E lui era sbagliato, creato apposta per me. E Madre Natura non poteva creare cosa più bella e perfetta.
Nonostante interrompere quel gioco di fulmini e colori mi dispiacesse, scossi le spalle e iniziai a sgomberare il tavolino e le poltrone dai bicchieri semipieni e le bottiglie vuote, i pezzetti di carta colorati, i cilindri bianchi che emettevano il suono buffo. Tutto ciò che ci aveva separati spiritualmente per qualche ora, ma ci aveva uniti di più, facendoci capire che nel mondo non c’eravamo solo noi, che oltre a noi stessi avevamo bisogno di qualcuno che non ci facesse pensare: gli amici.
Lui si sedette sul divano e continuò ad osservarmi mentre prendevo un attrezzo pesante e scomodo che con un pulsante faceva un rumore forte e aspirava ciò che c’era per terra. Ma Dan lo spense e lo lasciò in bilico, senza farlo cadere. Mi prese per i polsi e mi trascinò su di lui sul divano, fondendo i respiri, i battiti cardiaci, le emozioni. Iniziammo a mischiare anche le labbra, la lingua, il cuore. Niente di tutto questo, in modo così chiaro e semplice, era umanamente possibile. Ma io e lui potevamo perché sì, ne avevamo bisogno.
Le carezze, i brividi. Uno schiocco di labbra, un abbraccio. Stesa sopra di lui, era come se fossimo un’unica persona, potevamo sentire battere sia la parte destra che sinistra del petto. Ci riempivamo, non eravamo incompleti, perché se lo fossimo stati non sarei rimasta lì, con lui.
Mi lasciai sfuggire un “ti amo”, ma non me ne pentii. Quando lo pronunciai tornò ad affondare i denti nelle labbra e punirmi, perché nessuno poteva amarlo, nessuno ci sarebbe riuscito. Eppure io ce la facevo. Lo sopportavo. Faceva male, ma lo amavo.
«Non stasera» mormorai quando poggiò le mani sulla cerniera dei miei pantaloni. Lui annuì, per niente dispiaciuto, e si alzò. Mi prese per mano e mi portò in camera da letto. Ci infilammo sotto le coperte, chiusi gli occhi, respirando a fondo, sentendo che era accanto a me, che mi stringeva. Poi mi addormentai.
Sognai un mare blu.
E le sue iridi, che mi incatenavano come nient’altro. I suoi erano occhi che ti imprigionavano e buttavano via la chiave della cella. Niente di più bello e inquietante.
 
Era più pulita quella mattina: il sole splendeva alto nel cielo, qualche nuvola bianca e morbida all’orizzonte, il venticello ghiacciato a contrasto col calore del sole, qualche uccellino silenzioso che si poggiava lungo i cavi elettrici.
L’insegna della locanda non era accesa, ma il cartello indicava che era aperto. Dan spinse la porta ed entrammo, sorprendendo Woody a scribacchiare qualcosa su un pezzo di carta. Qualche cliente stava seduto sui tavoli di legno a parlottare e mangiare quelle frittelle rotonde e giallognole che avevo già assaggiato. Non avevo più la cognizione del tempo, sembrava fosse passata una vita insieme a Dan e i ragazzi. Invece ero lì da poco più di due settimane, ma l’intensità di ciò che avevo fatto mi faceva già sentire vecchia.
Woody ci sorrise e ci fece sedere al tavolo insieme a Kyle e Will, che ci squadrarono con aria interrogativa, mentre ci portava un piatto di strane brioches francesi di quell’epoca a forma di mezzaluna e dei pezzi di pane tostato quadrati, il tutto accompagnato da un bicchere in vetro pieno di un liquido denso e arancio sbiadito.
Guardai i due davanti a me che aspettavano qualcosa da noi, ma non sapevo cosa. dan si schiarì la gola e puntò gli occhi su di me. Volevano sapere. E io dovevo parlare.
«Allora, ehm... buongiorno» mormorai in preda all’imbarazzo.
«Buongiorno» rispose Will più gentile, ma Kyle gli rifilò una gomitata.
Mi grattai la nuca, ero nervosa. Mi rigirai le unghie, le guardai, buttai lo sguardo ovunque che non fosse su di loro, mischiavo parole insensate nella testa, al contrario dei due ragazzi che mi fissavano in modo poco convincente.
«Rachel, ci hai nascosto tante cose per tanto tempo» mi rimproverò Kyle, ma non me ne feci una colpa né tantomeno suonò come un’accusa.
Sospirai. «Non è passato tanto tempo da quando vi ho conosciuti, e comunque non avrei potuto fare altrimenti.»
«Potevi dircelo che eri... non saprei, tutto quel casino mi ha confuso e io non so più cosa pensare!» alzò la voce come una ragazzina isterica e gli pregai di abbassare i toni, non volevo che le poche persone presenti nella locanda lo sentissero.
Will gli poggiò una mano sulla spalla. «Non ti avremmo mica cacciata a calci se ce ne avessi parlato.»
«Non è semplice come credete, io non... non ero a mio agio. Voi cosa fareste se andreste nella mia epoca? Dove tutte le regole e i modi di vivere sono diversi, insomma... non sapete cosa ho provato e cosa provo tutt’ora. La confusione più totale, i-io non ero in grado di parlarne.»
Dan mi accarezzò il dorso della mano con la quale stringevo la felpa grigia come per tranquillizzarmi.
«Ci siamo ritrovati a rischiare la vita, il carcere o chissà cos’altro per te, e come minimo ci meritiamo delle spiegazioni invece delle tue incertezze. Io pretendo di sapere chi cazzo era quel demente che mi ha chiuso in quella cosa, perché e cosa c’entravo io» protestò di nuovo Kyle.
Dan si sporse verso di lui. «Adesso calmati.»
«Calmati un cazzo, Dan, tu sai già tutto!»
«Io non conosco la storia di Kevin, e ho un rapporto diverso con lei rispetto a te, eppure sono rimasto in silenzio. Ogni cosa ha il suo tempo. Odio vedere quando la mettono sotto pressione, non hai nemmeno idea di com’era conciata la prima volta che l’ho vista.»
Stavano per litigare, e rischiavo di impazzire. «Piantatela, ora vi spiego.»
E nel mentre raccontavo la mia storia, di come ero cresciuta, di Kris, papà e mamma, della vita in Norvegia, di Kevin, il laboratorio, la macchina del tempo, tutto quanto, Dan mi stringeva la mano quando sentiva che stavo per crollare, non mi abbandonava, nemmeno quando parlavo.
Nel frattempo il locale si era svuotato. Erano le tre del pomeriggio, e tra una pausa e l’altra, le domande, le lacrime, gli abbracci, il tempo era volato. Così come la mia voglia di aggiungere altro.
«Hai fatto una bella stronzata, comunque» sbuffò Will, e mi lasciò un po’ confusa. Poi si alzò infilandosi il cappotto e uscì dalla locanda salutando Woody che si avvicinava continuando a guardare l’uscita.
«Per caso gli hai detto che dovrebbe farsi la barba?» domandò serio, mentre io scoppiai a ridere scuotendo il capo.
«Di solito gli da fastidio quando nominano la sua barba ma meglio così.»
Scossi le spalle e sospirai poggiandomi sul legno freddo. Anche Kyle, ormai abbastanza informato e un misto tra incazzato e disorientato, si alzà per andarsene lasciando qualche spicciolo a Woody per la colazione e il pranzo. Rimanemmo solo io e Dan, quando l’amico paffutello si ritirò nel magazzino a sistemare.
Mi lasciò un bacio leggero sulla fronte per spostare la sedia e dirigersi verso il bancone. Strappò un pezzo di carta dal blocco di Woody e iniziò a scarabocchiarci sopra qualcosa. Sembrava un viso dalla forma ovale. Poi ci aggiunse i capelli, le labbra, il naso, e gli occhi. Probabilmente era una ragazza in qualche versione stilizzata, e sorrisi.
«Carina» ridacchiai «come si chiama?»
«Uhm» mise la penna a inchiostro tra le labbra «Anastasia.»
Non trattenni la risata. «Perché?»
«Mi ispira quel nome.»
«E chi sarebbe? La tua fidanzata?»
Scosse la testa. «La mia fidanzata non si può disegnare. Solo Dio poteva disegnarla.»
Arrossii violentemente anche se non sapevo esattamente chi fosse questo Dio, ma immaginai fosse qualcuno di importante o che ricordava la religione.
Si sedette su quella sedia di cui non conoscevo ancora il nome, senza spalliera, più alta, e mi mangiai la testa cercando di pensare e ragionare. Ma non mi veniva in mente nessun nome adatto per giustificare quell’affare. Me lo ero sempre domandato, sin dalle prime volte che ero entrata nella locanda.
Due settimane di fuoco. Di acqua. Di mare. Di amore.
Non sapevo se avrei trascorso la mia intera vita in quel posto, a Congledon, oppure a Londra. Mi andava bene qualunque luogo in cui ci fosse Dan.
Sebbene fosse imbarazzante, alla fine glielo chiesi.
«Dan» lo chiamai, e si voltò.
«Mmh?» mugungò con la penna tra le labbra.
«Ma come si chiamano quei cosi?» indicai la sedia senza schienale che mi aveva torturato i pensieri per tanti giorni.
Rise. «Sgabelli.»
Lo guardai incredula e poi scoppiai a ridere per il buffo nome. Forse non era così male il ventunesimo secolo come pensavo poco tempo prima.
 
Writer’s wall
OMMIODDIO NON POSSO CREDERCI. No cioè ragazzi giuro io non so come ho fatto, da dove mi siano uscite le parole e tutto il resto.
È stata l’esperienza più bella e traumatizzante da quando ho cominciato a scrivere, non avevo mai pensato di raggiungere qualcosa di così, scontata come sono.
Allora, voglio risolvervi alcuni dubbi che sicuramente avete: molte scene dei capitoli (tra cui l’inseguimento, la cattura di Dan, la loro prima litigata e tanto altro) sono ispiratissime ai video ufficiali tra cui Laura Palmer e Things We Lost In The Fire, i miei preferiti in assoluto. L’auto nera, Dan incappucciato, l’abbraccio tra lui e Rachel (che sarebbe la tipa bionda di TWLITF ma più carina, Rachel è davvero bella a parer mio) e insomma, quest’ultimo capitolo mi ha traumatizzata.
Il finale HAHAHAHAH mi state odiando? Se lo fate sono contenta. Comunque voglio sentirvi cavolo, recensite questo benedetto capitolo e insultatemi, doveva essere il più bello e intenso con un finale spettacolare e invece vi lascio così su due piedi.
Non ci sarà un seguito. Puahaha.
Vi aspetto in tanti, spero davvero di avervi messo su tanta curiosità perché era quello l’intento, e se non ci sono riuscita vuol dire che ci proverò nelle prossime storie! Lavorerò tanto, perché voglio diventare una scrittrice, e ho un’infinità di cose da imparare.
Detto questo GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE E DI NUOVO GRAZIE a tutti coloro che mi hanno sostenuta sempre, come nessuno ha mai fatto.
GRAZIE di aver recensito, di avermi corretto gli errori anche con le 3 recensioni neutre/negative, GRAZIE DI TUTTO.
HO GIA’ DETTO GRAZIE?
A presto con le prossime cavolate,Angelica <33
  
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