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Capitolo 3 -
Dicembre
2004
Tom
era seduto a gambe incrociate sul tappeto
marrone del salotto, stava sfregando le mani davanti al caminetto. Di
tanto in
tanto guardava fuori dalla finestra: nevicava ancora molto forte. Si
mise in
piedi, facendo pressione su di una mano per potersi alzare e si diresse
verso
la finestra ad ammirare la bufera di neve. Poggiò entrambi i
gomiti sul piano
di sostegno in marmo bianco e si mantenne il mento con le mani,
guardando in
seguito fuori dalla finestra. Il vento era fortissimo e i fiocchi di
neve battevano
con violenza contro il vetro, e nell’aria si alzava un
turbine bianco che gli
impediva di vedere in fondo alla valle, complice anche il buio.
L’unica cosa
chiara che poteva notare era la macchina dei genitori completamente
sepolta
dalla neve, illuminata dal lampione posto sul ciglio della stradina che
conduceva a casa loro. Tom, così come suo fratello, adorava
la neve. Quella
stessa mattina della vigilia di Natale, erano rimasti fuori quasi tutto
il
giorno, in attesa dell’arrivo dei parenti. Quando poi
ripensò a ciò che era
successo, il suo stomaco fece una capriola e cominciò
nuovamente a sentire al
suo interno le farfalle che svolazzavano felici e beate.
Restò a fissare un
punto qualunque, poi la sua mente si resettò per un attimo,
riportandolo a quella
mattina.
Quella
stessa mattina
«Tom!
Giuro che se mi vai a tirare un’altra
volta una palla di neve ti pentirai di avermi come fratello.»
Bill cercava di
ripararsi dietro ad un albero mentre Tom, invece, cercava in tutti i
modi di
colpirlo con una palla di neve. Più volte c’era
riuscito.
«Esci
fuori allo scoperto se hai il coraggio!»
disse con un tono di sfida, accumulando vicino ai suoi piedi abbastanza
neve da
poterci fare un pupazzo. Bill non si voltò. Restò
con la schiena appiccicata al
tronco di quel pino, con le mani lunghe sui fianchi, respirando
pesantemente.
Dalla sua bocca uscivano una serie di nuvolette di condensa, mentre le
sue
gote, così come il naso, erano di un rosso vivido a causa
del freddo. Il
cappello di lana vergine, la sciarpa, i guanti, le due maglie, il
maglione, il
pantalone in tessuto pesante e gli scarponi da neve, cominciarono a
dargli
fastidio. Si sentiva leggermente impedito nei movimenti e se fosse
dovuto
scappare per non essere preso dalla furia omicida del fratello, di
sicuro
sarebbe inciampato non poche volte.
Lasciò
passare una manciata di minuti, ma Tom non si stava facendo sentire. Si sarà forse arreso? Pensò
successivamente. Fece capolino da dietro l’albero, ma nemmeno
il tempo di
mettere a fuoco la situazione che una palla di neve lo colpì
in pieno volto.
«Ahia!»
Bill strizzò gli occhi più forte che
poté per non far entrare dei fiocchetti di neve dentro gli
occhi. Serrò la
bocca e storse il naso in un’espressione tra il dolore e la
rabbia. «Sei un
idiota!» urlò successivamente, racimolando tutta
la neve che poteva, per poi
sollevarla con le braccia e lanciarla verso Tom. Andò
dappertutto, tranne che
sul fratello.
«Sei
una pizza, Bill!» Rise Tom, mettendosi in
ginocchio e cominciando a ridere tenendosi lo stomaco fra le braccia.
Bill lo
fulminò con lo sguardo. Strinse forte i pugni e si mise a
correre verso di lui
per poi farlo cadere. Cominciò a dargli tanti piccoli
schiaffetti sulla testa,
senza fargli realmente male. Non si rese conto che era sopra di lui, a
cavalcioni.
«Non
è giusto, spetta sempre a te tutto il
divertimento. Io devo sempre prendermi la neve in faccia. Uffa!
Uffa!» continuò
a ‘picchiare’ Tom come se stesse scacciando via le
mosche. Tom non la smetteva
di ridere. Bastò mettersi le mani davanti al viso per non
farlo colpire da
quelle manine così delicate. D’un tratto,
bloccò gli esili polsi di Bill con
una presa ferrea ma delicata nello stesso momento. Per una manciata di
secondi
si guardarono intensamente negli occhi, senza dir nulla.
L’uno era perso nello
sguardo dell’altro. Bill era rimasto immobile, a cavalcioni
su Tom. Si
sentivano solo i loro respiri e di tanto in tanto, lo stridere dei
pneumatici
sull’asfalto ghiacciato.
«Tom?»
«Mh?»
«Mi
sta battendo forte il cuore.» Bill avvampò
in un batter d’occhio.
«A
me fa male lo stomaco.» affermò
successivamente Tom. «È come se un mucchio di
farfalle vi stesse svolazzando
freneticamente felice e contento. »
«Che
cosa vuol dire?»
«Non
lo so» Tom continuava a tener stretti i
polsi di Bill fra le sue mani. Ogni tanto distoglieva lo sguardo dal
suo e
fissava un albero, o un mucchietto di neve racimolata per fare un
pupazzo di
neve, poi lo riguardava di nuovo. «È come se
dovessi vomitare.»
Bill
continuava a fissare Tom negli occhi ma
poi, involontariamente e inaspettatamente – per quanto
inaspettato potesse
essere – il suo sguardo si posò sulle labbra rosee
e carnose del fratello. Oh cazzo! Distolse
rapidamente lo
sguardo, sperando che Tom non se ne fosse accorto. Sbagliato.
«Cosa
c’è?»
«Mi
dispiace. Non volevo!» fece per alzarsi, ma
Tom glielo impedì rafforzando la presa. «Ti prego,
fammi alzare!» riprovò
facendo leva sulle ginocchia, ma non si spostò di un
centimetro.
«Vedi
che non sono uno stupido.» Bill
continuava a divincolarsi per poter liberare le proprie mani; ma Tom
non aveva
alcuna intenzione di lasciarlo andare.
«Tom,
per favore.» voltò lo sguardo dall’altra
parte per non commettere lo stesso errore di prima ma Tom, lasciando
libero un
polso del fratello, portò il pollice e l’indice al
mento di Bill per farlo
nuovamente girare verso di sé.
«Guardami.»
sussurrò, facendo lievemente
pressione sul mento del fratello. Bill oppose leggermente resistenza.
«Guardami,
Bill!»
Così
fece. Bill voltò leggermente lo sguardo
verso quello del fratello, perdendosi nuovamente fra quegli occhi
nocciola così
profondi e chiari.
«Bill,
ti ho detto di guardarmi!»
«Ma
lo sto facendo!» disse poi, confuso.
«Non
così.» sorrise lievemente. «Come prima.
Guardami come prima.» arrossì improvvisamente e
Bill avvampò in un lampo.
Sgranò gli occhi e si morse quasi a sangue il labbro
inferiore. Se n’è
accorto, pensò. Tom lasciò anche
l’altro polso ed andò ad accarezzare leggermente
una guancia arrossata del
fratello. «Ti prego, fallo ancora.»
sussurrò poi. Bill abbassò prima lo
sguardo, fissando il manto bianco di neve alla sua destra,
dopodiché tornò a
guardarlo nello stesso modo in cui lo
guardò prima. Tornò a fissare le
labbra per una manciata di secondi e prima
che potesse dire qualcosa Tom, con un colpo di reni, si
sollevò abbastanza da
poter congiungere lievemente le labbra con quelle di Bill.
*
«Thomas?
Ma non ci senti? C’è un’ordinazione al
tavolo 20. Stanno aspettando da cinque minuti. Sei con noi o
no?» un suo
collega lo fece tornare alla realtà. Per un attimo si era
perso nei suoi
pensieri. Aveva avuto
un’allucinazione o
stava sognando ad occhi aperti? Cos’era quella
‘visione’? «Tom!!!»
Gabriel
lo chiamò ancora e Tom rinvenne del tutto.
«Scusami!
Ero sovrappensiero» disse Tom, prendendo il block-notes per
poi dirigersi verso
il tavolo 20, dove sedeva un uomo sulla cinquantina.
«Vuole ordinare?» Tom si accinse a
prendere
appunti. L’uomo ordinò della zuppa di ceci,
bistecca al sangue e un caffè. Serve
altro? No. Si scusò per l’attesa,
l’uomo fece un cenno disinteressato con la mano come per dire
che gli non
importava.
«C’è
molta gente, oggi.» disse poi l’uomo,
mentre Tom si accingeva ad andare verso il retro del bancone per
prendere ciò
che aveva ordinato.
«Sì!
Davvero molta!» concluse lui, mettendo il
block-notes nella tasca posteriore del jeans una volta che aveva
strappato il
foglietto con su scritto ciò che l’uomo aveva
richiesto.
Andò
dietro il bancone per vedere se ci fosse
ancora della zuppa di ceci. Fortunatamente notò che ce
n’era ancora un po’. Con
l’aiuto di un mestolo versò tutto il contenuto
rimasto in un piatto. Nel
frattempo, aveva messo la bistecca a cuocere sui ferri.
L’avrebbe lasciata lì
poco più di cinque minuti poiché l’uomo
la voleva al sangue. Quando anche il
caffè fu pronto portò in equilibrio su una sola
mano il vassoio con tanto di
scontrino fiscale e dessert alla frutta al cliente. Allo sguardo
scettico
dell’uomo Tom rispose che il dessert alla frutta lo offriva
sempre la casa.
Forse perché faceva davvero schifo e nessuno lo ordinava;
così il direttore
decise di metterlo come ‘omaggio’ Ecco
a
lei, sono 25 euro
L’uomo
lo ringraziò con un cenno del capo e gli
dette una banconota da 50 euro aggiungendo che poteva tenere lui il
resto. Tom
sgranò gli occhi: non avrebbe mai immaginato che qualcuno
potesse dargli 25
euro di mancia. Ringraziò cordialmente – per
quello che n’era capace – l’uomo e
mise la banconota in tasca. Avrebbe cambiato in seguito i soldi. Mentre
stava
per andare, l’uomo l’afferrò
improvvisamente per il polso. Tom lo guardò
perplesso.
«Cosa
vuole?» L’uomo, coperto in volto da un
berretto con la visiera, alzò leggermente lo sguardo verso
il petto di Tom per
poter leggere l’etichetta con il suo nome. Thomas
Trümper. L’espressione dell’uomo
si tramutò in un ghigno; non voleva essere
malevolo, ma era pur sempre un ghigno.
«Tom…»
bisbigliò successivamente l’uomo, Tom
non lo sentì nemmeno. Essendo più forte, con uno
strattone si liberò facilmente
dalla presa ferrea dell’uomo. Senza aggiungere altro, Tom lo
fulminò con gli
occhi e per non rischiare il licenziamento, non gli sferrò
un bel pugno in
pieno viso. Indurì la mascella e augurò
all’uomo ‘buon appetito’.
L’uomo non
rispose, ma mentre mangiava, aveva sempre sul viso quel ghigno
divertito che a
Tom cominciava a dar fastidio. Preferì non fare cazzate.
Schioccò la lingua, e
con aria di superiorità tornò al suo lavoro.
Ma
che cazzo voleva? Pensò,
mentre
prendeva altre ordinazioni. Di tanto in tanto, lanciava qualche
occhiata
furtiva a quello strano individuo che a quanto pareva, non era
più interessato
a mangiare il suo pranzo visto che smanettava furtivamente il suo
cellulare
come se stesse scrivendo un messaggio. Tom lo guardò ancora
un po’, riducendo
gli occhi a due piccole fessure per concentrarsi e cercar di capire
qualcosa,
senza però riuscirvi. Una volta finito il messaggio, si
alzò dal tavolo facendo
stridere la sedia sul pavimento. Rumore attutito dal forte vociare
della gente.
Tom tirò un sospiro di sollievo quando lo vide aprire la
porta e andarsene via.
Ore
17:30
Mancava
ancora una buona mezz’ora prima che il
suo straordinario finisse. La gente, a differenza delle tre di
pomeriggio, era
decisamente meno… ma c’era. Ordinavano per lo
più caffè e brioches, oppure
latte e una fetta di torta, o ancora cioccolata calda. Tom era intento
a
preparare un caffè e a tagliare una fetta di torta alle
pesche. L’ordinazione
era da parte di una ragazza piuttosto bruttina.
L’osservò da dietro al bancone
storcendo leggermente il naso: aveva i capelli rossi – tinti
– incollati alla
testa probabilmente con una tonnellata di lacca. Il codino le scendeva
lungo la
spalla destra, ed anch’esso aveva l’aria di essere
alquanto ‘unto’ dalla
gelatina o dalla lacca. Scosse il capo per evitare di pensare altre
cattiverie
su quella povera ragazza; prese il vassoio e vi poggiò il
piatto con la fetta
di torta, il caffè e – com’era solito
suo fare – lo scontrino fiscale sotto la
tazzina.
«Ecco
la sua ordinazione.» posò il vassoio sul
tavolo e aspettò che la ragazza gli desse il conto.
«Sono 4,50 euro.» aggiunse
successivamente. La ragazza prese lo scontrino, lo guardò. Ti ho detto che sono 4,50 euro, stronza. Cosa cazzo
guardi lo
scontrino? Pensò Tom, irritato dal fatto che la
ragazza non gli avesse dato
fiducia. Cominciò a frugare nella borsa in cerca del suo
borsellino. Dopo una
manciata di secondi lo trovò, estraendo poi una banconota da
5 euro.
«Tieni
pure il resto.» disse poi la ragazza,
senza nemmeno guardarlo negli occhi. Cozza!
Disse Tom fra sé e sé afferrando la
banconota da 5 e mettendola in tasca.
Quel giorno aveva guadagnato in più ben 25,50 euro.
Si
avviò verso l’auto; ormai erano le sei
passate. Mentre camminava scalciava di tanto in tanto qualche
sassolino. Si
incaponì con uno in particolare... di quel passo, senza
dubbio, se lo sarebbe
portato fino alla macchina. Aveva le mani in tasca, e il capo chino; a
volte si
stringeva nelle spalle per il freddo.
Alzò lo sguardo sulla croce verde di una
farmacia lì vicino: segnava -8
gradi. Piuttosto freddo per essere
primavera. Il pensiero gli tornò a
quell’uomo. Che cosa voleva da lui? Lo
conosceva forse? Si stava torturando il piercing al labbro, in cerca di
una
risposta che però non arrivò.
«Sicuramente
mi avrà scambiato per un’altra persona.»
concluse poi ad alta voce; cercando di darsi pace con quella soluzione
e
riuscendo così a tranquillizzarsi, più o meno.
Una volta arrivato all’auto,
smise di scalciare il sassolino. Restò a fissarlo qualche
altro secondo prima
di aprire lo sportello ed entrarvi senza troppi indugi.
«Mamma,
sono a casa!» urlò, chiudendo dietro di
sé la porta a vetri e appendendo sull’appendiabiti
il cappotto e la sciarpa «Accendo
i termosifoni, fa un freddo cane e si gela.» disse, prima di
avviarsi verso la
caldaia e di girare al massimo la manovella della stessa per poter
riscaldare
l’abitazione, talmente fredda da sembrare più un
igloo che una casa di città.
«Mamma,
ci sei?» ripeté, non avendo prima
ottenuto risposta. Si sfregò le mani e vi soffiò
sopra, dopodiché salì le scale
e provò a cercarla. «Mamma? Sono
tornato!» si avvicinò alla porta del bagno e
sentendo il rumore dell’acqua che scorreva, pensò
si stesse facendo una doccia
e decise di bussare.
«Ehi,
Tom, sei tu? Vieni, entra pure!» rispose
una voce bianca, delicata, piacevole da ascoltare. La voce di Simone
era tra le
più belle in assoluto. Ora si spiegava Tom il
perché, quando era bambino, si
facesse leggere ogni notte, prima di addormentarsi, una storia dalla
mamma. O
almeno, così lei gli diceva.
«Mamma,
ti ho chiamato più di una volta.»
sospirò, mentre richiudeva la porta dietro di sé
per non far entrare freddo
nella stanza.
«Ti
chiedo scusa, non ti ho davvero sentito.»
chiuse l’acqua e aprì di botto la tendina della
doccia.
Tom
divenne paonazzo, tanto da confondersi con
il tappetino sotto la vasca e le mattonelle del bagno. Girò
rapidamente lo
sguardo dall’altra parte prima che Simone potesse vederlo.
«Dio
mamma, per piacere, mettiti qualcosa
addosso, non sono più un bambino!» si mise una
mano sugli occhi e le porse
l’asciugamano. Simone l’afferrò
rapidamente, imbarazzata per l’accaduto, e si
avvolse come uno strudel alle mele. «Perdonami tesoro,
è che non sono abituata
a vederti così grande. Delle volte dimentico che non sei
più il bambino di una
volta. Sei un uomo oramai e…» si bloccò
d’un tratto, guardando fisso davanti lo
specchio che in quel momento stava riflettendo la sua immagine sfocata
e opaca
per la condensa formatasi.
«Qualcosa
non va, mamma?» Tom si alzò dalla
tazza sulla quale si era precedentemente seduto, dandosi una spinta con
le
braccia e facendo leva sulle ginocchia. Si avvicinò a lei e
le mise una mano
sulla spalla. Simone, di riflesso, sovrappose la sua a quella del
figlio e la
strinse forte. Guardò l’immagine riflessa di Tom
dallo specchio; gli sorrise
tristemente, per poi voltarsi verso il figlio e abbracciarlo forte.
Tom
rimase dapprima immobile con le braccia
lunghe per i fianchi, poi decise di ricambiare l’abbraccio.
«Ti
voglio bene, Tom. Non dimenticartelo mai, okay?
Qualsiasi cosa succeda in futuro, sappi che l’ho fatta solo
ed esclusivamente
per il tuo bene.» Tom non capì. Si
allontanò leggermente da Simone, giusto quel
tanto per guardarla negli occhi e notare che stava piangendo.
«Mamma,
che succede? È successo qualcosa a
lavoro?» le accarezzò la guancia, asciugandole una
lacrima che tristemente, le
stava rigando il viso.
«No,
Tom, sta tranquillo. Sono solo stanca e
stressata.» lo rassicurò, sorridendogli e
prendendogli il viso fra le mani,
stampandogli successivamente un casto e sonoro bacio sulla guancia
«Sei il mio
bambino.» disse infine, per poi prendere i vestiti puliti e
andare in camera
sua.
«Tom,
per favore, potresti andare a comprarmi
queste cose al supermercato mentre preparo la cena? Non farmi
uscire… andresti?»
disse Simone dal piano di sotto, sventolando per aria un foglietto
stropicciato
come se Tom lo potesse vedere, probabilmente la lista della spesa. Tom
non si
degnò nemmeno di risponderle: in camera sua era ed in camera
sua sarebbe rimasto.
Era disteso sul letto con il portatile sulle gambe, a chattare con una
ragazza
bulgara su Facebook.
«Tom,
mi hai sentita?» ripeté stizzita Simone,
cominciando a salire un gradino dopo l’altro, fino ad
arrivare alla porta
chiusa della camera del figlio. Un cartello affisso sul davanti faceva
capire
nettamente che in quel momento non voleva assolutamente essere
disturbato.
Simone bussò ripetutamente sulla porta, infischiandosene del
cartellino ‘Don’t
Disturb’ affisso sul pomello della porta, fino a farsi male
alle nocche, e
finalmente dopo un’infinità di minuti Tom decise
di alzare il culo dal letto e
aprire la porta della sua stanza, girando due volte la chiave.
«Ti
sto chiamando da più di dieci minuti e sono
qui fuori da non so quanto. Hai sentito quello che ho detto?»
Tom fece una
smorfia e si stropicciò gli occhi, dopodiché fece
uno sbadiglio così grande da
far scorgere la sua ugola.
«No
mamma, non ti ho proprio sentita. Dimmi,
cosa c’è?» disse, fingendosi assonnato e
poggiandosi sullo stipite della porta
con la spalla e incrociando le braccia al petto. Simone lo
guardò con un
sopracciglio alzato porgendogli poi il foglietto con una notevole
quantità di
cose da comprare. «Dio, mamma, ti prego, sono una marea di
cose!» esclamò,
dando una rapida occhiata alla lista, ma una cosa in particolare lo
colpì
maggiormente. «TAMPAX?!» urlò,
spalancando gli occhi, sobbalzando «Non ti
comprerò mai quei cosi, mamma. Insomma, è troppo
imbarazzante. Non lo farei
neanche sotto tortura. »
Simone
scoppiò a ridere e dette uno schiaffo
sulla sua spalla, dicendogli che sarebbe andata lei a prenderli
un’altra volta.
Aggiunse però che ciò che era scritto era davvero
importante averlo subito. Tom
sbuffò pesantemente, per poi chiudersi dietro la porta
mormorando un okay
svogliato. Mise il foglietto sulla sua scrivania e aprì
l’armadio prendendo una
camicia nera, un maglioncino bianco col collo a
‘V’, un jeans bianco sporco e
li lanciò sul letto, dirigendosi poi in bagno per farsi una
doccia.
Chiuse
la porta con il piede e mise lo stereo
ad alto volume per vestirsi. Si sfilò
l’accappatoio e lo lasciò cadere per
terra. Prese la camicia e l’abbottonò fino al
colletto, poi prese il suo
maglioncino preferito e se lo infilò accuratamente, facendo
attenzione a non
scompigliarsi i dreadlocks che aveva da poco sistemato
«Tom!»
urlò una voce dal piano di sotto. «Non
devi mica farti bello per andare al supermercato sotto casa. Sbrigati
prima che
chiuda!» In quel momento Tom bestemmiò in tutte
lingue che conosceva. Non fece
molto caso alla madre e continuò a fare tutto con la massima
calma possibile.
Tom
odiava molte cose, e una di queste era
proprio andare a sbrigare delle odiosissime commissioni cui la madre lo
costringeva: non erano adatte ad un uomo, bensì ad una donna.
Solo
dopo aver fatto urlare per la quarta volta
Simone, Tom decise di scendere dalla sua camera.
«Pensavo
fossi caduto nella tazza del cesso,
vista la flemma che hai avuto.» disse Simone, porgendogli una
banconota da
venti euro. «Si può sapere dove devi andare? Hai
per caso un appuntamento? Ti
sei messo per caso mezza boccetta di acqua di colonia? Emani un profumo
così
penetrante che persino un morto riuscirebbe a sentirla.»
continuò poi,
storcendo il naso, facendo capire a Tom che forse aveva un tantino
esagerato
con l’acqua di colonia. Tom avvicinò il naso
appena sotto l’ascella e inspirò.
L’odore fu talmente tanto forte che gli venne da starnutire.
Simone scoppiò a
ridere.
«Ma
dico io, perché ti sei conciato in questo
modo solo per andare a fare la spesa?»
«Alle
dieci mi viene a prendere Andreas.
Andiamo a ballare.»
«Non
sei già andato ieri sera?»
«Ci
vado tutti i giorni.» prese la banconota da
venti e la mise in tasca senza aggiungere altro. Uscì di
casa diretto al
supermercato che fortunatamente era dietro l’angolo. Dovette
semplicemente
scorgere il capo per vedere se fosse chiuso. Era aperto. Che
palle. Pensò, sbuffando in seguito.
Accelerò il passo, sebbene
fossero appena le sette e mezzo. Non aveva ancora cenato. Mi prenderò qualcosa al panificio
più tardi. No.. La mamma avrà già
cucinato… si arrabbierà.
«Sono
19,20 euro.» la ragazza della cassa finì
di passare tutta la spesa e attese che Tom le pagasse la somma. Tom
infilò la
mano in tasca e prese la banconota da venti porgendola alla ragazza.
Era
davvero molto, molto carina. Un po’ troppo magra forse, per i
sui gusti. E non
aveva un briciolo di seno. Peccato. Aveva
i capelli di un colore nero corvino legati a coda di cavallo, gli occhi
erano
di un color nocciola intenso, molto simili ai suoi, forse un
po’ più chiari, ed
erano leggermente truccati con un po’ di mascara; le labbra
erano molto
carnose, proprio come le sue. Luccicavano per il gloss. Avrebbe giurato
che
fosse alla frutta. Alla ciliegia per la precisione. Il colore rosato
che
rilasciava sulle sue labbra lasciava intendere solo quello. Dopo tutti
i
lucidalabbra che aveva ‘assaggiato’, ormai poteva
definirsi un buon
intenditore. La ragazza prese delicatamente il denaro e chiese
gentilmente se
avesse venti centesimi. Tom scrollò le spalle,
assottigliò le labbra e scosse
il capo. Niente, mi spiace. Mentre
la
ragazza digitava il codice per aprire la cassa, Tom cercava in tutti i
modi di
vedere il cartellino appeso al camice bianco e azzurro della ragazza
per poter
sbirciare il suo nome. Riuscì ad intravederlo: Valerie. Non appena la ragazza prese il
resto, si girò totalmente
verso di lui. Sorrise non appena riuscì a leggerlo del
tutto, compreso il
cognome: Valerie Kaulitz.
Continuò a
sorridere. La ragazza si guardò intorno con aria perplessa.
«Le
serve altro?»
Tom
sorrise ancora di più. Stava facendo la
figura dello stupido. Per fortuna si ricordò quello che
successe la mattina al
fast-food. Ma quella ragazza non sembrava poi così
giovane… forse avrebbe avuto
diciotto, massimo diciannove anni. Rientrava nella sua
‘fascia d’età’.
«Le
serve altro?» ripeté, con tono cordiale.
Tom socchiuse gli occhi e scosse il capo.
«No.
Stavo semplicemente ammirando quanto fossi
bella.» L’ho detto per
davvero? La
ragazza divenne improvvisamente rossa, quasi da confondersi con il
golfino che
portava indosso sotto il camice. Cominciò a guardarsi
intorno, come aveva fatto
in precedenza. Non diede molta importanza a ciò che disse
Tom visto che
un’anziana signora cominciò a schiarirsi la voce
per far intendergli che stava
letteralmente bloccando la fila. Tom la guardò in cagnesco,
ma non poteva dire
nulla. Sbuffò pesantemente, prese la busta della spesa e
dopo aver guardato per
un’ultima volta la ragazza – notando che anche lei
lo stava fissando – decise
di fargli l’occhiolino, aggiungendo anche un sorriso
ammaliante. Questa volta,
Valerie Lo ignorò completamente.
Una
volta tornato a casa, erano le 19:30.
Simone l’attendeva in sala da pranzo, dove aveva
già – come aveva supposto Tom
– preparato la cena. Toast, uova e piselli. Simone sorrise
non appena vide il
figlio con la busta della spesa; lo ringraziò dandogli un
sonoro bacio sulla
guancia.
«Grazie
mille, figliolo. Vieni, è pronto!»
Poggiò
la busta della spesa sul piano da
cucina, l’avrebbe sistemata in un secondo momento.
Andò nella sala da pranzo –
dove Tom era già seduto al suo posto –. Tom prese
una fetta di toast, due uova
e un paio di cucchiai di piselli. Adorava i piselli.
«Tra
quanto tempo viene a prenderti Andreas?»
Tom
fece spallucce e addentò il cucchiaio colmo
di piselli. Contemporaneamente diede un morso al toast. Le uova le
lasciò per
ultime. «Abbiamo della senape?» disse con il
boccone pieno. Simone annuì, si
alzò da tavola ed andò a prendere il barattolo
della senape.
«Non
credi sia poco salutare per uno che tiene
molto alla sua salute?» Tom scoppiò a ridere.
«Cosa?» chiese Simone, non
capendo il perché di quell’improvvisa risata.
«Mamma,
io posso mangiare, bere, fumare
qualsiasi cosa… sono in piena forma. Ho un fisico da far
paura. Guarda!» posò
la forchetta sul tavolo e pompò leggermente il petto, poi fu
la volta dei
tricipiti e bicipiti. Simone scosse la testa e sorrise.
«Sì
okay. Ma io avrei qualcosa da ridire sul
bere e fumare. »
«Mmh!
Non rompere.» disse ironico Tom, facendo
un gesto con la mano. «Sono sano come un
pesce…» fece una breve pausa.
«Nonostante
tutto quello che ho passato. Sono sano come un pesce.»
l’ultima frase fu come
più di un sussurro. Simone lo guardò con occhi
compassionevoli. Allungò la mano
sinistra libera poggiandogliela sul polso, e lo strinse forte come per
dargli
coraggio.
«Ti
ho messo le pillole sul comodino della tua
camera. Non appena finisci di mangiare prendile. Okay?» Tom
non la guardò
nemmeno negli occhi. Quelle pillole erano orribili. Facevano
più che schifo. Ma
per guarire erano utili. Anche se, secondo lui, bastava solo la
magnifica
presenza di Scotty, che anche quella sera aveva entrambe le zampe
poggiate sul
ginocchio di Tom, in attesa di poter recapitare qualcosa. Lo guardava
con occhi
quasi supplichevoli, di tanto in tanto piagnucolava o abbaiava, fino a
quando –
ormai esausto – Tom non gli dava qualcosa.
«Mamma
mia sei un morto di fame! Ecco tieni.»
cercò di cambiare discorso, distraendosi dando un pezzetto
di toast al cane.
Simone continuava a tenere la mano sul suo polso. Chiese se ci fosse
qualcosa
che non andasse. Tom rimase un attimo in silenzio. Sì,
c’era qualcosa che non
andava e lei lo sapeva, lo sapeva benissimo! Ma scosse il capo: non
voleva
dirgli che un uomo al bar, lo aveva afferrato per il polso e lo aveva
guardato
insistentemente, come se lo conoscesse. Ma chi era?
«Tom,
puoi dirmi tutto. Lo sai benissimo. Non
devi tenermi nascoste le cose!» Tom la guardò per
un istante, poi abbassò lo
sguardo rapidamente. Cosa doveva fare? Doveva dirlo?
«Sì,
okay. Però tu devi dirmi come mai, quando
sono tornato da lavoro, mi hai abbracciato e detto quelle
cose!» prese del vino
rosso e se ne versò un’ingente quantità
nel bicchiere di vetro. Simone si morse
le labbra e guardò Tom in modo quasi supplichevole, come se
non volesse dir
nulla. Ma un modo c’era per camuffare la situazione che si
era venuta a creare:
mentire. Come aveva sempre fatto d’altronde e, come temeva,
questo stava
cominciando a ripercuotersi su di lei.
«Nulla
di grave, Tom. Davvero! Nulla di grave.
Il lavoro è davvero tanto impegnativo. Mi porta via un sacco
di tempo ed energie.
E a volte temo di non dedicarti mai abbastanza tempo.» una
menzogna bella e
buona.
«Non
è così mamma. Sono io che ho qualcosa che
non va. Non sei tu.» fece una pausa, bevendo un sorso di vino
e addentando un
pezzo di toast. Poi continuò a parlare – con la
bocca semi piena – «ho sempre
dei flash, sogno ad occhi aperti, vivo ricordi che… Che non
sono i miei…o
almeno, io non li ricordo… a volte ho la sensazione che
questa vita non sia la
mia, ma di qualcun altro.» un altro sorso di vino. Prese una
cucchiaiata di
piselli.
Simone
lo stava ascoltando, e molto
attentamente. Dentro di sé si sentiva morire; era come se
qualcuno le stesse
infiammando tutto il corpo e vi stesse soffiando sopra per far
alimentare ancor
di più le fiamme. Aveva paura, troppa paura.
Deglutì e invitò il figlio a
continuare con un cenno della mano.
«Poi,
la cosa che più mi ha fatto trasalire…
È
un fatto che è successo questo pomeriggio, mentre ero a
lavoro. Un uomo
continuava a fissarmi, insistentemente. Sono andato vicino per segnare
la sua
ordinazione e mi ha afferrato con forza il polso. Ha guardato la mia
targhetta
sul camice, credo. Non ho mai visto quell’uomo in tutta la
mia vita.»
Simone
socchiuse gli occhi e ispirò
profondamente, poi tentò di far finta di niente, scuotendo
rapidamente il capo
e ponendo una qualsiasi domanda: «Ti ha fatto del
male?» domanda più stupida
non poteva porre.
Tom
la guardò stralunato. Certo che
no! Simone cominciò a girarsi i pollici,
inquieta.
«Mamma,
che hai?» Simone non rispose. Sorrise
in modo forzato al figlio e chiese gentilmente se potesse sparecchiare
la
tavola e fare i piatti. Si sentiva improvvisamente poco bene, le girava
la
testa. Tom senza fare altre domande, acconsentì con un cenno
del capo e Simone
gli diede un bacio sulla fronte e gli disse di divertirsi. Lei sarebbe
andata a
letto, sebbene fossero appena le otto.
Quando
si coricò, cominciò a rannicchiarsi su
se stessa, piangendo, e soffocò i singhiozzi con il cuscino
affinché Tom non
sentisse. Continuava a ripetersi il perché… ma in
fondo lo sapeva: perché sono una
cattiva madre. Affondò le
unghie nella federa del cuscino e spinse ancor di più il
volto contro di esso.
Quel messaggio di Jorg, nel pomeriggio, l’aveva distrutta.
‘Ciao
Simone. È
passato tanto tempo, non trovi? Bene, ti scrivo per dirti una cosa: che
cazzo
ci fai qui a Berlino? Io sono alla tavola calda sulla
Kurfürstenstraße, e sai
chi ho visto? Tom. Quando mi avresti detto del tuo trasferimento? O che
Tom
lavorasse in una tavola calda? È vero che siamo divorziati,
ma ho comunque il
diritto di sapere dove vai, soprattutto se c’è di
mezzo una situazione come la
nostra. Per fortuna non mi ha minimamente riconosciuto. Pare che il
nostro
piano funzioni ancora. Visto che ci sono, ti dico anche che Bill sta
bene, e
anche lui non ricorda assolutamente nulla… anche se a volte
dice di avere degli
incubi, dei ricordi di qualcun altro, come se la sua vita attuale, non
fosse la
sua. È capitato anche a Tom? Un’altra cosa
negativa, è che continuano a
piacergli gli uomini. Su questo, non ho potuto far nulla. Non ho niente
contro
di lui, sia chiaro, ma è una cosa che non mi va
giù. Da sempre, e lo sai. Ho
dovuto subire per molto tempo atti di bullismo nei suoi confronti,
quando eravamo
a Magdeburgo. Lo deridevano e mi deridevano. Ora capisco
perché Tom insisteva
così tanto a prendere lezioni di pugilato. Per difenderlo!
Io non sono in grado
di farlo, per questo ho deciso di trasferirmi qui, a Berlino. Ho
persino
provato con lo psicologo: mi ha detto che non può far nulla
su questo, è nella
sua natura. Gli ha suggerito di vestirsi da donna per far sì
che gli atti di
bullismo cessassero. All’inizio ero assolutamente contrario,
ma poi, ho notato
che la situazione era migliorata radicalmente. Lo fa solo quando
è fuori casa
però. Pare davvero una ragazza. Dopotutto, ha sempre dato
quell’impressione. In
questo modo Tom non potrà riconoscerlo. Dobbiamo continuare
a tenerli nascosti
l’un l’altro, Simone. Non dobbiamo lasciare
assolutamente che si incontrino.
Non possiamo farlo. Se ti va, possiamo vederci un giorno e chiarire
qualcosa
riguardo i nostri i figli. Tra l’altro, ho ancora delle cose
di Tom con me. Le
ho in soffitta e non vorrei che Bill le vedesse… sono alcuni
album di famiglia.
Pare che tu non li abbia presi tutti. Jorg. ’
Lesse
e rilesse quel messaggio una miriade di
volte. Non si dava pace... eppure pensava di aver preso tutto. Ma non
era così.
La situazione stava man mano peggiorando. Come poteva dire a Tom che
quell’uomo
della tavola calda, era suo padre?
C’era
soltanto una soluzione a tutto questo:
non dirglielo affatto!