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Autore: Vally98    16/03/2014    0 recensioni
Axel mi si avvicinò di più, tanto che quasi il suo corpo sfiorava il mio. Parlava guardandomi diritta negli occhi come se fossimo soli ed era così vicino che sentivo il suo fiato sulla mia pelle.
- Devi fidarti di me. Io posso aiutarti, so dove lo tengono nascosto.
- Come posso fidarmi di te?
- Sai che puoi farlo.
Era vero. Non sapevo spiegarmelo ma i suoi occhi mi davano fiducia.
Rimasi a fissarlo dubbiosa e quasi con disapprovazione.
Lui si scoprì l'avambraccio tirando su la manica della felpa che indossava.
Rivolse il palmo della mano verso il cielo stellato e mi guardò, prima di posare gli occhi sulla sua pelle nuda.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Arrivai presto davanti ad una casa in legno e pietra, con piccole finestre e piccoli balconi, le cui balaustre lignee erano deliziosamente lavorate.
Il tetto era a capanna e la villa aveva tutta l’aria di una baita di montagna. Era circondata da un piccolo cortiletto dove l’erba cresceva appena. Non c’era una recinzione vera e propria a delimitare la proprietà poiché il villaggio era abitato solo da membri del nostro clan e all’interno del clan ci conoscevamo tutti e tutti ci rispettavamo.
Presi un bel respiro profondo e bussai al portone d’ingresso.
Mi venne ad aprire una donna alta e snella, coi capelli castani raccolti in una crocchia fissa dietro la nuca. Aveva un grembiule legato in vita e ci si stava asciugando le mani.
Sembrava che avessi interrotto un impegnativo lavoro culinario in cui si stava cimentando, vista la sua espressione, che tuttavia cambiò nell’istante in cui mi riconobbe.
- Amaya! – colsi una luce guizzarle negli occhi – tesoro vieni dentro.
Così dicendo mi tirò in casa, chiudendo la porta dietro di me.
Mi fece accomodare in cucina, al tavolo dove avevo consumato tutti i miei pasti durante l’infanzia e l’adolescenza, fino a che non mi ero quasi totalmente trasferita da Dakota.
Mi sedetti a quello che era stato il mio posto a quel tavolo e mia madre tornò a tribolare ai fornelli.
- Krag, guarda che c’è Amaya! – gridò la donna mentre una nuvola di fumo le divampò in viso, fuoriuscendo da una pentola a cui aveva tolto il coperchio.
Finì di trafficare con pentole, fiamme e cibarie varie e poi si avvicinò a me, sfilandosi il grembiule.
Intanto udii i passi pesanti di mio padre scendere le scale scricchiolanti.
- Allora? Qual buon vento ti porta qui? – disse mia madre, sedendosi accanto a me.
- Sono venuta a salutarvi. Sentivo la vostra mancanza, tutto qua – risposi facendo spallucce.
- Amaya – disse la voce roca e grave di mio padre alle mie spalle.
Mi alzai e andai a dargli un bacio sulla guancia, poi si sedette al tavolo con me e la mamma.
- Vuoi qualcosa? Lid le hai offerto qualcosa?
- No, non voglio nulla, grazie. Ho mangiato per strada.
Quasi mi commoveva lo sguardo che avevano i miei genitori in quel momento. Mi guardavano come fossi la cosa più bella al mondo e mi facevano sentire così amata... com’era possibile che fintanto che mi avevano avuta lì con loro tutti i giorni tutte le ore era un continuo litigare gli uni con gli altri, mentre ora che li vedevo sì e no una volta ogni due settimane loro non mi avrebbero mai voluta lasciare andare via?
- Ci sono novità? – chiese mio padre, con la poca euforia che lo caratterizzava.
- Ho trovato il libro. Abbiamo il libro – dissi euforica. Sapevo che prendendomi legittimamente quel merito avrei reso orgogliosi i miei genitori.
- Brava figlia mia – si complimentò mio padre, infatti, mentre mia madre si alzava e mi stampava un energico bacio sulla guancia.
Io sorrisi soddisfatta.
Decisi di non rivelare loro il fatto di aver trovato il terzo guardiano. Erano davvero poche le persone a cui era data la possibilità di conoscere la vera identità dei membri del quadro. Perciò era meglio che tacessi l’intera faccenda.
- Dakota è soddisfatto?
- Lo sai com’è fatto, mamma, nulla riuscirà mai a soddisfarlo.
- Hai ragione – rise.
- Come se la passa? – domandò mio padre.
- Mi sembra un po’ stressato. Più del solito, voglio dire. Con tutti i suoi intrugli e le faccende da sbrigare, siamo sempre lì. Però è troppo impaziente e ha troppi pensieri per la testa.
- Non sai di che si tratta?
- Come potrei saperlo? Sai bene che lui non si confida.
- Beh dovresti stargli vicino. Lui è responsabile di te, ma ciò non toglie che anche tu ti possa occupare di lui.
- Lo so, papà. Lo so benissimo. Ci sto provando, davvero. Farò quel che posso.
- Ringrazialo, quando torni indietro. Per tutto quello che sta facendo per te – consigliò mia madre.
- Mamma non c’è bisogno che me lo dici.
- Oh già. Scusa. Ormai non hai più bisogno che ti dica cosa devi o non devi fare.
La vidi osservarmi con nostalgia, quasi rivolesse indietro la bambina che ero, che aveva bisogno di lei, dei suoi consigli, delle sue regole. Ormai ero cresciuta, ero responsabile di me stessa e di un’impresa dall’importanza colossale, da cui dipendevano le sorti di tutti noi guerrieri.
Sospirai. E mi sentii in colpa per non essere la bambina che mia madre aveva bisogno per sentirsi utile. Proprio così: lei aveva dovuto lasciarmi andare, affidarmi a Dakota che avrebbe saputo guidarmi e proteggermi meglio di come avrebbe potuto fare lei, aveva dovuto rinunciare ad una figlia adolescente, trovandosela improvvisamente e inevitabilmente matura, donna. Lei si sentiva inutile, pensava di non essere riuscita a fare nulla per me, da quando avevo trovato la pietra. Pensava che per compiere il mio destino, per essere all’altezza del mio compito, lei non fosse abbastanza per insegnarmi come fare.
Eppure era lei che mi aveva cresciuta fino a quel punto. Era lei che c’era stata sin da quando ero nata – per la verità anche prima, quando ero nella sua pancia – era lei che mi aveva insegnato a camminare, a parlare, a leggere e scrivere, a osservare il mondo, a vivere. Tutto questo lo avevo imparato da lei e non erano cose da nulla. Anzi.
Le presi la mano e la strinsi forte.
- Ti voglio bene mamma.
   
 
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