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Autore: Amens Ophelia    18/03/2014    8 recensioni
[SasuHina]
Hinata ha poche certezze, dietro quegli occhi chiarissimi: sa che il sole sorge e tramonta sempre, anche dietro le nuvole, e che il suo astro personale è un ragazzo biondo, in classe con lei. Purtroppo è anche a conoscenza del fatto che lui non lo saprà mai.
Troppe sono le cose che ignora pericolosamente, come il posto che occupa nei pensieri di Sasuke Uchiha.
(NB: accenno SasuKarin)
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hinata Hyuuga, Naruto Uzumaki, Neji Hyuuga, Sasuke Uchiha | Coppie: Hinata/Sasuke
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun contesto
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17. Vivere non è sopravvivere
 

 
 
Il tempo era trascorso piuttosto rapidamente, fra quelle quattro mura sterili e chiarissime, quasi abbaglianti, quando colpite dai raggi del sole. Il passare delle ore era stato scandito dalle visite che aveva ricevuto, più che dal ticchettio dell’orologio posto sopra la porta.
            Un riposo tranquillo, il suo, nonostante i dolori e i capitomboli del cuore. La proverbiale quiete dopo la tempesta era calata nel suo petto, permettendole di riaprire gli occhi con quello che sembrava avvicinarsi a un sorriso. Era ancora viva, possedeva la forza per dare prova al mondo che poteva essere vigorosa e invitta.
            Doveva quelle sensazioni positive e inebrianti a poche persone che, in quei tre giorni di degenza, le avevano regalato una serenità inaspettata: Neji, gli zii, Hanabi, Shimoko e, soprattutto, Hiashi. Il padre non l’aveva persa di vista un solo istante, facendo del suo meglio per restarle accanto, superando senza timore la soglia di sopportazione della stanchezza. In quelle ore, non si era praticamente mai mosso dall’ospedale, se non per tornare a casa e riposarsi quel minimo che gli consentisse di reggersi in piedi. Ogni mattina, però, appena scattava l’orario di visita, lui si fiondava nella sua stanza, trascurando la pila di scartoffie che lo aspettava in ufficio. Lei sola aveva la precedenza sul resto.
            Se ne stava nella camera, spesso in silenzio, seduto al suo fianco, osservando il cielo incredibilmente soleggiato per essere pieno ottobre, e non poteva evitare di interpretare il bel tempo come un incoraggiante segno di buon auspicio.
            Non si scambiavano parole, né si riuscivano a guardare negli occhi troppo a lungo, non essendo abituati a tale comportamento, ma a Hinata bastava sentirlo respirare accanto a lei, o annusare il suo leggero profumo che invadeva l’aria, con la sua presenza, per sentirsi meglio. Suo padre era ancora lì, non l’aveva abbandonata, nonostante la criticità del momento.
 
***
 
Così il gran giorno era arrivato.
            Mentre sognava qualcosa che ormai stava svanendo dalla sua mente, alle prime ore del mattino, era già pienamente consapevole che fosse venerdì. Dopo le mille promesse degli infermieri e dei medici, le loro rassicurazioni che entro sabato sarebbe stata dimessa, il fine settimana era divenuto il suo chiodo fisso, un traguardo raggiungibile, a portata di mano, ma, allo stesso tempo, sempre troppo lontano, costretta com’era a rimanere in quella stanza o a spingersi non oltre il corridoio del reparto.
 
Quando riaprì gli occhi, le mani delicate del primario le stavano sfiorando la fronte. Sbatté le palpebre diverse volte, finché non riuscì a mettere bene a fuoco il sorriso radioso dell’uomo, che fece cenno a un’infermiera di sollevare la tapparella.
            «Come ti senti?», le chiese, sedendosi sul bordo del letto.
            Non sapeva cosa rispondere, ancora reduce da un lungo sonno, e faticava a collegare i fili della realtà. I ricordi erano chiari e freschi, nella sua memoria, ma non intendeva minimamente sfiorarli, in quel frangente. Decise di concentrarsi sulla domanda del medico, e si guardò le mani, le braccia, le gambe avvolte dalla coperta ospedaliera, nel tentativo di trovare una risposta. Non sentiva troppo dolore, nemmeno alla schiena, nonostante si fosse addormentata semi-seduta, né avvertiva freddo.
            «B-bene, credo», mormorò timidamente, abbozzando un sorriso. Alzò lo sguardo verso il volto dell’uomo e confermò con decisione il suo responso: «Davvero bene, la ringrazio».
            «Ottima notizia, Hinata!», esclamò lui, perlustrando il taschino della casacca, alla ricerca di qualcosa. Estrasse una piccola torcia, l’accese e la puntò negli occhi della ragazza, muovendola da destra a sinistra. «La tua temperatura corporea si è ristabilita quasi immediatamente e, come abbiamo potuto già verificare nei giorni scorsi, non hai riportato traumi di rilevante entità. Nessuna frattura, né gravi lesioni. Sei davvero forte, nonostante le apparenze», rise, rialzandosi e scompigliandole scherzosamente la frangetta. «Ti abbiamo trattenuta abbastanza, direi. Nella tarda mattinata potrai fare ritorno a casa con tuo padre».
            «Da-davvero?», esclamò quasi incredula, sobbalzando di colpo.
            «Naturalmente, anche se tra qualche minuto arriverà il commissario Uchiha per porti delle domande. Te la senti, vero?».
            Annuì sicura, nonostante il suo bel sorriso si stesse lentamente spegnendo; nell’udire quel cognome, la sua mente corse immediatamente a richiamare l’immagine di Sasuke.
            Perché era stata tanto egoista da non pensare a lui, in quei giorni? Almeno non quanto avrebbe dovuto; non aveva domandato a nessuno come lui si sentisse, nemmeno chiedendo a Neji. Ora che ci pensava, non si era minimamente preoccupata neppure della scuola, di Kiba e Tenten… nulla, un totale occultamento di coscienza. Si sentiva orribile, una pessima amica e un’egocentrica senza riguardo per nessuno. Tutta la sua concentrazione si era divisa tra la preoccupazione per la famiglia e il ricordo di quegli occhi ametista, che l’avevano voracemente scrutata e ferita, martedì notte.
            Rabbrividì, rievocando la voce di Hidan, la sua minaccia proferita poco prima di abbandonarla al proprio destino, al parco, ma si ridestò subito, stringendo il lenzuolo fra le nocche. Aveva terribilmente paura delle possibili ripercussioni di una denuncia, ma sapeva cosa doveva fare e voleva rendersi utile; non poteva, né desiderava nascondersi.
            Ripensò agli occhi liquidi del padre, alle sue parole di conforto, all’affetto di casa; una volta uscita di lì, tutto, finalmente, sarebbe stato diverso, e la figurazione del calore con cui villa Hyuga l’avrebbe accolta riuscì a far affiorare nel suo cuore tutta la determinazione tipica del clan natio.
            Aveva fede nella polizia, nella magistratura, nella famiglia… e in Sasuke. Sperò con tutta l’anima che lui stesse bene e che, nel frattempo, non avesse combinato qualche guaio a causa sua.
 
***
 
Mentre la giovane si riprendeva in ospedale, quella straordinaria e complessa macchina che era la polizia aveva già cominciato a muoversi, raccogliendo le testimonianze di Itachi, Neji e Sasuke ed effettuando sopralluoghi al cantiere. Dagli indumenti ancora abbandonati in quel posto, erano venute alla luce alcune tracce, che sarebbero state incrociate, di lì a poco, con quelle raccolte nella banca dati del dipartimento, nella speranza d’individuare il criminale responsabile di tutto.
 
Fugaku, con un senso di amarezza frammisto a delusione, abbassò la maniglia della porta ed entrò lentamente nella camera d’ospedale, accompagnato dal suo collega. Nelle orecchie gli echeggiavano ancora le parole velenose, ma legittime, di Hiashi riguardo l’incidente della moglie.
            Aveva quasi dimenticato quella luttuosa vicenda che aveva toccato gli Hyuga, cinque anni prima, ma, ora che si ritrovava davanti Hinata, con quell’incarnato pallido che contrastava meravigliosamente con i suoi capelli scuri, tutto gli sovvenne rapidamente.
            Era stato lui stesso ad estrarre sua madre dalle lamiere, dato il ritardo dell’ambulanza. Ne aveva colto probabilmente le ultime parole, giunte frammentarie e insanguinate, da quelle labbra tremendamente vermiglie e deturpate che, in passato, avevano sicuramente conosciuto sorrisi dolcissimi. Gli aveva chiesto, con la tacita forza di uno sguardo, di pensare a sua figlia, a Hinata, ancora stretta nella cintura di sicurezza e con gli occhi sbarrati dal panico.
            Proprio lui, Fugaku Uchiha, l’aveva slegata e sollevata dal sedile, prendendola fra le braccia e allontanandola da quell’inferno, dal corpo ferito della madre, dal suo viso sfigurato dal dolore e dall’impatto. L’aveva data in momentanea custodia a un suo sottoposto, mentre aiutava gli infermieri appena giunti sul luogo a caricare la donna sulla lettiga, rassicurandola sulla salute di Hinata. Lei, probabilmente con le ultime energie rimastegli, gli aveva sorriso, esprimendo così tutta la propria riconoscenza e lasciandolo tramortito da tanta gentilezza. Nonostante svolgesse quel lavoro da diversi anni e si fosse trovato davanti qualsiasi scenario immaginabile, raccapricciante o banale, mai aveva intravisto un bagliore di umanità simile a quello di Haiko, in quel momento. Alle porte del regno eterno, aveva trovato la forza per ribadire quanto fosse straordinariamente umana e angelica, allo stesso tempo, in un solo secondo.
            Quell’identico sorriso triste, ma sinceramente rincuorante, per quanto degli ematomi sul corpo cercassero di relegarlo inutilmente in secondo piano, svettava sulle labbra di Hinata.
Erano passati diversi anni, lei era cresciuta, ma a Fugaku sembrò di essere tornato a quel giorno.
 
La diciassettenne sobbalzò, ritrovandosi davanti l'ufficiale. I tratti del suo viso le erano familiari, e non solo perché molto simili a quelli dei suoi figli: quell’uomo l’aveva già salvata una volta ed era certa che il miracolo si sarebbe ripetuto.
            Nascose il volto tra le mani, sopprimendo l’ennesimo treno di ricordi – recenti e passati – frammisto a lacrime e brividi. Doveva essere forte perché tutto giungesse a termine nel miglior modo possibile.
            «Se preferisci, tuo padre può entrare e assistere…», mormorò il capo commissario, avvicinandosi alla sedia adiacente al letto.
            «No… sto bene», sorrise, tirando su con il naso e mostrando di nuovo la sua faccia. «Davvero, non è necessario. Vorrei parlarne solo con lei».
            L’uomo annuì, facendo cenno al collega di poter uscire. Ammirava la forza d’animo di quella ragazza, così provata da dolori – recenti e passati – che avrebbero sfiancato chiunque. Capiva la sua decisione di lasciare tranquillo il genitore, evitandogli di assistere alla descrizione del reato subìto, e cominciava pure a comprendere perché Sasuke fosse scoppiato in lacrime, sopraffatto dalla rabbia e dai sensi di colpa, mentre gli aveva chiesto di giungere in ospedale, quella notte. Hinata, forse, era riuscita a farlo sentire umano, grazie alla sua inaspettata energia vitale, mostrandogli che, per quanto il mondo fosse duro, iniquo e le cose non andassero sempre per il verso giusto, lasciarsi andare alla deriva non era la soluzione ai problemi.
            Questa era solo una sua ipotesi, certo, ma non per niente era a capo della polizia; le sue capacità deduttive e i racconti che giravano sul suo infallibile metodo d’indagine non erano leggende, in fondo.
            «Prima di cominciare, volevo che lei sapesse che... che devo la mia vita ai suoi figli, soprattutto a Sasuke, signor Uchiha. Non da martedì notte, ma da più di una settimana», ammise lei, lisciando le lenzuola ruvide del letto. Non aveva balbettato, né dato dimostrazione di alcun segno d’incertezza, essendo pienamente convinta del suo pensiero.
             Fugaku si sbalordì, a quelle parole, ma non si azzardò a sminuire la sua affermazione, come avrebbe fatto normalmente. Non credeva fino in fondo che il suo secondogenito potesse essere in grado di far sentire meglio qualcuno, dato il caratteraccio che da lui aveva ereditato, ma osservando la Hyuga, i suoi occhi bassi, le guance arrossate, il timido sorriso incorniciato da due lacrime cristalline, ebbe la conferma di ciò che aveva ipotizzato solo un minuto prima: lei era colei che era riuscita laddove lui e Mikoto avevano fallito.
            «Credo che sia lui a dovere la sua salvezza a te», confessò con una voce che non tradiva emozioni, abituato com’era a rimanere freddo e impassibile di fronte a qualsiasi situazione. Eppure, dentro il petto, il cuore aveva vibrato.
            Hinata si asciugò gli occhi e sorrise, scusandosi per quel momento di debolezza.
            Non pianse più, non ne sentì più l’esigenza neppure quando il commissario – secondo il protocollo – cominciò a porle domande sempre più precise e dolenti.
 
***
 
Hiashi ripose il borsone della figlia nel bagagliaio dell’auto e la aiutò ad accomodarsi al suo fianco, nonostante lei avesse insistito per fare da sola.
            Sembrava in forma, malgrado il tragico evento di qualche notte prima e il lungo interrogatorio del commissario; l’aveva vista sorridere come non la ricordava da tempo, quando era entrato nella sua stanza con il modulo delle dimissioni già siglato, e non aveva nemmeno avuto occasione di spronarla a cambiarsi, perché si era già rivestita con indumenti quotidiani da sé, mentre lo aspettava.
            La guardò di sottecchi, prima di mettere in moto, e si lasciò andare a quel genere di sorriso che, nella mente, accompagnava le parole “Sono orgoglioso di te”. Lo era davvero, perché non l’aveva vista cedere neppure per un minuto, là in ospedale, se escludeva ragionevolmente la notte tra martedì e mercoledì, quando lei era scoppiata a piangere diverse volte.
            Non aveva voluto conoscere da lei la verità sul misfatto, non intendeva costringerla a rivivere di nuovo qualcosa di tanto terribile: avrebbe chiesto al commissario un resoconto delle indagini – accantonando l’istinto di non rivolgergli parola, dopo quella discussione nel reparto – e, appena possibile, si sarebbe messo all’opera per avviare una causa in tribunale.
            «Non vedo l’ora di essere a casa, di fare una sorpresa ad Hanabi, di sentire i miei amici… e tornare a scuola», sussurrò sovrappensiero, osservando il paesaggio farsi sempre più familiare, di chilometro in chilometro. «Domani tornerò in classe, sì», affermò risoluta, mentre un raggio di sole le illuminava un occhio.
            «Non sarebbe meglio lunedì, a questo punto?», domandò il padre, scalando le marce, in prossimità di un semaforo.
            «Ho bisogno di tornare alla quotidianità. Ho voglia di prendere appunti, ascoltare le lezioni, rivedere Kiba, Tenten…». C’era un altro nome a pungerle la lingua, ma lo ricacciò istantaneamente indietro, incapace di pronunciarlo. Per proteggerlo, non avrebbe nemmeno più dovuto pensare a lui. «Mi sento bene, davvero», lo rassicurò, sfoderando un sorriso sereno.
            Hiashi annuì leggermente, seppur avesse intuito che le premeva rivedere anche qualcun altro. Sospirò profondamente, davanti alla luce rossa del semaforo. Cosa doveva fare? Cosa avrebbe fatto Hizashi, se fosse stato nei suoi panni? Delle volte detestava il facile buonismo del gemello, la sua accondiscendenza verso Neji e Hinata stessa; non aveva dimenticato il permesso che le aveva accordato per recarsi alla festa di Naruto, e non gliel’aveva ancora perdonato, in fondo, convinto che quello fosse stato l’inizio dei guai. Eppure si rendeva anche conto di quanto fosse stupido e ingiusto precludere alla figlia qualsiasi possibilità di svolgere una vita normale.
            Con Hanabi non si faceva tutti quei problemi, ma, in fin dei conti, la secondogenita aveva solo tredici anni: cosa mai poteva pretendere, una bambina? Il permesso di fare un giro al parco con l’amica del cuore o un aumento di paghetta.
Hinata era diversa, aveva un’altra età… e in fondo non gli stava chiedendo chissà che, doveva ammetterlo. Nessun coprifuoco posticipato per poter passare una notte in discoteca, né un’auto nuova o un extra per potersi comprare un vestito costoso; gli aveva solo domandato silenziosamente, con uno sguardo, di lasciarla vivere, sbagliare, cadere e rimettersi in piedi da sola, proprio come stava facendo in quei giorni. Aveva rischiato tanto, la vita stessa, eppure era lì, sorridente e tenace come non mai, pronta a ritornare alla sua tranquilla routine fatta di casa, famiglia, amici e scuola. E Sasuke, ormai era chiaro.
            «Papà, è verde», lo avvertì lei, prima che qualche automobilista impaziente cominciasse a suonare il clacson.
            Rimise in moto la vettura, deglutendo. Chi l’avrebbe mai detto che un uomo così integro e impassibile potesse sudare freddo, al cospetto di una figlia tanto innocente quanto forte?
            «D’accordo, potrai tornare domani», le accordò, svoltando l’angolo del quartiere in cui vivevano.
            Poteva davvero essere tanto crudele da spegnere quell’espressione di gioia dipintasi sulla faccia della ragazza, ora che rivedeva casa, in fondo al viale? Sì, ma non era per cattiveria; se lo faceva, era solo per custodire il più a lungo possibile la sua serenità.
            «Ti chiedo solo una cosa, Hinata», mormorò con lo sguardo fisso verso il cancello aperto della villa. «E spero che tu riuscirai a comprendere ciò che mi spinge a esigere questo, da te».
            «Tutto quello che vuoi, papà», lo rassicurò lei, sfilandosi la cintura e affrontando i suoi occhi lontani con tutta la limpidezza che poteva convogliare in un sorriso.
            Hiashi si sentì male, quasi morire, ma spense comunque il motore e si girò in sua direzione. Era l’angelo che Haiko aveva protetto con la sua vita, e lui stava per spezzarle le ali, onde non farla volare via.
            «Promettimi che non lo frequenterai».
            «Chi?». Domanda inutile; gli si leggeva in volto a chi si riferisse.
            «Promettimi che non uscirai con quell’Uchiha, che sarà un normale compagno di classe, per questi ultimi mesi di scuola. Tu stessa hai detto di non esserne innamorata, qualche giorno fa».
             Ricordava quel pomeriggio, il confronto diretto con suo padre, la visita a casa di Sasuke, il thè alla cannella e mandarini, le sue mani… e il bacio in palestra del giorno successivo. Sì, allora non era ancora sicura di ciò che provasse per quel ragazzo, ma ora tutto sembrava più chiaro; l’amore si era insediato nel suo petto ed estirparlo non sarebbe stato affatto facile.
             Si rattristò rapidamente, abbassando il capo. Comprendeva la preoccupazione del genitore: ad occhi esterni, ciò che era successo al cantiere poteva apparire in qualche modo causato da una frequentazione con quel ragazzo dalla fama nefasta, come se stare al suo fianco potesse procurare alla gente eventi spiacevoli. Erano i soliti pettegolezzi facili di città, quelli che lei stessa aveva sentito per tutti gli anni del liceo: Sasuke Uchiha, genio e sregolatezza, eccessi e ragazze, strafottenza e ottimi risultati scolastici. Forse non erano fandonie, ma a lei apparivano tali, per come l’aveva conosciuto. Il ragazzo che si era da subito preoccupato per lei, impegnandosi ad avvicinarla a Naruto – salvo poi farglielo dimenticare completamente – era una persona sensibile, altruista, pronta a tutto, per gli altri. L’aveva salvata ancora prima di quella notte. Tutto era cominciato con quella ricerca sull’età vittoriana; ecco, lì aveva conosciuto il vero Sasuke.
             «Non credo di poterlo promettere», asserì sottovoce, fissando l’ancoraggio della cintura di sicurezza. «Solo una parte di me, forse».
             «Cioè?».
             «La mente, credo. Ma il cuore non può giurare la propria tassidermia. Lo conserverei perfettamente intatto, fuori, ma dentro sarebbe morto, vuoto. Un cuore impagliato… che mi spingerebbe ovunque voglia, in ogni caso», ammise, rialzando lentamente il capo.
             «E tu non seguirlo! Non andare dove ti porta il cuore, Hinata!», esclamò l’uomo, come se fosse la cosa più facile del mondo.
             La ragazza sorrise debolmente. Lei stessa si era imposta di rispettare quel precetto, ma era stata una stupida a non capire che era impossibile disfarsi dei sentimenti. Era tanto insensato quanto voler cancellare dalla memoria, ora, il nome di Sasuke, per proteggerlo.
             «Ci ho già provato una volta, ed è stato inutile opporvisi. Ed è una fortuna, perché avrei perso tutto, probabilmente».
             «Dimmi che ci riproverai. Fallo per me, Hinata», concluse quasi automaticamente, rendendosi subito conto che la risposta che lei aveva dato era quella che avrebbe voluto udire; dimostrava la sua temerarietà, quanto fosse pronta a combattere per ciò che le stava a cuore, arrivando a sfidare i divieti paterni e qualsiasi logica.
              La ragazza tentò di sorridere nuovamente, per tranquillizzarlo, ma quella che accompagnò le sue parole era una smorfia desolata. «Va bene», affermò, scendendo dall’auto.
              Non andava per niente bene, ma capì che era la cosa migliore da fare, per salvaguardare tutti.
 
Ed eseguì gli ordini, il bravo soldato H. Almeno finché poté.
 
***     
 
Le erano mancati quell’atrio affollato, quei corridoi larghi e lunghi, i volti di ragazzi sconosciuti che si confondevano con quelli dei compagni di classe – della nuova e vecchia sezione. Erano passati solo pochi giorni, ma tutto sembrava diverso, elettrizzante, pieno di vita, profumi e colori. Un nuovo ritorno a scuola, dopo quello di settembre, accolto però con ancor più entusiasmo e voglia di gettarsi a capofitto nello studio e nella normalità.
            Il suo tavolo era impeccabilmente pulito, proprio come l’aveva lasciato, se non per quel bigliettino verde che aveva subito intravisto, da lontano: “Bentornata”, recitava. Riconobbe immediatamente la calligrafia di Tenten e abbracciò la sua compagna di banco, lasciandola quasi stupita da tanto impeto.
            «Sicura che ora tu stia bene?», domandò la castana.
            «Sì, l’influenza è passata! Mi sento come rinata», mentì, ricordando la scusa che Neji aveva trovato per giustificare la sua assenza. Lei stessa gli aveva chiesto d’inventare una frottola abbastanza credibile, desiderosa che nessuno si preoccupasse troppo per lei. Voleva insabbiare quella storia e, se suo padre non fosse stato un avvocato tanto autorevole quanto insistente, avrebbe certamente rinunciato a documentarsi per un processo. Non le interessava punire chi le aveva fatto del male, anche se, naturalmente, capiva che una condanna sarebbe stata un ottimo deterrente dal fargli commettere ancora malefatte del genere.
            «Probabilmente avrai preso freddo alla festa di Naruto», osservò Kiba, comparendo dal nulla, alle loro spalle.
            «Oh, sì, è proprio per quello, temo. Che stupida! Avrei dovuto indossare qualcosa di più pesante».
            «La temperatura non era poi così rigida, però. Proprio come in queste giornate: se escludiamo il normale gelo dell’alba, non sembra affatto ottobre», affermò Tenten, guardando fuori dalla finestra. Il sole svettava già sull’orizzonte anche quel sabato mattina, donando al clima un influsso mite.
            «Scusatemi se non vi ho scritto. Avrei voluto, ma mi è passato di mente e…».
            «Hina, ti pare? Avevi altro cui pensare, no? Sciroppo, pastiglie effervescenti, fazzoletti di carta… è comprensibile!», la rassicurò l’amica, risedendosi al suo fianco.
            L’improvviso fuggi-fuggi di studenti verso i propri banchi avvisò Hinata dell’entrata in aula del professor Hatake, ma, prima di accomodarsi sulla sedia, i suoi occhi non poterono evitare di incrociare quelli neri di Sasuke.
            La stava guardando, dalla sua postazione a fianco di Naruto, in piedi come lei. Sembrava stupito nel rivederla già a scuola, e le labbra schiuse parevano voler riversare un fiume di domande.
            Le era mancato, non poteva nasconderlo. Quei giorni in sua assenza erano stati colmati dall’affetto della famiglia, sì, ma rinunciare a lui, soprattutto ora che se l’era ritrovato improvvisamente davanti, era più difficile del previsto.
            Hinata girò prontamente il viso verso la cattedra, stringendo le labbra. Forse aveva letto male il volto dell’Uchiha. Magari era schifato da lei, altro che preoccupato! Dopotutto, l’ultima volta in cui l’aveva vista, lei a malapena sembrava un essere umano; aveva i suoi buoni motivi per considerarla uno spettacolo raccapricciante. Perché era così che la vedeva, no? Meglio rigirarsi e controllare, per accertarsene? E rivedere i suoi meravigliosi occhi scuri, il suo volto caro e doloroso? No, se lo impedì fermamente, sedendosi al banco.
            Sasuke non esisteva, doveva metterselo in testa. Se non l’avesse cercato, lui avrebbe vissuto un’esistenza regolare, di lì in avanti, e ciò le bastava per farle accettare l’idea che la sua sarebbe automaticamente divenuta sopravvivenza, a quel punto.
 
***
 
Karin passò l’intera ora di Letteratura con gli occhi fissi sulla Hyuga, dal fondo della classe. Sembrava serena, nonostante la rossa sapesse bene cosa le fosse accaduto: Hidan l’aveva avvertita, mercoledì mattina, e lei non si era trattenuta dall’urlargli al telefono quanto fosse stato sconsideratamente crudele e imprudente nel compiere ciò che aveva fatto. Gli aveva solo domandato di spaventarla, non certo di minacciarla, di terrorizzarla a morte e cercare di abusare di lei!
            Si sentiva un mostro, ancora più spregevole di quanto già non fosse. Pensò che i ragazzi non avessero torto ad evitarla, a reputarla una ninfomane senza scrupoli, e che si meritasse le cattive compagnie in cui si ritrovava.
            Aveva sempre desiderato una vita normale, come quelle di Sakura, Ino e le altre compagne della 5^F, ma sapeva benissimo che lei non sarebbe mai stata come loro. Non aveva una famiglia solida e affettuosa, alle spalle, né possedeva l’indole più adatta a stringere amicizie durevoli e confortanti. Nel suo cuore non c’era spazio per l’amore, forse solo per l’ossessione; d’altronde, che colpa ne aveva se desiderava solo Sasuke, da tanti anni a quella parte?
            Non si aspettava che Hinata sarebbe tornata a scuola in tempi tanto brevi, dopo il resoconto del sadico giovane dagli occhi color ametista, e rivederla al suo banco, sorridente e attenta alle parole dell’Hatake, da una parte la tranquillizzò, ma, dall’altra, le accese un forte senso d’ingiustizia. Ciò che le era accaduto era profondamente immorale e spietato. D’accordo, era una sua rivale, ma che male le aveva fatto, in fondo? Sasuke era interessato a lei e non poteva dargli torto, ora che finalmente aveva cominciato a far ragionare il cervello: Hinata era una ragazza splendida, positiva e vigorosa, molto più forte di quanto si potesse immaginare. Anche Hidan gliel’aveva raccontato, al telefono, non senza stupore.
            La fanciulla dai capelli blu era riuscita a farle vorticare nel cervello tutte quelle riflessioni con la sola presenza nell’aula, senza nemmeno girarsi in sua direzione e sottoporla a uno sguardo limpido dei suoi. L’aveva folgorata con le spalle, con il capo ritto verso la lavagna, con i gesti armoniosi delle mani, con i sorrisi che rivolgeva a Tenten, di tre quarti.
            Possibile che Karin stesse maturando una conversione d’anima, quel sabato mattina, mentre il professore stava spiegando chissà quale poesia?
            Mortificata, indirizzò uno sguardo fugace verso Sasuke e non si sorprese nel trovarlo intento a fissare la Hyuga, proprio come lei, qualche istante prima. A dispetto di come avrebbe reagito giorni addietro, sorrise debolmente, abbassando gli occhi. Aveva capito, finalmente. Ostacolare il loro avvicinamento e pretendere di far innamorare di sé qualcuno che non avrebbe mai potuto ricambiarla era stata un’azione profondamente meschina.
             Le aveva provate tutte, dalle avances spudorate al sesso, e lui era divenuto la sua ossessione; si era illusa di averlo in pugno, di poterlo tenere tutto per sé, senza capire che non sarebbe mai riuscita ad afferrare la sua anima, perché lui era ben determinato a tenergliela nascosta, onde mostrarla solo a chi meritasse maneggiarla con le dovute cure. E Hinata era la persona più consona a sanare le crepe dell’Uchiha, non poteva negarlo. Non provava invidia, solo tristezza e avvilimento: era stata la mandante di un crimine! Aveva spinto la povera diciassettenne nelle grinfie di un individuo ben più pericoloso di quanto non avesse immaginato.
            Capì che doveva fare qualcosa, almeno per estinguere minimamente quel senso di colpa opprimente. Così, non appena suonò la campanella, cacciò l’astuccio e il quaderno nella borsa e si diresse in segreteria, simulando un malessere stagionale.
 
***
 
Hinata osservava la propria immagine riflessa nel vetro della porta dell’ufficio scolastico, attendendo che Neji ne uscisse. Poco prima che la campanella della fine delle lezioni suonasse, il bidello era infatti entrato in classe e aveva chiesto al giovane di recarsi in quel locale del piano terra.
             Così lei l’aveva accompagnato, per poi tornare a casa insieme.
             Ciò che intravide nel riverbero le piacque, inaspettatamente: non era dismessa come temeva, in fondo, né riportava esteriormente i piccoli dispiaceri che invece dentro la deturpavano, soprattutto da quella mattina. Gli occhi non erano segnati da violacee occhiaie o arrossamenti, il viso non si era smunto o aveva assunto un colorito smorto, né il collo mostrava ancora i segni della colluttazione; tutto era come sempre, la recita che aveva messo in piedi davanti ai suoi compagni di classe non era stata tradita da dettagli fisici preoccupanti.
             Era talmente assorta nella propria contemplazione da non avvertire dei passi avvicinarsi, alle sue spalle.
             «Hinata».
             Conosceva quella voce e solo il Cielo sapeva quanto le fosse mancata. Aveva desiderato risentirla, durante le notti passate in reparto, o anche solo poter rivedere di sfuggita il suo proprietario. Adesso poteva scorgerlo al suo fianco, rispecchiato nel vetro, ma non osava incrociare nemmeno indirettamente il suo sguardo, consapevole che, se l’avesse fatto, tutti i suoi buoni propositi di dimenticarlo sarebbero andati a monte.
             «Stai bene?», le chiese semplicemente, sollevando con titubanza una mano in sua direzione, ma senza trovare il coraggio di sfiorarle la spalla. Aveva paura di ferirla, di poterle ricordare quella terribile notte.
             Lei annuì debolmente, chiudendo gli occhi. Avrebbe voluto girarsi, sorridergli, abbracciarlo, ringraziarlo di cuore per tutto ciò che aveva fatto per lei, e scusarsi per le mille preoccupazioni causategli, ma si mantenne ferma nella sua posizione.
             «Mi dispiace non essere venuto a trovarti… non me la sono sentita. Sono uno stronzo, ti ho lasciato da sola, non ho scusanti», crollò, sospirando.
              La ragazza sgranò gli occhi, a quelle parole. Come poteva essere tanto duro con se stesso?
              Si girò lentamente verso il moro, contravvenendo al patto con se stessa; non sopportava l’idea che Sasuke si biasimasse per così poco, quando lei era ancora sana e salva solo per merito suo, probabilmente.
             Tenne lo sguardo basso, sulle scarpe del corvino, per qualche istante, per poi risalire lentamente verso l’alto: i suoi pantaloni scuri, la giacca e la camicia, il colletto e, infine, il volto. Un timido sorriso le solleticò le labbra, ma strinse i denti e si costrinse a non cedere. Doveva salvaguardarlo e far sì che lui la perdesse di vista.
             «Sei incredibilmente forte, Hinata, e davvero… davvero bella». Dio, perché la sua voce tremava? Sasuke Uchiha stava arrossendo, davanti a una ragazza?
             La Hyuga rimase di sasso, incapace di replicare o sminuire quel complimento. Non poteva smettere di guardarlo negli occhi, di annegare nel nero profondo e caldo delle sue iridi, proprio come lui non riusciva a distogliere le sue da quelle perlacee di lei. Si erano ritrovati, a un passo dal perdersi per sempre.
 
Neji richiuse la porta della segreteria e ridestò la cugina, sfiorandole un braccio.
            «Mi hanno riconsegnato il cellulare. Dicono che sia stato trovato in palestra da una ragazza e che lei abbia compreso fosse il mio dal nome che ricorreva in diversi messaggi ricevuti», dichiarò sollevato, osservando il telefonino.
            «Una ragazza, eh? Se l’hai dimenticato in palestra, è probabile sia stato rinvenuto nello spogliatoio maschile… come può averlo trovato una studentessa?», ragionò Sasuke, alzando lo sguardo verso lo Hyuga. Senza contare che quel martedì era stato lui l’ultimo a uscire dallo stanzino maschile e che non aveva intravisto alcunché di dimenticato dai propri compagni di classe.
            «Già, in effetti qualcosa non torna. Mi pare impossibile averlo scordato là… e poi, in questi quattro giorni, qualcuno avrebbe benissimo potuto scorgerlo e rubarlo, mentre si cambiava per la lezione di Ginnastica».
            «Per fortuna esistono ancora persone oneste», s’intromise timidamente Hinata, nella speranza che la discussione finisse lì. Desiderava tornare a casa e scrollarsi di dosso il disagio che la presenza di Sasuke le provocava. Evitarlo era difficile, quasi impossibile, dal momento che ogni parte di lei – cervello escluso – aspirava a bearsi della sua vicinanza.
            «Tutto è bene quel che finisce bene», concluse Neji, riponendo l’apparecchio nella tasca dei pantaloni ed estraendovi le chiavi dell’auto. «Ci si vede lunedì», salutò l’Uchiha, dirigendosi verso l’uscita dell’edificio.
            Hinata non aggiunse altro, accingendosi a seguire il cugino, ma Sasuke, mal tollerando quel silenzio che gli appariva fin troppo forzato anche per una come lei, le si parò davanti, inibendo ogni remore.
            «Vorrei parlarti. Hai impegni, oggi pomeriggio, alle cinque? Ti vengo a prendere e poi potremmo bere qualcosa in una caffetteria…».
            «No», negò con uno sforzo immane, fissando le labbra schiuse del ragazzo. Avvertiva un dolore fortissimo, all’altezza del cuore, dopo aver pronunciato quel monosillabo che raramente aveva articolato, nella sua vita. «Non posso», aggiunse, nel tentativo di addolcire quel secco rifiuto, senza però dare spazio a spiegazioni o scuse.
            Non poteva, era la verità. Non poteva permettersi di fargli correre altri rischi o innamorarsi seriamente di lui.
 
Si affrettò a raggiungere Neji, allungando il passo, quasi correndo, mentre attraversava l’androne deserto della scuola. I passi vellutati sembravano rimbombare come cannonate, e il dolore che provava al cuore non era poi tanto dissimile da quello che poteva provocare un colpo d’artiglieria, in fondo.
            L’aveva deluso, ne era certa. Lui si era preoccupato per lei, in quei giorni, e Hinata non si era azzardata a chiedere sue notizie, a contattarlo, in qualche modo. Più si ripeteva che era la cosa migliore da fare, meno ci credeva. Più si allontanava da lui, meno capiva se stessa.
            Sentiva i suoi occhi neri addosso, puntati sulla schiena, mentre spingeva la porta vetrata dell’ingresso e raggiungeva il cugino; avrebbe desiderato tornare indietro e scusarsi, spiegargli almeno il perché del suo essere improvvisamente discostante, ma si rese conto che ormai il danno era fatto, che il meccanismo era entrato in azione. Ed era per la salute di tutti, si ripeté per la centesima volta, allacciando la cintura di sicurezza.
            Appena la macchina imboccò la strada principale, lanciò un’occhiata allo specchietto retrovisore esterno: Sasuke diventava sempre più piccolo e lontano, nel riflesso, mentre acquistava sempre più spazio e rilevanza nel suo cuore.
            Aveva appena commesso un grave errore: innamorarsi e condannare simultaneamente il proprio amore all’infelicità. Comprese con alcuni funesti minuti di ritardo che vivere non poteva ridursi a sopravvivere.




Miei cari lettori, perdonate l'attesa. Stavolta non è passato un mese, ma poco ci mancava! 
Non voglio tediarvi con l'ennesimo sproloquio di scusanti, perciò vi risparmio le giustificazioni di rito, e vi ringrazio per essere arrivati fin qui, con me, a fine pagina e, fuor di metafora, alle fasi finali della storia. Manca davvero poco e ancora non mi sembra vero, perché la mente ha 
già partorito tutto! (La mente, però, e non la penna, sigh!) Sono già più sollevata e spero che ciò che leggerete tra qualche settimana, prima della parola "fine", possa piacervi!
Così come spero questo capitolo sia stato di vostro gradimento. Un ritorno alla normalità, finalmente, e un angolino per descrivere le sensazioni di personaggi diversi. Già, anche Karin, perché mi dispiaceva lasciarla come pura antagonista della vicenda: sono dell'idea che nessuno è veramente cattivo fino in fondo, che ci sia sempre una ragione a muovere i fili delle storie personali. 
Detto questo, spero davvero di potervi risentire presto e vi abbraccio, annunciandovi che il diciottesimo capitolo sarà un SasuHina a tutto spiano. Così tanto SasuHina da averne abbastanza e implorare pietà, temo ahahah No, scherzo, mi tratterrò nei limiti della decenza!
Un bacio e buon proseguimento 


Ophelia

 
   
 
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